Plastica

Io penso che ci sia poco di vero. Molto poco nelle vostre relazioni, nei vostri report. Molto di più mi venne dato quella volta in cui, in un pomeriggio di siesta, mi raccomandai in spagnolo verso i più profondi significati delle parole nelle bocche altrui. Mi sentivo tutto sommato sereno, solo qualche difficoltà nell’apparire rassicurato. Ogni senso d’impotenza era polvere sulle dita d’un dattilografo sordomuto, e tanto pareva convincermi ad andare avanti. Avevo come la convinzione che i report fossero troppo importanti per essere tralasciati nelle mani di pochi addetti ai lavori come voi, mi sembrava fosse sprecato il talento richiesto, le vostre dita pullulavano di iridescente inadeguatezza e mi turbavano senza tregua. Non mi pare di appartenervi, ma senza gloria i vostri futuri mi appaiono grigi come madreperle fuori stagione, e tanto mi basta. Nella notte di gloria fuori misura, l’accomodamento è irrealtà, e voi mi sembrate plastica.

Bagliori

Sul grande tavolo di legno massiccio, la luce verde della vecchia lampada di vetro si intrecciava in bagliori acidi con il riflesso della ceramica, e non riuscivo a smettere di seguirne la perversione dei continui mutamenti di forma. L’espressione, elettrizzata nei consueti accenni narcolettici, mi inchiodava lo sguardo sulla scia di caffè, che dal bordo della tazza andava a disperdersi lungo il piano rotondo dell’imponente scrivania, quasi come venisse incontro a reclamare l’abbraccio delle labbra prematuramente sottratte. Scostai nuovamente la tazza, versando dell’acqua sul cerchio ambrato lasciato sul tavolo, e strofinai via con la manica quella mia distrazione. Per un istante lasciai sbattere la fronte sulla superficie inumidita della scrivania, sforzandomi di ignorare il segnale penetrante della sveglia, venuto a reclamare le mie ore di sonno. Un battere ingenuo venne a bussare alla mia porta, sferragliando nervoso come cinque unghie che sporte fuori dal finestrino tamburellano sulla carrozzeria metallizzata di un’auto in corsa. Il pistone della sedia da ufficio continuava a dare segni di cedimento e mi costringeva intervalli precisi di quiete tra uno scatto e l’altro del sedile regolabile. Davanti al naso, polvere e cenere si fondevano in sfumature sinuose e ondulate, interrotte dal solco distruttore che con la punta della lingua imponevo su di esse. Nell’aria profumo di incenso e yerba mate restituiva alla tranquillità l’idea di adeguatezza che gli scricchiolii del portacandele, provato dalle sue stesse temperature, avevano strappato alla mia quiete. Il braccio annodato su sé stesso bastava a convincermi dell’attesa, e cominciai a chiedermi quale fosse la spiegazione reale della mia ossessione per il bussare. Da solo era sufficiente a rovinarmi una giornata, e fu troppo tardi per farlo sapere ai miei, quando me ne resi conto. Probabilmente buona parte della mia esistenza era stata condizionata dalle disattenzioni di quella consapevolezza mancata; e forse in quel momento, al di là dei vincoli del mio stesso corpo, incastrato nel tavolo, ne percepivo il lamento, la compassione. La scia di caffè ci fissava impotente, costretta nei suoi bagliori acidi, e con fare disinvolto reclamava uso e consumo della sua punta di lingua personale. Annoiata dagli accenni narcolettici, e dalla mia folgorazione, dovetti aver pensato di accontentarla.

Undici

La prima volta che la vidi teneva le gambe incrociate appoggiata di schiena alla ringhiera del giardino di casa. La mia finestra dava sull’altro lato dell’edificio, così dovetti aspettare l’ora dell’aperitivo al bar prima di notarla; a giudicare dai jeans alti in vita e dai giochi di luce che le scorrazzavano in fronte sotto i capelli tagliati cortissimi pensai fosse una delle nuove accompagnatrici della vedova a cui avevo affittato il secondo piano. Non fu poco lo sforzo per tenere a bada le retine, e forse fu proprio lo stridio dei loro denti ad attirarne l’attenzione. A che poteva servire presentarsi quando ci si poteva tenere per mano? E tenersi per mano, quando ci si poteva baciare. E baciarsi, quando si poteva prendere e andare via, verso la prima scacchiera gigante che il mondo c’avrebbe messo sotto ai piedi, fosse anche solo per farci ridere delle facce buffe che quel gioco improvvisato c’avrebbe ispirato. E a che serviva giocare, quando il gioco potevamo essere noi? E come mai tante domande è difficile chiederselo sul momento, così rimandai fino all’incidente. Dopo la sua morte me ne tornai a casa, per la prima volta dopo tanti anni. Non era cambiato quasi niente, se non per l’espansione incontrollata della vedova, che aveva ampliato il suo harem personale al piano inferiore dello stabile, sentendosene pienamente in diritto dopo il rapimento della sua nuova vittima. In quella che era stata la camera da letto aveva sistemato una sala massaggi, con tanto di fanghi rivitalizzanti, armadietti stracolmi di creme benessere di ogni tipo e una quantità ineguagliabile di flaconi d’olio aromatizzato al caramello. Nella cucina aveva allestito una specie di spogliatoio improvvisato, direttamente comunicante col salotto, un esaltante bagno turco interamente piastrellato di arabeschi sfumati dal celeste pastello al blu oceano. La toilette era l’unico spazio rimasto come l’avevo lasciato, abbandonato al suo ultimo giorno di pulizia. Tentai alla buona una sistemazione temporanea, riadattando la vasca da bagno con qualche cuscino e una coperta; trascorrevo notti d’inferno tra le vampe fetide delle tubature otturate, le viscose incrostazioni di calcare e acidi lichenici e i fastidiosi andirivieni delle blatte notturne, anche se a tormentarmi in assoluto di più erano le eco tremolanti dei muggiti saffici di cui la vedova non riusciva a saziarsi mai definitivamente. Nessuna delle sue donne aveva scelto deliberatamente della propria sorte, ma per qualche oscura ossessione non erano più riuscite ad allontanarsi dalla vedova. La sua prima vittima era stata una giovane inerme postina, la seconda e la terza due baby-sitter attirate dalla promessa di un sostanzioso stipendio stampata su un volantino, la quarta una donna delle pulizie, la quinta e la sesta due passanti che avevano forato con la macchina. La settima fu mia madre, attirata nel suo appartamento con la più banale delle scuse subito dopo un’irruzione in casa mia all’ora di cena, che adesso non riusciva più nemmeno a ricordarsi di me. Le successive tre furono il suo vero capolavoro: spacciandosi per vittima di maltrattamenti domestici portò davanti a un tribunale il nome del marito deceduto. Il processo cadde inevitabilmente nel nulla dopo poche udienze, e la vedova se ne tornò a casa con l’avvocato, il giudice e una quindicenne cieca, presa di forza dalle braccia dei genitori che se ne contendevano l’allontanamento in un caso di divorzio nell’aula accanto. L’undicesima, tutto l’amore che abbia avuto in vita, era l’unica arruolata volontariamente. Per quanto insistessi, non riuscii mai a farmene spiegare il motivo, e ogni volta entrassi nell’argomento il volto le si contorceva in espressioni scomposte e riluttanti, come se sopraffatta dal brivido di un piacevole e misterioso fastidio intimo tentasse di convincermi a cambiare discorso. Ma più di ogni altro aspetto di quella vedova mi affascinava l’assoluta tranquillità e trasparenza con cui manifestava il suo indiscusso potere coercitivo. Quella che un tempo era stata casa mia si era adesso trasformata in una sorta di provincia autonoma, in tutto e per tutto indipendente da vicissitudini e organismi esterni, in cui ogni autorità era rimandata soltanto alla capacità attrattiva con cui convinceva giorno dopo giorno le sue lesbiche a vivere in completa dedizione alle sue manipolazioni sessuali. E il tutto si svolgeva con una drammatica quanto disillusa semplicità. La vedova, fatta eccezione per mia madre, era l’unica capace di gestire gli impegni della quotidianità e la sola sufficientemente abile da soddisfare esigenze e necessità di ognuno. Provvedeva personalmente al sostentamento di tutte, cumulando i risparmi che ognuna aveva messo a disposizione, e nonostante l’accondiscendenza generale nessun vincolo esplicito impediva alle altre di uscire, di mantenere interessi personali o frequentare individui esterni alla casa. Nel periodo di lontananza avevo perso ogni forma di controllo sull’edificio, così come ogni rilevanza nei processi decisionali. La vedova, col suo esercito di lesbiche, dominava in casa mia con la stessa brutale indifferenza di una mantide religiosa che squadra il partner prima del rapporto, e non ci volle molto prima che quella stanza da bagno si trasformasse nella vanga della mia quieta e distaccata sepoltura. Nonostante i continui sforzi per ridurre al minimo gli impatti della mia presenza, quel ritorno inaspettato sembrò turbare l’equilibrio naturale stabilizzatosi nel tempo; le presenze maschili non erano più contemplabili e il mio isolamento fu l’unica alternativa sostenibile all’uso della forza. La comunicazione mi arrivò per iscritto, in una lettera tenuta tra i denti e consegnatami per interposta persona dalla ragazzina cieca, la più giovane delle lesbiche, mentre dallo spiraglio della porta socchiusa filtravano i vapori del bagno turco accompagnati dal sapore tiepido degli incensi accesi notte e giorno. Puntualmente a ogni ora di pranzo la ragazzina tornava a farmi visita col suo vassoio di ceramica e le razioni abbondanti del consueto minestrone di cereali accompagnato da qualche fettina di carne e insalata. Provavo un certo fastidio verso quella sua cecità, anche se il vero ostacolo alla conversazione era il costante stato di imbambolata apatia che sembrava risucchiarle in un vortice di ulteriore inespressività il complesso mosaico di muscoli facciali e lineamenti delicati rimasti orfani della profondità dello sguardo. Il tempo trascorso insieme era per entrambi poco meno di un rituale, l’esigenza comune dei rispettivi obblighi professionali che ci costringeva a interminabili spasmi di silenzio e contemplazione a vuoto in compagnia di licheni e scarafaggi, e lo restò saldamente fino al giorno in cui lo sbattere delle sue nocche sul legno cadente della porta mi sorprese ancora svestito. Nelle stanze al piano di sopra le eco tremolanti dei muggiti circondavano la vedova insaziabile con la forza penetrante di un riflusso gastrico incastrato a metà strada in uno scarico otturato, e l’espressione divertita che per la prima volta terrorizzò di contraddizioni l’immagine sputata sulla cornice arrugginita dello specchio fu sufficiente a convincere la fronte scintillante sotto i capelli tagliati cortissimi e i pantaloni alti in vita, convincerla che l’undicesima era finalmente tornata a casa.

Musical

La prima volta che la vidi se ne stava appoggiata a un albero nel parco, rovistando nella borsetta. Gli appassionati di lieto fine e storie romantiche non riescono a comprendere la totale indifferenza del proprio mondo attraverso le retine degli altri, pertanto non sarà dato loro nessun avvertimento e si declinano per intero le responsabilità conseguenti. Nella borsetta, una conchiglia spaventata a morte dalla luce del giorno cercava riparo tra le cuciture rifinite del tessuto. E intendo proprio che stavolta non si potrà confidare nella tempestività di nessun eroico paladino difensore del pubblico buonumore. Le sue dita sbocciavano come petali dalla manica arricciata della fresca camicetta, solleticati dalla leggera brezza primaverile di un primo pomeriggio assolato. A questo punto non potrete più tirarvi indietro, e non avrete scampo quando le cose cominceranno finalmente a mettersi male. Io me ne stavo seduto in mezzo al prato, dall’altro lato del laghetto delle anatre, tamburellando nervoso sulle ginocchia incrociate senza riuscire a distoglierle lo sguardo dai riflessi dorati che si rincorrevano lungo i suoi capelli rosso sangue. Cominciate a sospettare qualcosa? Vorrei soltanto poter osservare le vostre facce, quando capirete che oggi non sarete consolati e rassicurati come al solito. Improvvisamente il volto le si corrugò in un’espressione stizzita, dovuta ai fastidiosi dispetti della conchiglia indisciplinata, e io restavo pietrificato a guardarla, vittima impotente della forza attrattiva tutt’altro che verosimile di quella donna. La mia predatrice, che ormai mi teneva in fin di vita stretto in mezzo ai denti. Continuate, continuate pure, tanto non c’è più niente da fare. Sapevo di essere incappato in un qualche maligno sortilegio, in un falso innamoramento letale che m stritolava col suo flusso continuo di manipolazione psichica e sconcerto esistenziale. Non uno dei soliti musical da adolescenti a cui siete abituati, giusto? Finalmente riuscì a trovare la conchiglia, e riappoggiandosi al tronco del grande platano la estrasse. Cominciò a contemplare le magnifiche colorazioni in costante mutamento che le si dipingevano sul palmo della mano, e senza lasciarle il tempo di stancarsene mi ero già seduto accanto a lei. Cominciò a parlarmi del suo rapporto con la città, di come quel parco stesse cominciando a diventare la sua unica ragione per uscire di casa e, solleticata dalla mia curiosità, iniziò a raccontarmi la storia di quella sua conchiglia. Mi disse l’aveva ricevuta in dono dal primo marito, grande appassionato di pesca subacquea e rimasto ucciso poco dopo il matrimonio da un terrificante incidente ferroviario. Prese tutto il tempo necessario per dilungarsi dettagliatamente sulla profondità del suo rapporto con la conchiglia, lasciandosi andare sregolatamente a esternazioni appassionate che fino a quel momento doveva aver rivolto a poche persone. Subito dopo mi si scaraventò addosso e iniziò a baciarmi, continuando a replicare sempre più violentemente alle mie sommesse riserve, all’imbarazzo che mi procurava doverla informare della mia ferma convinzione di annientare il lieto fine, in favore di un qualche emblematico risvolto finale che lasciasse l’amaro in bocca anche ai più spericolati. Resistetti anche all’eccitante fase di svestizione, ma non ci fu più niente da fare quando, spingendomi a forza la conchiglia contro la fronte, cominciò seriamente a farmi male.

Chat

Sapeva che sarebbe successo di nuovo. 19:11, niente.
Lo sguardo spento, ripiegato lungo la segnaletica, cercava di rassicurarlo silenziosamente, mentre senza comprenderne a fondo il motivo si era ormai quasi del tutto rassegnato a farsene una ragione. I riflessi dei lampioni si infrangevano come zolfo incandescente tra le portiere metallizzate e gli angoli scanalati dell’imponente scaleo da cantiere che giaceva ripiegato lungo i sedili posteriori reclinati dell’abitacolo. Quel mosaico di bagliori isterici, proiettato in mezzo alle bruciature di sigaretta sul tettuccio dell’auto, era rimasto probabilmente l’unico labile collegamento psichico tra il suo ecosistema mobile e la realtà circostante. 19:37, niente. Gradualmente anche quell’ultimo superstite gli stava scivolando via, trascinato per i capelli da una suoneria polifonica stile primi anni Duemila, scaricata con un servizio in abbonamento. 19:39, amore quando torni? Noi siamo rientrati adesso, pensavamo di ordinare un paio di pizze. Ti aspettiamo per cena? Riporta a casa lo scaleo e poi ricordati che è venerdì: andiamo al cinema dopo mangiato, alle nove e un quarto ti voglio qui. Sfuggire da sua madre era stata la sua prima grande abilità. Col tempo aveva raggiunto una tale spontaneità, nel tagliare corto, da non aver più bisogno di elaborare ulteriori rassicurazioni; tanto era diventato semplice il meccanismo che gli sembrava quasi fossero i cartelloni pubblicitari spuntati dietro il guardrail dell’autostrada a suggerirgli le battute, a riadattare costantemente il copione, man mano che si intricavano le sue esigenze insieme al livello di difficoltà nell’elaborazione delle menzogne. 19:43, niente. Erano forse proprio queste sue simbiosi immaginarie, tra sé e l’inanimato delle sue scenografie in lenta evoluzione, i suoi unici momenti di svago e soddisfazione. Per il resto sentiva di continuare ad allontanarsi da se stesso. 19:55, niente. Riconosceva a stento il suono della sua stessa voce e in qualche modo si divertiva a immaginarsi rinchiuso in una vibrazione silenziosa, nei minuscoli altoparlanti finalmente distrutti della sua polifonia vocale. A volte ci riusciva, nei tempi morti, pochi istanti prima che il telefono squillasse di nuovo e che la voce metallica gli rimbombasse nell’orecchio gli energici saluti di un adolescente in crisi, sempre pronto a raccontare delle proprie interminabili vicende amorose, cercando di convincerlo a condividere isteria e disperazione, come si conviene in questi casi. 20:01, guarda, hai fatto bene a chiamarmi, lo sai che non ci si può fidare di lei. Lasciala perdere e vieni stasera al centro, piuttosto. C’è una festa, alle nove e mezzo ti passo a prendere e ci andiamo a svagare; a modo mio però, lo sai. Quando ti serve un amico sai dove trovarmi. 20:05, adesso ti saluto, devo andare. Perché lo facesse non lo sapeva nemmeno lui. Forse un buon indizio lo si dovrebbe ricercare nel rumorino elettronico dei segnalatori di direzione, o nelle frequenze trasmesse alla sua radio dalle numerose interferenze delle gallerie. Solo dei suoni, forse troppo simili a certi allarmi che gli si erano radicati dietro i timpani. Gli ricordavano troppo il tono predefinito della sveglia che si era impossessata di lui, e lo costringevano a sopportare l’idea che sarebbe inevitabilmente successo di nuovo. 20:07, nessuna notifica; solo il martirio polifonico, grottesca bestia mutante stavolta con le sembianze del capo, il padrone della pizzeria. 20:08, stasera puoi venire? Manca gente, dai vieni al secondo turno, verso le nove, massimo nove e mezzo. Sicuro, diceva lui, che problema c’è? Ci vediamo più tardi allora, insisteva, e ora però tutti zitti. A ogni sorpasso si dimenticava del suono della freccia e alle 20:19 metteva distrattamente mano al cellulare, ben riposto sul sedile passeggero, tanto per dare una controllata al suo giardino segreto di pallini verdi e freccette blu, che ancora notificava: niente. In silenzio tornava a immergersi nei pensieri, per scegliere la più sbagliata tra le versioni di sé. Sapeva che fare il cameriere non sarebbe bastato a soddisfare le sue ambizioni, e per quanto si sforzasse non riusciva a trovare nessuna valida spiegazione del perché avesse accettato quando gli fu avanzata la proposta, quella volta che trovandosi al telefono con la sua ex fidanzata era diventato un esemplare maschio perfetto di trentenne slavo d’ispirazione bohémienne, alla ricerca di una sistemazione provvisoria misera e inutile di cui servirsi per giustificare la propria esistenza di fronte alla frusta del padre e sostenere le spese per le inconfessabili razioni mensili di stagnole d’oppio di pessima qualità. 20:24, niente. Qualcosa di vero poteva esserci, nella comodità stessa in cui calzavano le cuciture del ricamo, la maschera automodellante sulla sua faccia; o magari nel senso di familiarità che gli pulsava sulla pelle ingiallita dall’alcol delle dita affusolate, mentre strisciando sul sedile lanciavano una nuova rapida scorsa allo schermo. 20:29, niente. Nessuna novità, nessun beep che riportasse il nome tra quelli dell’elenco, nient’altro che non fosse quella stupida suoneria che ritornava col suo carico di frustrazioni politicamente corrette, nervosismi blandi socialmente accettati, la voce tremolante di una delle sue amanti che implorava eccitazione e un pezzo di fascino tutto mistero e pugno d’acciaio che, 20:32, stasera passo da te, fammi sapere quando lui se ne va; anch’io non penso altro che a te, schifosa, mi fai tremare. 20:37, niente ma tremava davvero, anche all’idea di quell’entusiasmante progetto per il futuro, l’opera d’arte estrema e definitiva della sua carriera. Il lampo di genio gli era venuto nel sonno: aveva sognato di riuscire a mettere insieme così tanta corda da formare un cappio con nodo scorsoio a entrambe le estremità, capace di unire la Terra e la Luna nella nevrosi di un insuperabile abbraccio mortale, in cui non si riuscisse a capire chi dei due fosse il boia e chi l’impiccato. La sua convinzione era tanto irremovibile e suggestiva da tenerlo occupato fino alle 20:54, niente, prima che le dita tornassero a distrarsi sul display retroilluminato. Si era anche informato per cambiare il suono delle notifiche, in modo tale da poterne impostare alcuni così caratteristici da non poter essere confusi con i gorgoglii della sua auto, e aveva cercato di disattivare la ricezione chiamate in modo da evitare scocciature senza vedersi costretto a spengere il cellulare. Ma un po’ per sfortuna un po’ per la mancanza cronica di forza di volontà non era riuscito a combinare nulla, e si lasciava divorare ogni volta che gli succedeva di nuovo e che quello sciagurato ritornello polifonico tornava ad ammorbargli i nervi, ogni volta che si sentiva sbattere in faccia dagli auricolari il ronzio sferragliante della compagna, una giovane ragazza poco più che intrigante, decisa a coinvolgerlo in elaborate elucubrazioni mentali sul significato della sua intrepida avventura artistica. 21:04, alle 21:30 a casa tua, ne parliamo aggrappati a un bicchiere di vino ma cosa ne penso davvero te lo devi lasciar sussurrare all’orecchio, e in bocca gli era rimasta solo la voglia di cambiarsi d’abito, scegliere un altro travestimento. L’immagine che gli precipitò addosso fu quella di un misero cameriere alcolizzato, con la prospettiva del lavapiatti a tenerlo da sola ancorato al mondo dei viventi. 21:12, niente, cominciò a farsi delle domande. Mancava una telefonata e magari c’era sotto qualcosa, un piano, una qualche strana congettura, così crudelmente naturale da rivelarsi sempre più imprevedibile. 21:19, niente, e arrivò il tempo di slacciarsi l’orologio, insieme al vestito da onesto lavoratore precario. 21:23, niente, ma in compenso si ritrovò con la maschera da autolesionista: gli saltarono agli occhi i fallimenti della sua vita sociale, le pochezze dei suoi rapporti con gli altri, per non parlare dell’insuccesso personale, l’affermazione mancata sia negli studi che nel lavoro. 21:25, non riuscì a fare a meno di trovare nella sua storia un qualcosa di nascosto ma estremamente divertente, un trionfo voluttuoso di personalissimo feticismo a riempirgli i polmoni d’aria fresca. Alle 21:30, niente, si trovava contemporaneamente a casa dalla famiglia, a lavare i piatti in pizzeria, alla festa con gli amici e nelle camere da letto di due rispettive amanti differenti, e tutto sommato non aveva ancora niente da fare. Accostò la macchina, finalmente giunta a destinazione in nessuna delle sue solite realtà. Tirò giù lo scaleo e lo zaino delle corde, si abbandonò per un’ultima volta al giardino retroilluminato della sua schizofrenia e cominciò ad arrampicarsi, verso la gloria. Finalmente nudo, e solo.
Nel suo niente.

Olio di linea

A pensarci bene c’era un ultimo dettaglio che mi incuriosiva, il tempo giallo. O almeno io da qualche tempo avevo cominciato a chiamarlo così. Quel particolare colore assunto dal cielo d’estate subito dopo un temporale, solitamente verso il tardo pomeriggio. A differenza di quanto si possa immaginare, l’esatta combinazione di tutti i requisiti del tempo giallo, almeno nella formulazione che intendo io, non è per niente facile da ottenere. La mia prima serata di tempo giallo, ormai molti anni fa, fui sorpreso dal mio primo bacio, mentre seduto sul bordo del marciapiede cercavo di non far cadere la schiuma della birra stout dal bicchiere. Le altre furono tutte molto più serene, fino a quel giorno. Il finestrino del treno mi sbatteva in faccia i grossi goccioloni del temporale, e assorto nelle brusche evoluzioni del paesaggio non prestavo attenzione ai rombi ininterrotti dei tuoni, cadenzati come a metronomo dallo sbattere delle porte di separazione tra i vagoni. Impassibile, non riuscivo a giustificare il sudore che mi correva sui fianchi; per quanto intimamente fossi consapevole che doveva essersi persa la sincronizzazione tra ciò che vedevo e la posizione esatta del mio corpo, restai ammutolito nelle barriere insonorizzanti che si spiaccicavano sulle pareti del tunnel insieme alla vernice dei graffiti e i tralicci dell’alta tensione che si mescolavano alle coltivazioni intensive delle pale eoliche. Lentamente la geometria nelle ringhiere dei terrazzi di campagna cominciò a cambiarsi di posto con le linee gialle dei binari, e lo stridio dei freni mi portò di scatto nel sottopassaggio della stazione. Appena uscito, rialzandomi dal mozzicone di sigaretta riconobbi il tempo giallo. Immagino chiaramente cosa possa aver provato quando la panchina nel parchetto della piazza cominciò a rivolgermi la parola con tutta l’aria di un nuovo mozzicone di sigaretta, adesso decisamente più contemplativo. Mi disse che le facciate degli edifici le ricordavano il riflesso delle carrozzerie metallizzate delle auto sull’asfalto umido, il quale le ricordava le grosse ruote delle carrozze sui sampietrini delle vecchie strade ottocentesche, che le ricordavano la luce calda proiettata sul manto lisciato di fresco dei cavalli, che inevitabilmente le ricordava le vecchie pitture a olio studiate a scuola. Mi trovai chirurgicamente d’accordo e fu sufficiente un cenno col capo per rinsaldare l’intesa. Le nostre effusioni diventarono mezzore buone e senza che ce ne fosse bisogno aggiunse che serate come quelle erano troppo imperdibili per viaggiare senza i piedi sui pedali e l’orecchio puntato sulla frizione. Sogghignando. Il mozzicone si spense di rabbia e disgusto, mentre il grande orologio si lasciava degradare senza troppe aspettative all’attesa di un ritorno precoce. Cadenzati a metronomo senza biglietteria, i pesanti passi d’anfibio presero posto sul sedile davanti.
E mai più nessuna panchina fu degnata d’attenzioni.

Completo

La ringrazio comunque, arrivederci.
Dalla finestra filtrava un soffio gelido, mentre i bagliori delle due grosse lampade al neon si riflettevano nella pioggia debole della notte primaverile, illuminandone grottescamente le improvvisate di celebrità subito prima che si schiantassero sul tavolo di vetro del terrazzo e se n’andassero a sgretolare in metallici ticchettii da orologiaio. Non riuscivo a togliere gli occhi dagli appunti sul foglietto che frenetico mi rimbalzava da una mano all’altra, sulla scrivania. Avevo dovuto scartare quasi tutte le voci dell’elenco, messo insieme in tutta fretta in una mattinata di ritardi, e adesso cominciavo a temere seriamente di non farcela in tempo. Mi restavano ancora diciotto ore, e continuai col numero successivo. Buonasera, vorrei prenotare se possibile.. /siamo completi, mi dispiace. Neanche il tempo di concludere la frase, la situazione stava cominciando a seccarmi. Ancora una volta me ne tornai a fissare la pioggia. Sedici ore e mezzo, nuovo giro. Per domani, se possibile, saremmo in due. /Solo un attimo, dunque vediamo, no mi dispiace, non c’è più posto, arrivederci. Per la prima volta mi domandai per quale ragione avessi sistemato il tavolo di vetro proprio sul terrazzo. Il ticchettio delle gocce d’acqua si faceva sempre più insistente, come a volermi mettere fretta. Quattordici ore e quaranta minuti, tentai di nuovo. Niente da fare, mi dispiace, magari però lunedì se le va bene lo stesso potremmo metterci d’accordo per… Più di tutti mi davano fastidio quelli che non si facevano più di troppi problemi a mostrarsi palesemente più preoccupati di mantenere un cliente che dispiaciuti per la mia sventura. Stavo cominciando a rivalutare quello spiffero di vento, il brivido di freddo che mi elettrizzava la punta delle dita. Mi alzai per spengere il riscaldamento e restai per un po’ a domandarmi quanto fosse credibile la facciata d’eternità che quella pioggia mi continuava a sbattere addosso, fottendosene delle mie sensibilità. Dodici ore e ventitre minuti, ancora. Ma le sembra l’ora di telefonare? E comunque no, tutto pieno. Non lo sa che è festa domani? Mi sembrava decisamente insolito, a pensarci bene. Tutta quella pioggia, in primavera. Continuava senza freni, come se fosse fuggita di casa si fosse ritrovata immersa in un vortice di sensazioni e quotidianità violente talmente indiscutibile da intimorirla, e impedirle di tornare indietro. O forse di era soltanto dimenticata anche lei di osservare i giorni di festa. Io, anche volendo, non avrei potuto farci niente. Mi veniva difficile accettarlo, ma la mia non era proprio una di quelle esigenze che si possano trattenere, o rimandare al primo lavorativo prima del finesettimana. Il tempo mi incuriosiva, trovavo qualcosa di inspiegabilmente attraente nelle scadenza, nell’idea stessa di appuntamento, nella consueta ricerca di un riferimento. Non sapevo e non volevo farne a meno, io per primo, e mi fermavo a osservare gli altri come un tossico al parco che squadra i bambini immaginandoseli accanto a disinfettarsi la siringa. Guardarmi le vene era un altro mio grane passatempo. Le inseguivo lungo il letto del fiume, correvo dietro al loro sangue. Me lo immaginavo scorrere poderoso e inarrestabile, stondando i sassi corrosi dai secoli, lanciando occhiate di sfida agli argini intimoriti. Sette ore, trentanove minuti, cinquanta secondi. Lei è pazzo, mi richiami lunedì che glielo ripeto. Finalmente un fulmine, era tutta la sera che lo stavo aspettando. Cinque ore, dodici minuti, cinquantasette secondi. Questo vuole sapere se c’è posto, ci vuoi parlare te? Ma ditemi voi la gente cosa c’ha nel cervello. Il freddo si faceva più intenso. Due ore, quarantatre minuti, otto secondi. Ho detto di no. I fulmini erano aumentati, stabilizzandosi all’incirca sulla frequenza di uno ogni due minuti. La temperatura intorno ai nove gradi. Un’ora, dieci minuti, quindici secondi. Guardi, ha sbagliato numero. Grondaie e tombini parevano essersi paralizzate in tutto l’isolato. Un sottile strato d’acqua ricopriva le strade. Quarantasei minuti, tredici secondi. Pronto intervento, mi dica. L’acqua stava aumentando, adesso arrivava al livello del marciapiede. Sei gradi, non riuscivo praticamente più a muovere le mani. Il freddo mi arrossava la pelle e cominciavano a screpolarmisi le labbra. Ventidue minuti, dodici secondi. L’utente da Lei richiesto non è al momento raggiungibile. Il livello dell’acqua continuava ad aumentare, provai a riaccendere il riscaldamento ma tenere fra le dita congelate la piccola rotella del termostato mi si era rivelato praticamente impossibile. Undici minuti, cinquantanove secondi. Numero non attivo. I primi fuoristrada militari arrivarono al fiume e cominciarono i lavori per la messa in sicurezza. La temperatura sui quattro gradi e mezzo, non senza qualche difficoltà detti fuoco al cestino del carta. La batteria del cellulare si era scaricata del tutto, abbandonando le mie attenzioni. Di nuovo a rincorrere le vene, la loro voglia di fuggire. Cinque minuti, ventiquattro secondi. Il sogno di libertà. Due minuti, dieci secondi. Le loro occhiate di sfida ai fuoristrada. Un minuto, quarantotto secondi. La porta della camera matrimoniale, pensavo a quanto avesse avuto ragione. Fin dall’inizio, non potevo crederci. Cinquantuno secondi. Non sarei riuscito a dirglielo, ne ero consapevole. Trentanove secondi. Mi vergognavo di me stesso, di non essere capace di ammetterlo. Aveva ragione, da vendere. Quattordici secondi. Il mondo era al completo. Dieci secondi. A noi restava d’inseguire il lunedì. Nove secondi. Solo il rantolo d’un tavolo di vetro. Sette secondi. Mi consolava, cinque. Ci riusciva ancora e mi riempiva di pace, tre. Con la forza di un mare in tempesta, verso il suo sogno di libertà. Due, aveva vinto. Uno.

Imprevisto

Recentemente mi è capitato tra le mani un vecchio biglietto del treno, riportante il seguente messaggio. Quando devi prendere una decisione ci sono due possibilità: prenderla o fare finta di niente. Se fai finta di niente ci sono due possibilità: passare il resto dei tuoi giorni in preda ai sensi di colpa oppure inventarsi una menzogna talmente convincente da modificare radicalmente il ricordo del tuo passato. Se inventi la menzogna ci sono due possibilità: fare finta di niente e godersi intimamente il ricordo pulito delle proprie giustificazioni oppure sfruttare la situazione facendone motivo di orgoglio. Se vai in giro a vantartene ci sono due possibilità: essere capaci di ricordarsi e ricostruire in ogni momento le vite parallele costruite sulle tue menzogne oppure limitarsi a sfruttare i benefici immediati che ne conseguono. Se ti limiti ai benefici immediati ci sono due possibilità: riportare un nuovo successo che possa confermare e dare credibilità al primo oppure accettare l’insuccesso e far crollare il castello di carte. Se crolla il castello di carte ci sono due possibilità: cogliere i vantaggi dall’errore e imparare la lezione oppure precipitare vittima dei sensi di colpa. Se precipiti, allora ci sono due possibilità: accumulare fino all’ultima goccia delle tensioni nervose che ti tengono per i capelli oppure cercare di convivere con il dolore. Se cerchi di convivere con il dolore ci sono due possibilità: fortificarsi d’animo e diventare una persona migliore oppure rendersi conto delle proprie assolute debolezze di fronte a tali stringenti sofferenze. Se accetti il senso d’impotenza, allora ci sono nuovamente due possibilità per uscirne: ricominciare da zero con uno scatto improvviso verso la dignità o rivendicare il diritto all’oblio e inventarsi una nuova menzogna. Se inventi una nuova menzogna devi decidere come riuscire a combinarle nel modo meno ridicolo possibile agli occhi di chi continua ad avere qualcosa a che fare con te, e se devi prendere una decisione allora ci sono due possibilità: fare finta di niente oppure per una volta impegnarsi a prenderla. Se ti impegni a prenderla ma non sei sicuro di riuscire a sostenerla ci sono due possibilità: alcolizzarsi o cercare di tenere duro. Se cerchi di tenere duro allora ci sono due possibilità: lasciarti finalmente andare a ruota libera oppure cercare continuamente di tenere a mente i buoni principi che ti sei ripromesso. Se decidi di ricordare i principi ma hai paura di dimenticarli ci sono due possibilità: appenderti per il collo finché morte non sopraggiunga o scriverti gli appunti principali su un vecchio biglietto del treno spiegazzato. Se decidi di metterli per iscritto sul biglietto del treno, allora ci sono altre due possibilità: tenere sempre presente che l’hai scritto soltanto per esorcizzare le tue paure più nascoste oppure fare finta di niente e sperare di aver finalmente trovato una soluzione al problema. Se sei arrivato fin qui e speri di aver trovato la soluzione, allora di possibilità ce n’è solo una: sei un coglione.

Clessidra 48

Tornare a lavoro, ogni mattina poco dopo le prime luci dell’alba, stava diventando sempre più snervante. Da qualche tempo ci si era messo anche il mio assistente, un giovane apprendista appena laureato, a farmi innervosire. Per qualche ragione sconosciuta aveva preso il brutto vizio di rimettere al suo posto nell’archivio la teca delle formiche, la sera prima di uscire. Tutti lo sapevano, nel laboratorio, che non sopportavo che si toccasse la grande clessidra di vetro del trentottesimo esperimento. Fin dall’inizio mi ero reso conto che quella sarebbe stata la volta buona per capirci qualcosa, e in mezzo all’incalcolabile quantità di fallimenti stava diventando il mio principale motivo d’orgoglio e ormai praticamente l’unico stimolo per continuare con le ricerche. I risultati da parecchio tempo si mostravano sempre meno convincenti: quasi per farsi coraggio ci eravamo imposti degli obiettivi, messi per iscritto in un elenco numerato, concordato tra noi della facoltà, e fino a quel momento ne avevamo raggiunti poco meno di cinquanta su un totale di qualche centinaio. La teca racchiudeva contemporaneamente due ecosistemi distinti: nella zona inferiore della clessidra viveva un’intera colonia di formiche rosse, che ero riuscito solo dopo molto tempo e molta pazienza a far sì che si formasse in modo autonomo e il più spontaneamente possibile. Per quanto possa sembrare di poco conto, posso assicurare che non è per niente facile riuscire a convincere esemplari di formiche rosse perfettamente di diverse provenienze a convivere pacificamente all’interno della stessa colonia. Nella parte superiore, che grazie a specifiche attrezzature meccaniche godeva di gravità invertita, un’intera colonia di api affollava un alveare appositamente creato con materiale plastico e piastrelle metalliche attraversate da un flusso continuo di elettrostimolazioni artificiali. Al centro della clessidra, lo stretto passaggio tra un ecosistema e l’altro era il frutto di un vero e proprio colpo di genio: attraverso quell’unica via di fuga, gli esemplari animali che in qualche modo si trovavano ai margini delle rispettive strutture sociali, rifiutati dagli altri oppure riconosciuti come devianze o motivi di indebolimento per l’ordinamento naturale dell’ecosistema, riuscivano a trasferirsi dall’altra parte. Il risultato era comunque sempre lo stesso: non provvedendo dall’esterno a nessun tipo di alimentazione, i ribelli finivano per essere divorati dalla ferocia dei nuovi coinquilini. In mezzo alle formiche si potevano notare continui accanimenti verso i cadaveri in decomposizione delle api fuggitive, e così viceversa dall’altro lato. In più di tre anni di sperimentazione, mai si registrarono tentativi di ribellione generalizzata, o movimenti bellici comunitari di una delle due specie, riunita contro l’altra. Nel laboratorio, solo la vasca dei guardiani del reparto adibito a museo delle scienze naturali aveva dato risultati altrettanto soddisfacenti. In quel caso, risalente all’inizio della mia carriera, molti anni prima e ormai divenuto un pezzo di storia nel campo della ricerca sul comportamento animale in situazioni di criticità ambientale, avevo avuto l’intuizione di inserire il personale di servizio del laboratorio in un’apposita automobile impermeabilizzata e ossigenata, e poi immergere il tutto in un’enorme vasca trasparente, ricavata tra il primo e il secondo piano dell’edificio. Applicai loro degli elettrodi sul petto e alle radici del collo, assicurandoli riguardo alla rapidità e alla non invasività della sperimentazione; successivamente chiesi loro di osservarmi con la massima attenzione e di ripetere ad alta voce il cognome del rispettivo collega al cenno della mia mano, inviando in corrispondenza di intervalli regolari prestabiliti stimolazioni elettriche di sempre maggiore intensità. Dopo ore e ore ininterrotte di esperimento, quando i livelli di ossigeno cominciarono a diminuire drasticamente, mentii ai due guardiani, comunicando loro che il vero scopo della ricerca sarebbe stato in realtà osservare le reazioni anatomiche dei corpi stimolati elettricamente in assenza di ossigeno nell’istante della morte biologica. A quel punto i guardiani si scagliarono l’uno contro l’altro, rinfacciandosi reciprocamente colpe e responsabilità tra le più fantasiose, con giustificazioni palesemente paranoiche e schizofreniche. E nessuno dei due ebbe nemmeno la tentazione di provare ad aprire le portiere dell’auto, per mettersi in salvo. Morirono entrambi, lasciandoci in dono una delle più rivoluzionarie scoperte della scienza moderna. Quel giorno non feci neppure in tempo a farmi venire la forza di rimproverare il mio assistente, per aver spostato la clessidra con i cadaveri delle formiche e delle api, che subito mi venne incontro il direttore. Finalmente, dottore, congratulazioni. Stavolta ce l’ha fatta, ha raggiunto l’obiettivo Quarantotto, il paradigma dell’infinito; la riproduzione continua dei livelli di esasperazione individuale nel rispetto dei limiti dell’equilibrio sociale, e tutto dentro una semplice clessidra. Stavolta è il Quarantotto. E lei entrerà nella storia. Un veloce cenno col capo per gentilezza, poi sullo sfondo la spia rossa del monitor. Foglio e penna subito alla mano, solo qualche breve istante per pregustare l’osservazione di una nuova, disperata, fuga verso la libertà. Poi di colpo, mi scivolò di mano la cartella dei grafici. E contemporaneamente l’occhio cadde sul segno, quasi irriconoscibile nel vetro, della prima crepa.

Jeu d’enfant

Da grande stavolta voglio che ti chiami Elena. Voglio che tu faccia soffrire tutti quei rifiuti umani nati grossomodo insieme a te, almeno quanto m’hai fatto soffrire a me nelle tue reincarnazioni precedenti. Quelle di quando il rifiuto umano ero io e tutte le guerre e tutti gli eserciti me li tenevo conficcati in gola, tra una lacrima d’orgasmo e una di vendetta, ridevo con la mano sulla bocca per non svegliarmi. Da grande voglio che t’innamori del piano B, del piano terra, del fai piano che di là ci sono i miei, magari giusto se ti ci puoi soffiare il naso dopo aver litigato anche del piano piano crollerete tutti davanti a me [e non dimenticare di lasciar stare il pianoforte con annessi e connessi, che non sono mai riuscito a trovare uno che lo suonasse e in grazia del suo Dio personale fosse anche simpatico. Anzi, sempre degli incalcolabili sventragonadisti col fegato sotto chiave]. Ma nessun altro piano, mai per nessuna ragione. Te lo dico così, da solo ma davanti a tutti come sempre, e solo perché in carne non riesco a parlarti come si deve. Proprio per quella storia della gola di prima, non ti offendere. Da grande voglio che ti dimentichi tutto quello che ti ho scritto, ma che sia disposta a dare fuoco alla casa dove vivi pur di non perdere coscienza di quella bambina vestita di candido che si rigira la notte e ti trascina via le coperte quasi con la stessa cattiveria che c’avrebbe messo facendotelo di proposito. Da grande voglio che se ti capita vada anche tu a dormire insieme al cane, ai piedi di una piazza disgraziatamente singola di letto, per di più occupata da tutti e due i ladroni messi a croce, e che comunque sia pronta a inchiodare la testa di tua madre a un fondo di bottiglia se per pietà non t’insegna a usare la frusta con gli occhi chiusi e i denti all’aria. Da grande voglio che i capelli impari a farteli da sola e che non ti dia sofferenza chiamare al telefono la parrucchiera di famiglia e augurare l’incidente stradale a tutto l’albero genealogico. Voglio che impari a fare il caffè, anche solo per potertelo bere tutto insieme dentro la scodella delle tagliatelle prima di andare a dormire, la mattina alle dieci dopo la nottata al pronto soccorso. Da grande voglio che il tuo primo tatuaggio sia grande quantomeno come la rabbia di tutti i preti del mondo quando scade l’abbonamento annuale a zoosex.com, e deve ricordarti che non si gode facendo il peccato ma che facendo il peccato si gode. E poi magari sul secondo ci scrivi che l’infamia è il negativo dell’ignoranza, e che l’unico legame che conta è quello con chi si chiede quale sia l’unico legame che conta. Da grande vorrei che tu non morissi, che non crescessi, che non nascessi nemmeno. Da grande voglio che tu stringa la mano a chi ci si è stretto il nodo, e che tu stringessi il nodo a chi le mani se le è lavate lisciandosi il filo della cravatta occasionissima dell’asta giudiziaria. Da grande voglio che impari a nuotare in mezzo all’alfabeto, con gli occhi a mezz’asta distratti dalla ricerca erogena d’uno scultore solitario. E che poi ti faccia crescere i muscoli per restarci aggrappata, mentre giù scorre la lava sulla bava delle mandibole puntate che ti chiamano ma non sanno pregustare. Da grande voglio che ti butti in mezzo al Viale Europa dentro un cavallo di Troia metallizzato per fissare le facce misto nylon di quelli che ti fissano con la puzza di terrore, è finito il petrolio! sotto alla cintura e i capelli tristezza, stile anni ’40 ma senza bombardamenti. Da grande voglio che fumi, che bevi, che ti droghi, che ti buchi le orecchie e che poi chiudi il libro perché s’è anche già sentita; che ti piaci anche quando sei nuda, che fai del male senza motivo, che bestemmi quando va via l’acqua calda; che ti trovi un lavoro con calma, dopo un po’ che non l’avevi mai fatto e solo perché era un’altra spunta da mettere sulla lista; che non ti venga proprio bene cucinare, che la doccia quando ti pare a te e i maglioni c’hanno tutti almeno uno strappo; che sbatti il telefono in terra, che urli da sola in macchina, che a sedic’anni ti piace la danza ma il rosa t’ha sempre fatto schifo; che vomitare alla fine serve, e dopo un po’magari ti c’affezioni anche a risalutar la cena, che magari in fondo scrivere è l’unica cosa che ti piace; che dire quello che si pensa è giusto, pensare quello che si vuole va bene, ma se poi non ti fa né ridere né scopare anche col cazzo che me ne frega; che la vendetta è bella anche se fa male e che se il treno non ferma io piscio sul sedile; che sia prima o dopo l’erezione, l’affinità elettiva che disturba i progetti rapisce la quiete svela i conti in sospeso sia orfana di futuro se, come e quando ti pare a te; che dei froci, dei negri, degli zingari quel che ti fa schifo è che in buona parte siano stupidi esattamente come tutti gli altri; che ti diano la nausea il buonsenso, l’opportunità, il moralismo, le reprimende, i paternalismi, gli elenchi telefonici, gli elenchi di parole superflue nelle descrizioni, quelli che ti dicono che gli altri sono stupidi, però quando ti serve lo fai anche te e il primo che viene a rinfacciare, protestare, sindacare, piagnucolare, intristire, ammosciare, infastidire, sempre se, come e quando ti pare a te, la prossima volta non avrà una prossima volta e la sua unica prossima volta te la sei già masticata un bel po’di secoli fa; che ti diverta ascoltare contemporaneamente il tango argentino, il nipote dei vicini che gioca con la palla da tennis e il coro dei tuoi meravigliosi ospiti interni raccontarsi barzellette scabrose in cui guarda caso sei sempre te a passare da cretina; che come sempre ti domandi quanto si devono maledettamente divertire con le matite quelli che sanno disegnare davvero bene, a crearsi tutte quelle situazioni sessualmente incredibili, quegli spiragli così intrigantemente entusiasmanti di libertà assoluta, e voglio che tu lo faccia giusto prima di ricordarti che in realtà l’hai sempre saputo fare anche te, come a suo modo per prima ti disse la maestra alle elementari commentando il tuo primo foglio protocollo; che ti diverti a rubare i cartelli pubblicitari alle gelaterie dei paesini sperduti dove ti sei lasciata trascinare a corpo morto da quei pochi coraggiosi che si sono azzardati a infilare le loro vene in mezzo ai denti infuocati delle tue, e che poi subito dopo al mare preferisca morire piuttosto che andare via, anche se lo sai perfettamente che ti stanno spiando da mezzora. Voglio che ti dimentichi come non si muore dal ridere. Da grande voglio che tu sia felice, forse proprio perché non nascerai mai. [Da grande voglio che tu sia come uno di me, tanto a quel punto quegli altri se lo saranno già impiccato, qualche secolo prima che tu cominciassi a respirare. Godendo].

Post-it

E comunque è il mio lavoro. Datemi retta, vi troverete bene: l’ho già fatto molte altre volte.
Solo un momento, mi rigiro prima di cadere di sotto, eccomi. Stavo dicendo, prendete questi strani affari scuri, sembrano fagioli di plastilina ma vi aiuteranno. Insomma, come vi stavo dicendo signori, se non sbaglio sono un grande esperto del settore, e adesso qui tutti riuniti mi ascoltate, e fate bene senz’altro. Arrivo subito da voi, aspettate un istante soltanto che mi segno un paio d’appunti. Sapete, non vorrei correre il rischio di dimenticare tra qualche ora. La mattina è sempre il momento più pesante della mia giornata, ogni volta mi pare di risvegliarmi da un coma malizioso che puntualmente ogni diciotto ore mi riporta a quindic’anni e mi fa ricominciare tutto da capo. [Vogliate perdonarmi signori, sono un tipo un po’ particolare, ma alla fine ci si abitua a tutti questi fogliettini sparsi per l’ufficio. Sono un po’ la mia memoria esterna, sapete, senza di loro sarei perduto probabilmente. Ne prendo uno qualsiasi, vogliate approfittare: “la differenza tra me e lei? Io sotto la doccia fischietto vecchi ritornelli della tradizione popolare, lei ascolta Lady Gaga dal dolby nuovo della filodiffusione”. Niente male, mi pareva opportuno ricordarmelo]. Bene, come vi dicevo sono qui per aiutarvi e se vi rimetterete ai miei consigli, se li seguirete con puntualità e attenzione, riuscirete a risolvere buona parte dei vostri problemi; scaccerete i vostri demoni e la vostra stabilità psicofisica ne trarrà un giovamento sostanziale. In pochi giorni vi sentirete nuovi, freschi come lo eravate un tempo, molto più giovanili e con tutta la voglia di scherzare di quando da bambini giocavate con le automobiline in miniatura sul plastico del trenino elettrico. [Soltanto un momento ancora, questa è una citazione: “la vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”. Davvero bel film quello, nulla di eccezionale d’accordo, ma una buona fotografia e degli indimenticabili sprazzi di genialità qua e là nel copione]. Comunque prima lezione: voi bastate a voi stessi. Scolpitevelo in quelle vostre stramaledette teste super cariche di stress lavorativo, e non dimenticatelo mai. Se vi può tornare utile approfittate anche voi dei post-it, lasciateli sparsi nelle vostre stanze, e ogni tanto tirateci un’occhiata. [Questo, per esempio: “Avv. Claudio Maria Biffoli, studio legale via XXIV Aprile n.12, 333/4970870”]. L’importante è che riusciate ad affidarvi a loro, alla loro inesauribile saggezza, però sempre senza diventarne dipendenti, senza farla diventare un’ossessione. All’inizio non ci si crede, ma restarci invischiati è più facile di quanto si pensi. Seconda lezione: dove lasciate un vuoto, qualcuno correrà a riempirlo. Ci sarà sempre qualcuno pronto a fare la sua mossa, fateci attenzione, ma sempre ricordando che nella buona parte dei casi colui che cercherà di farvi del male sarà sufficientemente idiota e prevedibile da tirarsi la zappa sui piedi da solo. Trovate il punto di equilibrio tra queste due inconsolabili verità. Magari segnatevi su un quadernetto le vostre mappe concettuali, una per ogni tormenta del vostro cervello, con annessi e connessi ben specificati e rigorosamente ordinati. Mettere nero su bianco ogni rapporto di forza, la schiera delle possibili mosse avversarie, vi assicurerà vantaggi non indifferenti: la fantasia di un romanziere, la verità di un matematico di mezz’età e la tenacia di uno scacchista psichiatrizzato. Tutte qualità imprescindibili per un buon manager. Ricordatevi che il vostro compito è combattere, la vostra casa la giungla, il vostro ossigeno sta nei polmoni del nemico e che il nemico siete voi. Un momento ancora, mi segno pure questa. Come vi stavo dicendo, regolamentarsi è importante, ma ricordatevi sempre di portare rispetto alla forza motrice di questo mondo: onorate il caos molto più di qualsiasi padre o madre, e siate il bastone della vostra vecchiaia soltanto. Vi aiuterà a ricordarvi che da soli siete molti di più che mischiati con chiunque altro. [Scusate per la citazione cinematografica di prima, vorrei ricordarvi che in realtà non sono molto esperto, ma sono ben contento di lasciarmi trascinare dai giusti stimoli che volendo si riescono a trovare quasi dovunque]. Terza lezione: il primo campo di battaglia è il linguaggio. Ognuno di noi, dalla prima parola spiccicata dal fondo fetido della culla, è cresciuto ignorando la potenza distruttrice e rivoluzionaria del linguaggio. Siamo stati educati a darla per scontata, a ritenerci padroni della comunicazione una volta apprese quelle poche regole convenzionali della grammatica, imparate al tempo della scuola. In realtà il linguaggio va conquistato, bisogna riappropriarsi delle parole continuamente, giorno dopo giorno. Ma non fraintendetemi, non parlo dei significati: quelli potete lasciarli all’abbandono volendo. L’importante è affilare ogni mattina le corde vocali, le unghie sulla tastiera, in modo che quello che ne possa venir fuori sia petrolio bollente versato negli occhi e nelle orecchie di chi si azzarda a sfiorarvi anche solo col pensiero. [Casualmente proprio sotto la lampada avevo attaccato questo, quando si dice il colpo di fortuna: “la vostra lingua è così, una bellissima troia che succhia sangue da pochi signorotti imbottiti di soldi per rifarsi le tette ogni due settimane, ma che comunque non si accontenta mai e brama i cazzi di tutti, anche dei più miserabili: anzi, è forse proprio con i più disgraziati di tutti che riesce a godere veramente e forse, anche se non lo ammetterebbe mai, in fondo dev’essere proprio per loro che tiene il diavolo nella sesta del reggiseno. Per farli impazzire e essere sicura che, vada come vada, non resterà mai da sola sotto le coperte d’un letto freddo”]. Quarta e ultima lezione, per oggi: trattate bene quei fagioli di plastilina e qualsiasi cosa succeda, non importa quanto pesce abbiate mangiato, non cercate di dormire dopo aver bevuto il caffè nella tazza dei cereali. Segnatevelo.

Coppa C

Attività cerebrale col sapore di stufa al quarzo sui calzettoni color perlage ripiegati nella polvere, indice sinistro sospeso sulla F, a ruota l’invidia dell’altro sospesa sulla J, Cellini forte e libertango. Sai, il problema è che parlare con te a volte è come interagire con una scatola di viagra purissimo, anche se per le definizioni migliori ancora devi aspettare il prossimo cartello di divieto. Ragiona, aspetta che ti sbatta addosso l’orecchio di quando non possiamo, e come a vederti cadere nuda svenuta mi sembra d’esser solo a suonare le ghignate maledette nascoste in mezzo al tabacco. Dritte a succhiarmi via le pupille, come sempre solo un attimo prima di farsi scoprire. Ho la paura del fumo, parlami, se qualcuno parla c’è luce, te la ricordi questa? Io credo che faresti meglio a disinfettarti la prossima volta, ma non te ne faccio adesso una colpa, con tutte queste immagini da scolpire sulla lapide che mi rincorrono per la strada. Mi pare comunque d’aver ricominciato a esser capace di accoltellare la gente. Me ne sono accorto stanotte, pensa te che per la paura di dimenticarlo m’era quasi presa voglia di scrivertelo per messaggio; non è facile, c’ho messo tanto a ricordarmi come si fa ad essere sempre stati quindicenni aggrappati alla moquette. Ogni tanto qualcosa mi sfugge via: vorrei riuscire a non simulare, non capisco perché non sono mai riuscito fino in fondo a registrarmi quando parlo da solo. Al momento giusto mi sono sempre interrotto, mi sembrava di forzare la mano, di perdere naturalezza. Eppure una volta ci riuscivo, anche senza rassicurazioni, ma tutto insieme non si può pretendere e lascio correre per stavolta. Non ti preoccupare per me, so badare a me stesso anche se il problema è che non mi riguardo, non c’entro niente poi alla fine, e so che anche questo domani me lo ricorderò, magari insieme a due baffi ingellettati da piantarti sulla faccia tanto per farsi una risata insieme alla tazza di caffè. Non te l’ho detto ma ne ho comprata una ancora più grande, da potercisi lavare i capelli dentro, con quel caffè. Sta arrivando il controllo, ti devo lasciare. Come sempre ti prego di fare attenzione al filo quando richiudi il barattolo nell’armadietto del bagno, non vorrei dover esser costretto a stare altri tre quarti senza sentirti. Per domani mi sono preparato un bagno caldo di prospettive erogene da sostituire a quelle vecchie, credo di non poterti più dire niente se ti viene voglia di offendermi. Ma tranquilla, me lo ricordo bene che quel matto che pensa al futuro, e magari crede pure di organizzarselo, merita d’essere legato al primo palo sulla sinistra e preso a secchiate di catene in faccia. Mi manca soltanto il passaggio in cui puoi riuscire a convincere uno qualsiasi dei centimetri quadrati del collo a ubriacarsi della saliva altrui a tal punto da togliere il senso alle definizioni di realtà, e cominciare a far la parte del ricordo nelle scacchiere degli altri, invisibile una volta di meno. Il pugno, proprio quello chiuso nella tasca, che cerca l’interruttore nell’idea che s’è fatto di quel lampione colorato all’inglese; tutto tranquillo mentre cavalca spavaldo un capo ufficio marketing da soma, che per ricambiare l’indifferenza insiste sognando, e già si vede con la polaroid al polso andare a reclamare un sorso di biada dalle unghie conficcate nella carne dentro la tasca dei miei pantaloni, così perdutamente assorti nel segreto della X sulla mappa degli interruttori timidi che non funzionano. Eppure quel filo trattalo bene, facci un altro nodo sul fondo del barattolo, quando senti il bavaglione a quadretti col bambino legato al collo che comincia a battere i cucchiai sulle macchie incrostate della tovaglia. Non ci sono più i vizi che mi ricordavo, sai? Solo qualche giorno fa ci facevo caso, a una tipa amante degli animali nel corridoio che dava da mangiare ai pesci qualche forchettata del vomito accumulato nella lettiera del gatto, senza prima nemmeno passarlo qualche minuto dal microonde. Credo che al posto suo avrei saputo come divertirmi, almeno un po’ di più, ma nessuna delle espressioni disegnate dalle mani davano d’intendere che ne avesse neppure la voglia, di provarcisi a immaginare in una discussione al limite della buona educazione col capo pesce seduto sul tostapane, trattenendo a sforzo la corpulenza tipica mediterranea dei quarantasette prosperosi denti coppa C in fila per due col resto di mancia, a prendere il sole alle spalle di due guance compassate grondanti sudore e sfiancamento. Alla faccia di chi ci vuole male e degli intricatissimi muscoli facciali, che magari nel frattempo ti guardano e tutti seriosi si domandano sotto a cosa si può riparare un carcerato quando arriva il terremoto. Il futuro era ieri, e mi faceva tanto ridere. Resta il fatto che qui il perlage effervescente sotto la lingua non è affatto male, anche se a volte con te mi sembra di parlare con una scatola di viagra.
Tagliato male.

Rating

Il primo giorno di lavoro non si scorda mai.
Purtroppo lo venni a sapere solo più tardi, in compenso però mi ricordo alla perfezione tutti i preparativi dei giorni che precedettero il mio esordio nel mondo dei subalterni. L’ultimo sabato fu una giornata come tante altre; respiravo nell’aria come uno strano e immotivato senso d’euforia, che una volta entrato in circolo sprigionava nell’aria buona parte delle tossine che avevo in corpo. Era uno dei miei sistemi di autodifesa psicologica, e la convinzione profonda che riponevo in quell’immagine mi aveva regalato un altro pomeriggio di statistiche sostenibili. A volte misuravo scadenze predefinite di tempo in base alla vicinanza allo zero del tasso di insoddisfazione. Ad esempio 0,4% equivaleva a un pomeriggio tutto sommato andato per il meglio, mentre 2,13% cominciava a rasentare la soglia critica del 3% di insoddisfazione, obbligandomi a introdurre in tutta fretta nuove forme di distrazione. Vale a dire intraprendere attività insolite, oppure più frequentemente costringermi a sforzi psicologici di valutazione, esercizi mentali per attribuire nuovi elementi di pregio a circostanze e abitudini che ormai avevano perso d’efficacia. Potrà sembrare criticabile, ma pensandoci bene alla fine dei conti sono poche le obiezioni a questi miei stratagemmi che si possano definire onestamente legittime. Molti di quelli che adesso potrebbero storcere il naso non hanno mai saputo far altro che lasciarsi sgretolare lentamente dalle ansie e dalle angosce della quotidianità, e nella buona parte dei casi semplicemente non sarebbero in grado di costruirsi da soli delle vie di fuga. Io ci stavo riuscendo e per il momento mi pareva più che dignitoso accontentarmene. Quel sabato, pochi giorni prima di cominciare a lavorare al ristorante, ero quasi per niente insoddisfatto. I miei esercizi fisici davano risultati, e di pari passo miglioravano le mie applicazioni artistiche e la produttività delle mie ore di studio e lettura. Erano giorni regolari, domestici, ma del tutto rassicuranti. Ero addirittura riuscito a compiacermi per alcuni film che avevo trovato interessanti e avevo scoperto alcuni vecchi album musicali sconosciuti che per qualche ignoto nervosismo di fondo erano addirittura riusciti a mettermi addosso voglia di ballare. Ed è proprio quello che feci, eretto al centro della mio universo tre metri per quattro, piedi nudi sul tappeto moquettato, di colpo cominciai a muovermi, con in testa l’andamento dei grafici e gli ottimi risultati scolpiti nell’orgoglio. Subito dopo arrivò il turno dell’addestramento fisico, così impilai lungo le pareti tutto ciò che potesse disturbare il mio perimetro di movimento, mi tolsi tutti gli abiti di dosso e restai nudo con musica e cronometro a correre sul posto, rincuorato dalle attenzioni premurose delle cifre pixellate sul timer. Quello era il momento più soddisfacente di tutta la giornata, già da qualche mese. Potevo distinguere nettamente le voci di ogni singolo muscolo liberarsi dal corpo e veleggiare nella stanza, riunificandosi al senso d’euforia nella loro isterica cornice di baci appassionati. Ogni passo era una nuova prima volta e le cavalcate si rincorrevano frenetiche in uno schiamazzo scomposto di rigorose scariche elettriche, che mi traversavano il corpo da parte a parte. Nessun rimorso, finalmente nessun fastidio, e poi quasi senza rendermene conto afferrai i pesi, un buffo arnese autoprodotto composto da due mattoni e una maniglia legati insieme da incalcolabili cinture di scotch ben strette tra di loro, e cominciai le serie di sollevamenti, un braccio alla volta. Le ripetizioni mi coinvolgevano istintivamente, c’era qualcosa in quei movimenti ritmati di assolutamente pornografico, e ogni avvicinamento al volto, ogni sfregamento degli avambracci sui fianchi sempre più inumiditi dal sudore, era come se mi trascinasse per i capelli da un polo all’altro di un campo magnetico di piacevolissimo dolore. Come spilli mi si conficcavano nel collo i crampi di una tormenta psicologica e mi sembrava di percepire la stretta morsa dei ricordi solleticarmi i nervi con forti pizzicate, come se da dietro una porta socchiusa trapassasse la goffa eco di un musicista improvvisato intento a suonare con i denti il vecchio clavicembalo nell’aula magna di un manicomio criminale. Finito il tempo, mi misi a fumare, appoggiato al quieto rilassamento seguente la scarica di tensione e liquidi corporei dell’allenamento, aggrappato allo schermo retroilluminato e alle sue cifre che adesso avanzavano più lentamente. Quando arrivò la telefonata avevo appena fatto ripartire la musica d’atmosfera, mi ero schiarito la voce e avevo anche fatto qualche prova d’intonazione, prima di rispondere una volta soddisfatto dal timbro. Poi arrivò la domenica e fu un 2,61%. Lunedì l’insegna accanto alla porta spalancata dava segni di cedimento e la fila continuava lungo il marciapiede. 2,98%.

Subaffittasi

Tutto il corridoio era illuminato da una sola lampadina, avvitata sulla parete davanti all’ultima porta. Non riuscirei a giustificare quanta e quale fu la mia sorpresa nel ritrovarmi lì dentro, in quel preciso istante. Non mi ero reso conto di esserci entrato, né ricordavo altro di quel che poteva essermi successo fino a quel momento. E non ci mise molto, qualsiasi cosa fosse, a scatenare il panico. Solo un momento per ricominciare. Così guardando meglio mi ero già rialzato e mi stavo avvicinando a quella lampadina; avevo voglia di succhiarla e chiudere gli occhi, appoggiato col gomito al muro nello sforzo di immaginarlo abbastanza solido da trattenermi. Ricominciare, da zero, un’altra volta. Sempre che non mi tornassero alla memoria i discorsi di quella bambina, così innocentemente letale, che mi ripeteva quanto fosse pericoloso prendersi troppo sul serio, credere in qualcosa di quello che ci si racconta, con quell’aria così rassicurante, vestita di candido, che mi avvelenava. Ancora una volta, ti prego. Così guardando meglio gli occhi si erano riaperti ma il corridoio aveva l’aria di tutto meno che d’essere verosimile: la vernice rosso sangue dell’intonaco scrostato aveva lasciato quasi ovunque il posto alle bombolette opache, senza lasciarmi nemmeno il tempo di farmi sfiorare dal sospetto che fosse stato possibile per qualcun altro ritrovarsi lì dentro prima di me. Una soltanto. Ci pensai soltanto dopo, quando guardando meglio ormai le gambe erano partite senza dire niente a nessuno; e le vedevo guardarsi intorno pettegole, sghignazzando tra di loro a ogni oscenità sputata a spray dritta sulle loro zone erogene più terrificanti. Solo per oggi, lo giuro. Mi ricordai che ormai doveva essersi fatto tardi, ma restai inchiodato nei polmoni, sopraelevato come quel lungo tubolare, tanto familiare quanto arrogantemente inutile. Mi guardava con disprezzo, e si divertiva a nascondermi anche l’ombra di un gradino apparente che mi lasciasse scendere. Non succederà più, ti devi fidare di me. Così guardando meglio avevo freddo e mi avvicinai alla lampadina, mentre le valvole delle vene e delle arterie con un ottimo lavoro di squadra spronavano il coraggio fino alle mani, per convincerle ad avvicinarsi e scaldarsi. Come se non ci fosse, l’odore di vomito rinunciava a sé stesso, tiepido lungo i nervi sfilacciati dei pantaloni, e mentre libero da concorrenze sleali osservava rispettoso la plastica bruciare sotto la lingua, due lividi di palpebre scivolavano via fino alle dita, ingoiando la polvere di un macchia giallognola nei pressi. Mai più, ti prego. Mi venne a esiliare la madre ignota di un ritrovato interruttore fine-di-mondo, sempre più chiuso in se stesso ma anche da spento sapeva farmi sbellicare come solo lui. Ti prego… Così guardando meglio ero morto, e finalmente potevo lasciarmi vivere. …aiutami

Voltapagina

Quando la comitiva di turisti, uno per uno, si apprestò a entrare nel fastfood greco in fondo a via Merulana, ancora non si era staccato dal bancone metallico della cucina. In un primo momento non si era neanche accorto di tutti quei giapponesi con cappellino e scarpette fluorescenti e dell’incomprensibile fracasso dei loro chiacchiericci. Fino al momento dell’incidente rimase lì appoggiato sui gomiti, disorientato dalle traiettorie degli occhi disegnate lungo le incrostazioni di cibo sul tavolo da lavoro. Il titolare del posto, il signor Katsikaris, lo aveva tenuto come cassiere fino a qualche mese prima, quando una rapina andata a buon fine gli aveva portato via tutto l’incasso della giornata. Aveva dato la colpa a lui convinto che in qualche modo non si fosse dato abbastanza da fare per impedirlo. Nonostante tutto, aveva chiesto il permesso per continuare a spendere come sempre le sue otto ore al giorno davanti a quel bancone, un po’ per la totale mancanza di applicazione nel trovarsi un altro lavoro, un po’ per il rispetto dovuto al suo equilibrio mentale. Fino a prima del licenziamento tutta la sua vita si reggeva intorno a quel posto di lavoro: ogni sua prospettiva per il futuro, per quante poche ne avesse, contava sulla miseria di quei trenta euro del buono giornaliero. Quella sera non c’erano motivi per aspettarsi una giornata diversa da tante altre identiche, passate a compatirsi accasciato sui gomiti, eppure si sentì molto più sollevato del solito quando finalmente arrivò lo psicologo, un ex professionista in pensione con cui quando ancora lavorava aveva avuto una mezza discussione per via d’un resto sbagliato, e subito dopo erano diventati amici.
E poi insomma, quello che mi ricordo è che in qualche modo era come se io fossi il Colosseo, proprio come se mi ci fossi ritrovato per caso, per dispetto di qualcuno che gli avesse voluto ficcare uno dei miei nervosismi per ogni colonna, ogni angoscia in quei bei mattoni bianchi tutti in pila uno sopra l’altro. Non lo so, mi ci trovavo incastonato dentro, e c’era un elefante. Grande, tanto quanto me; non so se fossi io a essere un Colosseo molto piccolo o lui una bestia così gigante, fatto sta che subito dopo mi trovo di spalle a un bancone tipo questo, solo in un bar molto più vintage, una luce soffusa alla francese e la moquette sui muri, tipo il pavimento di una camera da letto bagnata di piscio ripetuto verticale, copiato e incollato su ogni superficie della stanza. Neanche il tempo di guardarmi meglio intorno e quest’elefante mi dà un calcio sul petto, con una zampa di certo diversa dal solito, come di cavallo. Un cavallo magro ma forte, col pelo ambrato. E io non potevo muovermi, e alla fine è come se m’avesse ucciso schiacciando il petto del Colosseo. Sono morto soffocato, non so cosa possa significare esattamente, che dici?
Riaprire gli occhi adesso era più un riflesso condizionato che un vero e proprio sforzo di volontà; sentiva di non riuscire a sopportare oltre l’odore bagnaticcio che il velluto bordeaux dei pantaloni dello psicologo gli spingeva di forza dentro le narici. Non è che ne fosse proprio infastidito, però in qualche modo sentiva di avere il bisogno di definirlo in un’immagine. E l’immagine di sé che ne ricavò fu di colpo quella di un povero esaurito, nuovamente sopraffatto dalle sue funzioni riflessive, svenuto dai suoi stessi pensieri e steso in terra, con lo psicologo seduto sopra di lui e buona parte delle faccette rotonde dei turisti che lo fissavano vai a sapere con quanti e quali interrogativi giapponesi finalmente liberi di sbizzarrirsi dentro le testoline, ora che le loro preoccupazioni non si limitavano più a trovare il fuoco migliore per fotografare i lampioni della città. L’unico suono che riuscì a percepire fu il rumore del voltapagina del taccuino, e una voce distaccata da sé stessa che lo pregava di andare avanti.