79 febbraio

Soffio di fremito, abitudini sbagliate che si consolano delle preoccupazioni altrui, quant’è verde il vento stanotte, non mi sono mai sentito le pupille sudare tanto, Nina d’Amore dell’Est, quello che dici risuona di cattedrale-miniatura nella teca del Museo Etnografico ma ti assicuro che non me ne importa, basta qualche rimbombo per giustificare tutto quel che ti parla, e resta il catrame sull’amaro, le gole sono aperte, srotolate, sullo spiedo rotante del kebab austrungarico, prendono caldo e si girano dall’altro lato, distese sui sassolini sgretolati della lunga strada camionata della prima periferia, come volerseli assorbire se li mangia e aspetta che qualcuno se la venga a riprendere, senza troppe ambizioni di riarrotolarla di nuovo, a ritmo di musica si contorce e grida, muta, non te l’aspetteresti un accendino che schiocca scintille preciso a tempo del ritmo da osteria, senti adesso il violinista che ti guarda, sentilo come si avvicina per implorarti monete con valori inesprimibili in valuta corrente, lo senti sgomitare la fisarmonica e tutte insieme si tirano dietro il coro dei compassati ululanti che con la testa squadrata vengono alla balaustra delle tavolate condivise con la coppia di Gemelli Occidentali, che pure riescono a trovarsele da qualche parte quelle monete, non si sa come, il fracasso che fanno i musici non si può sopportare amico, dagli qualcosa, dai, crocerossismi tipo le Bulgare Nuove accomodate con gli stipendi esternalizzati che trovano modi di riempire i boccioni di plastica da tre, quattro, cinquecento litri di birra calda, ispirata dalle goccioline della condensa amarissima che risuona nelle teste dei volenterosi come siringhe di insopportabilità da parco divertimenti, nel parco, la panchina è abbastanza comoda per chiedere informazioni, prima di essere invitati a soffiare nei tamburi degli imbuti rovesciati, prima di vederci rosso da tutte e due le orecchie un momento prima di ingoiare il panino con la salsiccia di porco marinata nel cumino e i cani si avvicinano, e i cani vengono chiamati per nome da ignoti proprietari improvvisati, e i cani vogliono il cumino, e i cani sentono le voci, e i cani obbediscono, e pensano al cumino cinquecento chilometri più lontani dal guinzaglio dei colleghi dell’autogrill, e quando ancora non se ne riescono a dare spiegazioni nuovi canotti di pane gelido sfilano palle di carne e verdure grigliate mesi e mesi e anni prima, e ricotta e pomodori tutto insieme alla senape di una panca più lontana, fitte nell’addome e un caffè stabilizzatore, e ancora quelli se ne pensano al cumino, come si fossero persi episodi intergalattici di qualche racconto interessante davanti al focolare del Kyuboto con le terrazzine per fumare senza andare in strada, e quando ti risvegli, qualcuno più interessato di te la coperta l’ha trovata e te l’ha messa addosso senza badare troppo ai cani, finalmente.

78 febbraio

L’odore di funghi non si sente più sotto il mentolo delle domande dell’Istituto Nazionale di Teologia Marziana, ancora non si vedono passeggeri o turisti che si fermino cinque minuti a parlare col Demonio mentre la metropolitana sbaglia tutto e ti porta al terminal più avanti, dopo cresce l’odore di tabacco, il tappo svitol della bottiglia da cestino che ti insegue in mezzo alla tappezzeria stile Sessanta delle panche del vagone di terza classe, e l’ossigeno fresco evapora sotto il Sole del Tredicesimo Reich, e guardarlo da lontano significa esserci affogato dentro con tutte le carni che qualcuno ha marcabollato preciso apposta per le tue esigenze, il divano e un senso di vuoto, in mezzo ai documentari natgeo.bg, un vecchio uomo con la coperta del Poeta, ti mette in guardia dalle risate sciocche che ti partono dal naso quando vorresti non dover avere un corpo da tenere al guinzaglio, le parole del vecchio tramontano sul mare insieme alle sue ginocchia, che si piegano per dormire lì dove dorme qualcuno che si è imparato un paio di libri a memoria e non ha nessun motivo di fartelo sapere, un nudo gomito femminile, elegante braccio aristocratico, s’intreccia con l’incidente diplomatico caduto fra collo e cranio, indica città di mari lontani e si arrotola alle strane pendici della carne, che poi non si ricorderà come mai non aveva voluto chiamarti, non si ricorderà come mai poi ti ha chiamato, come mai poi i gatti randagi ululano in faccia ai cani stupidi delle cicatrici che ti porti in fronte come segno inevitabile dei sagrestani che ti sei scopato sulla via di Damasco, insieme a qualche Samaritano di passaggio che ti faceva la spremuta col succo e polpa d’anguria mentre te ne stavi a fissare la lama con cui tagliava gli spicchi e pensavi, sognavi ti tagliargli le ossa dei capelli e delle unghie, e i denti frizzavano davanti alle zampe impallottolabili del sacro divenire delle angustie terrene, un momento nuovo che sembrava non potesse avere l’ardire di finire dentro il cerchio ruvido d’un ex pozzo venerando, rimasto incinta di cemento armato sul più bello della tovaglia di stoffa, rossa e verde senza rispetto per il buongusto, e qualche cucchiaio bastava di nuovo per tornare fuori dalle allucinazioni, un nome, un cognome distinto e indistinguibile tra mille altri che ti girano in testa insieme a un taglio degli occhi che ormai vedi dovunque e chissà fino a quale argine lontano dei tuoi desideri possa continuare a fidarti di lui, e poco lontano un fagiano non c’entrava niente, un nome, un desiderio altrui, un paio di tempie terremotate, un sogno di naftalina che stringe i pantaloni senza fibbie valide da contenere, chissà quale malattia venerea poteva portarsi via Tolstoj, la sera che se la svignava, e amava, amava tanto, povero coglione di un veritiero, Karenina, e il posto resta libero, un volto di Nina che spiaggiato lontano lungo sassi bagnati e plastiche insabbiate, per un secondo netto, non riesce a fare a meno di pensare ai colleghi, teneramente.

77 febbraio

Nessuna importanza, teschi di voci ravvicinate si alternano lungo i muriccioli della darsena sovietica, inciampando nelle zampe molli dei cani randagi, croci di sapone, tumuli gialli di neon e luci verdi domandano il listino prezzi all’avvocato e riattaccano il telefono per farti salire sulla giostra, le voci rimangono a metà, sortite maldestre dalle gole sudate, ogni qual volta ringrazi Lawrence e la tazza d’arabica per la stimolazione febbrile, e quando meno te l’aspetti lamine d’oro perfetto scolpiscono il naso delle Madonne Ricurve dell’Est, e prima d’allora non ti rendi conto, non vedi le telecamere, fino a quando non incroci il soffio illegale d’una Signora che ti offre bicchieri di plastica e posaceneri col coperchio abbinato alla tappezzeria, e volano voci di sagome spaventose, linee di simmetria che partono dalla testa e se ne vanno a inumidire i piedi sotto tonnellate di grasso animale e denti rovinati dalle fibre delle arance fuori stagione, vedi la cannuccia sul tavolo e una lingua stentata che rincorre gli sbagli sempreverdi lungo le ringhiere gialle delle cancellate delle scuole, ogni mattone si muove, ogni pietra sul selciato della Rambla Nera ti scorre sulle caviglie per darci rapide puntine d’occhiatacce e predominio, in fondo il parco, di là la chiesa, tutto si definisce nella geometria dei Leoni del tribunale, ogni sasso ti rotola addosso insieme ai pezzi di ferro appesi ai commilitoni, che ti seguono con lo sguardo come appestati fuori misura, e solo tempi perduti da ringraziare prima d’essersi ritrovati, e qualcuno insiste a tornare indietro fino a morsicarmi il futuro, affogato nello yoghurt saporito d’una zuppa al prezzemolo, ogni tanto volano le lettere centrali d’un grande palazzo di Stato, e non sarebbe meglio domandarsi quanto una panchina fuori dalla porta di ritorno non dovrebbe ritornare a ingrandirsi, a farti spazio mentre te ne scorrazzi intorno parlando delle inquietudini dei mondi di mezzo, dei lampioni senza interruttori da sconvolgere, con solo qualche altro adesivo in tasca e le sigarette senza filtro che ti mangiano le labbra sotto l’insegna cirillica della stenta, quella clinica, che ti rincorre dal sagomato del cadavere sul tavolo al pezzo di intonaco sfregiato, e poi fin sui cartelli dell’uscita d’emergenza e sulle lampadine spente che non si capisce bene da dove provengano, sempre che si dia per scontato che poi il passo successivo è un altro pezzo di tavolo da fracassare con le ossa dei capelli, ogni arcivescovo si porta dietro il coro più buffo che si possa sentire, dritto davanti al serissimo corteo nuziale di vestitini rosa e fiori sparsi lungo le navate rotonde dell’organo, e poi già arriva l’ora d’uscire dalla macchina fotografica, tanto per tornare a viversi da un’altra parte, con qualche insegna in meno, meno pastelli laminati sottili come spilli da dentista, e gengive che sanguinano al tocco dell’asciugamano quando poi ci ripensi e capisci che già t’andava bene, [quando non è il caso non è il caso, forse sportività significa anche stringere la mano all’imbuto che non si riesce a rovesciare, quando non si riesce a rovesciarti la pupilla sgozzata in conversazioni postume e immagini di frustate sui piedi, pronte a sfidarti di nuovo].

76 febbraio

Deserti, non più cantine d’Occidente, sogni di scriba, amanuensi piegati in due dall’insofferenza, parlare di sé, termini di cosmogonia irrimandabili, soffi morbidi sul pendio della testa, piccoli segni di denti rotti che graffiano la pelle sensibile, senza bagno schiuma tutto diventa più reale, e solo quando si sorpassano i limiti dell’eccedenza pare che ritornino i sacerdoti dall’aldilà della vita quotidiana a benedire profumi d’incenso e stupratori con la mirra nelle mutande che ti guardano dall’alto in basso con la semplicità di una bambina che si morde la lingua davanti all’insegnante di ginnastica, il giorno degli esercizi difficili, della prova cronometrata che altro non ricorda se non quando eri piccolo, in piedi sulla sedia della cucina, davanti alla finestra col telescopio puntato sui passanti, e le cornici diventavano sogni di cera e scintille luminose che divampavano fino a quando non si abbassava la saracinesca e le sedie e i tavoli di ferro rosso restavano incompiuti dentro un garage di primissima periferia, addobbato a santi monaci e crisantemi d’edilizia troppo moderna anche per le schiere infinite dei cinesi troneggianti, che contavano gli spiccioli da rinchiudere nei piccoli tubi di plastica dentro un furgone con la targa coperta e le coperture di nylon sfilacciate intorno ai finestrini, che ti risucchiavano lungo la polvere dei sedili, e di nuovo veniva l’altalena del tuo piazzale personalissimo a ritirarti da ogni scena abominevole nel silenzio della Domenica rovinato da spasmi di pistole giocattolo e cartelli stradali ammaccati nell’orgoglio, nella divinità, nel ruolo dei più istituzionali che altro non rimaneva se non linee, piccole linee di svolgimento pari alle code mozzate delle lucertole, senza per fortuna voler dir più niente che l’ansia di un ragazzino sfuggito dagli zii intorno al tavolo della cucina e pronti a soffiarti via il salotto con la partita di calcio rituale che segnava il confine tra i mattoni rossi della grande scuola pubblica di stato e tutto quello che davvero ti scorreva lungo i fianchi insieme al sudore freddo sotto al sole caldissimo dei pomeriggi interminabili, fatti di macchine fotografiche senza rullino e frustrazioni di gatti dentro un altro garage che piangevano, piangevano continuamente, e mangiavano, mangiavano continuamente, e da fuori potevi sentirli, li sentivi continuamente, e mozzavi code di lucertole, e mozzavi code di cartelli stradali, e mozzavi code di mattoni rossi, in piedi alla finestra della cucina, e il vicino con il gelato da servire al cane, morto d’infarto per colpa del tempo, e continuamente li seguivi dalla bicicletta che si allontanava nel nuovo minuto raccomandato, e ti lasciavi raccomandare dai passanti, da quello vestito di nero che ti guardava con occhi da sellino e barba lunga fino all’angoscia dei malleoli, e volevi morderli, volevi mordere i malleoli anche se ti faceva paura, e le credenze erano soltanto mobili di legno che non avevano altra certezza se non quella del tuo futuro, misurato in centimetri e tacche progressive immaginarie, e chissà che aria, chissà quale aria da lassù, da dove lo specchio non si piegava nella cornice bassa del muro, ma si lasciava servire dai volti di pietra imbiancati dalle schiume della vita, che non era la tua neanche stavolta ma che di sicuro non sarebbe potuta esser altro che il tuo migliore amico per il resto dei giorni, la tua esistenza che mangiava biscottini al sapore di pollo gironzolandoti intorno a forza di colpetti di coda, e ogni tanto ti tiravi in faccia qualche secchio di bastonate da riportare indietro prima di sera, prima che facesse buio e non si vedesse più in terra in mezzo ai fili d’erba che crescevano sulla fronte di chi li guardava, e ti dava l’idea che quel posto fosse infinitamente più enorme, più infinito delle ghiande che raccoglievi dalle altre parti, e non sapevi perché tutto era così zitto, e non ti spiegavi come mai fosse tutto silenzioso fino all’alba dei cadaveri dei giorni dopo, giorni che non c’erano neppure per un errore strano e imprevisto dei calendari, e ogni attesa era la verità della tua persona, coi pantaloni corti, la bicicletta verde preferita e il cambio a rotelle che si insinuava in mezzo alle dita per rivalità d’un campanello rotto e canne infinite che si sotterravano da sole dalla paura di cadere, e quando cadevi volevi rifarlo e l’innaffiatore automatico ti irrigava i pantaloni della faccia e tutto si faceva stretto e breve intorno ai misurini di medicinali sparsi sulle piastrelle malconce della cucina, lì di nuovo alla finestra, in mezzo alle scintille, telescopiche, e ti si chiudeva il bandone sul naso e gridavi, zitto, nel bagno, nuove scoperte che misuravano a forza di finestre incrinate la veranda della tua genialità perversa, fino a quando non ti crollava addosso pure lei e te ne tornavi a perderti nel letto, le mattine con la testa al posto dei piedi, i pompieri che non si sapeva da che parte fossero entrati, fascicoli aperti e fogli sdraiati per terra come carcasse di orsi polari in una fossa comune della grande Austria dell’inizio del secolo, e nuovi millenni in un singolo cigolio ti spalancavano le palpebre su una maniglia che non poteva esser lei ma che continuava a muoversi, a piegarsi senza ritegno senza aprirsi mai, e a volte sembrava dovesse farlo e ti mettevi a sedere sui fragilissimi divanetti vellutati di rosso, lì dove giocavi di nascosto con la palla di gommapiuma per terrore che si rovinassero i musei con tutte le loro perline sacre di plasticaccia viola e scaffali pieni di pezzetti verdi che dovevano essere del tutto particolarmente intoccabili, e ti sembrava buono, che ci fosse sempre un letto, per tener la testa al posto dei piedi, e dormire.

75 febbraio

Ritorna, nel completo abbandono di sé, ogni primavera di luce a sprecarsi di fatiche inutili per ritrovare il sostegno di mille e mille fiumi, dei miei occhi a planisfero, rotondi come carta da forno immacolata di annunciazione, e sarebbe meglio proibire, con leggi di Stato e carte bollate di altissimi ministeri da sottaceto, a costruirmi recinti intorno alle pupille con tanto di guardiani armati di torce e pistole elettriche con la punta arrotondata conficcata nei cadaveri vivissimi di nuovi e nuovi suicidi sempre freschi, sempre col gambo appeso all’albero di legno della fucina dell’abbandono, nuove carte spese a giocarsi in giochi antichissimi, ripetuti per l’Eterno, in ogni assaggio di primavera ritorna a marcire l’angosciante banalità del continuo ritorno, della mediocrissima reincarnazione, resurrezioni fuori moda, abituate ai colori dei minimarket bengalesi, a pochi centesimi quadrati di cavatappi rubati e zaini ricolmi di tempo risparmiato, ritorna sempre da capo, la forza di un inizio già finito in tempi non sospetti, quando ancora non si parlava, e non se ne parlava davvero, di ricordarsi dei contenitori degli altri come se avessero una qualche continuità col tetrapack del proprio cervello, annodato intorno a slogature di polpacci e caviglie malconce sporche di granelli di sabbia e polverine calcaree sgretolate dalle marmitte calde e dai fermagli slabbrati delle carrozzerie rigate, con soffi di luce che rimbalzano fin dentro l’abitacolo e si sperdono sul tettuccio in cristalli di milioni di rifrazioni sbagliate, a inseguirsi per l’infinito sotto l’ombra sagomata dei cartonati della Natura, che frastagliano l’ultimo ricordo di un tempo possibile solo nel futuro, rendendo omaggio alla devastazione di pochi passi successivi al monastero, là dove verso Rila sorge il sole in forme di aspettative, e ancora non se ne sa niente se non che forse qualcuno ti ci porterà e ti ci farà aspettare il prossimo ritorno alle lavastoviglie, alle ganasce sempiterne degli sbavatori assoluti, pochi assaggi di cortesia perdute nelle mance, e in un colpo solo niente di corporale mantiene più una sua qualche forma d’orgoglio tradito, se non ancora vivido nuovissimo ferro da combattimento, nei cappi appesi ai soffitti delle segretissime Segreterie di Stato, lì dove ogni riflessione cade nei pezzi di vetro incocciati sul pavimento a righine colorate, e per sempre continuerà ad aspettare la nuova primavera, con un sussulto di leggerissimo vomito ambrato, colare lungo i bordi della bocca in perle di rugiada e sudore, raccolto da fialette chirurgiche, specializzati dottori di Comprensione che tutto vedono anche senza nervi ottici saldi e manomessi, bypassarti non è mai stato così soddisfacente, e adesso farlo è un obbligo morale, comandamento sacro e inviolabile a suon di lavagna e unghie gessate per una trentina di giorni almeno, fino a quando poi un altro infermiere a bastonate sul prefabbricato verrà con la gola calda e umida a urlarti nell’occhio che tutto va bene fino a che la sala d’aspetto sarà piena e niente e nessuno, lo dice il sussidiario, niente e nessuno, secondo il sussidiario, dovrebbe poterti convincere a non replicarti nel cerchio, nel pendolo a muro della nuova primavera, seriamente, cosa può esserci di meglio del canto degli uccellini del Natale floreale, e perché non starsene seduto davanti alla fauna cittadina a guardare di segreto tra gli spifferi dei palazzi geometrici tutto quello che di nostalgico e derubato adesso non si riconosce più, ma che ancora deve avere qualche valore, deve avercelo per forza, altrimenti non avrebbe senso tutta la nostra storia, tutta la letteratura, che ci siamo finiti a fare sull’argine di un fiume se non era forse per bere, e chi se lo ricorda più perché ci piaceva, però a tutti piace e gondole di nausea attraversano le tribune degli spettatori, mentre tutti seduti a gambe incrociate dopo l’orario d’ufficio si sperticano lungo i cornicioni per trovare nuove e nuove e nuove forme da modellarsi addosso, sui propri cartonati immensi, fino a che non sarà la gondola stessa, a piacerti, a riempirti di sperma le pupille con le sue nerissime doppie dimensioni, spiaccicate su una carta d’identità scaduta, valida per l’espatrio, ma chi vuole espatriare, e dove, dove dovrebbe andare se non verso il cucinotto, la lampada alogena reclinabile che si può mettere esattamente dove ti pare, e ogni angolo buio si metterà insieme a te sull’argine, dopo l’orario d’ufficio, a pensare alle raccomandate di ritorno e a incrociare le gambe lungo se stesse per lasciarsi riempire, riempire fino all’ultima goccia di spazio disponibile, dalle sacre icone dipinte a mano e sfoglie d’oro, che si riversano lungo le moschee delle strade secondarie, senza fondo ma con un qualche ricordo di quando eri bambino, di cani che ti inseguivano fin sulla porta di casa di qualche parente lontano che nel frattempo sgozzava le galline, e tirava il collo fino a non riuscire a sentirti, e per fortuna c’erano portoni, portoni immensi con maniglie da cassettiera che si blindavano tra te e il cane, e lo lasciavano fuori, libero d’andarsene sull’argine se volesse, che tanto ricomincia l’orario d’ufficio, e se anche non ricominciasse, c’è comunque sempre il cane, e di sicuro è meglio aspettare.

74 febbraio

Vidi salire la valigia dell’architetto fino a scomparire sui tetti innevati della prima estate d’amianto, l’ombra di Dio trafitta dal cranio della polvere suonava l’armonica a bocca soltanto per noi soldati del futuro, sugli scalini si appoggiava alle ringhiere l’insegna luminosa di una tabaccheria in orario prolungato fino a dopo le redenzioni di un sonnambulo, ogni particolare sedeva al suo posto come in un mosaico di lasciate speranze e consigli provvisori, niente di quello che potevate sentire allora vi sarebbe rimasto da qualche parte nella tasca, insieme a me, un prete in vestaglia e sigaro ammezzato vagava sotto i lampioni sparlando del Verbo e dell’oscurità, quasi non si sentiva altro che la montagna dei suoi rifiuti umani accorrere fino a stringergli le ginocchia in un muro del pianto genovese che mi lasciava in bocca come un senso di latte e miele e germogli di sale marino essiccato, l’imbuto restava sospeso, non c’era collegamento diretto, non abbastanza veloce, all’infinito lo sbattere di un rumore, contro i veli appassiti delle testuggini, mentre arriva la Madonna vestita di candido e salmonella a cambiarmi il secchio sotto la grattugia per il cranio, qualcosa di meglio mi promette che dovrà arrivare, mi guarda con un sussulto di improvvisazione e rimanda tutto a dopo l’intervallo, quando un signore di poco più di un’eternità da masticare si alzerà sulle spalle e togliendosi il cappello finalmente ci lascerà entrare, con tanto di mostrine e sacchi neri intorno al collo, dritti fino al bancone del bar, a ordinare camomilla per tutti e doppie dosi di caffè misto alla frutta che nessuno era riuscito a trovare giù nella bassa campagna, intorno alle pareti limacciose del fiume libero, quando ancora si portavano gli occhiali alla moda di Parigi e tutti si accontentavano di avere un quadro elettrico da saper gestire e tornare a casa sporchi di fango e con la tanica della camicia macchiata fino all’orlo della disperazione, le famiglie li guardavano allora, e li vedevano brutti come di una bruttezza segnata a inchiostro di verità nelle cornici di un siero sintetizzato in fretta e furia sulla riva di un mare bianchissimo e con la febbre a novanta che portava nuovi amici dentro i saccappelo dei traditori e delle donne di pubblicità, rossetti da grande schermo che sfilavano su vestiti inadeguati e grasse risate, intorno alla corte ripetuta di qualche grasso paramilitare vestito da Gabibbo che portasse ancora sicurezza e gelido tepore domestico nelle corti della Francia più rassegnata, e quando ancora poteva sembrare che bastasse non se ne usciva mai, e ancora di nuovo una volta ancora serviva replicarsi, anche senza faccia bianca e inchiostro da progettatore genetico spalmato intorno agli occhi, bastava lanciare eserciti di grida scomposte per tagliare tutto in un misto nylon di specialissima rassicurazione, e quasi tutto sembrava come prima, e ancora si era sereni, perché alla fine migliori, perché alla fine i migliori della fogna, e la fogna serviva per guardare giusto mezzo centimetro liquido più lontano della miseria delle scarpe da montagna ricucite che mi nascondevano il cadavere dal fiume, giusto che se ne accollasse finalmente una qualche responsabilità, non viveva nessuna delle restanti, nessun parametro, questa è la via, il salvacondotto per un prossimo coinvolgimento maggiore, due libertà che si scontrano, si danno morsi sul collo come fossero cani finalmente lasciati umani a gioire del guinzaglio pendolante dalla ringhiera di un grosso palazzo di mezzo piano sotto la terra, lasciato a marcire nei relitti di bottiglie di vetro e mozziconi di sigarette in autocombustuione che facevano perdere l’orientamento fin sopra la tastiera del divano senza uno dei tre cuscini, quello dove dormivi, pensando al terzo, al figlio forse più importante che ti ascoltava da sotto il terrazzo come orda di eserciti in pensione che si fanno le parole crociate di ritorno dalla Guerra Santa, e i denti che si staccano dalle gengive e finiscono sul collo, via dalle bocche umide dei vecchi tabagisti e fanno la tracheotomia alla sussistenza nevrotica, tintinnano il clitoride della Zita fino a stuzzicarle la radice del cranio con punte di trapano a manovella e segatori finlandesi di montagna che si abbracciano a fine giornata vestiti da sarcofagi dissacrati, spolverati da bande di sciacalli in tenuta antisommossa, grasse risate e vestiti inadeguati, e poi ancora ritorna l’ombra, spolverata via, dal cranio, di qualcosa che ancora non esiste se non nella tua testa, nella tua, nella testa, solo dove l’hai lasciato solo, ancora ti fissa, continua a farlo perché tu le vuoi che si abbracciano, che si abbracciano per te, per una pace nuova e tempestiva dopo le punte affilate dei coltelli a spalancarti alfabeti in costruzione di ponteggi di vetro e camicie da notte rosso umide, dietro cancelli aperti e auto in fuga nelle sirene della notte, che seguono per la loro grassa strada con lo stereo a tutto volume e i volumi incorniciati da un color rosso simmetrico come il punto nero che esplode sul volto ogni volta che si sente parlare di persone che non dovrebbero parlare se non quando il maestro le mette in punizione per aver fatto troppi, veramente troppi, davvero esageratamente troppi compiti a casa, senza che nessuna nonna morisse d’invidia a pensare al corso di laurea d’un affogato, strette intorno a nuove palme da quarto piano a fissare passanti albanesi con le dentiere bianche e i vestiti brizzolati dalle rughe della strada, quando ancora una strada non era niente di meno che una feritoia nel mondo verticale, un supporto alle esigenze di un disegnatore quattordicenne ricoperto d’ovatta e gommapiuma, e a forza di movimenti nuovi i tendini continuavano a replicare al mondo a microfoni spenti e con l’autoradio rubata, soli dove solo qualche altro curioso ricercatore d’interruttori li ha lasciati a implorare perdono dai passanti, dalle catene divelte della sera tarda, dalle limousine interminabili dei vecchi amici seminati lungo le rotaie a forza di fischi e botte d’asfalto, lungo i corridoi delle visioni del futuro, tutto quello che inevitabilmente dovrà succedere adesso per non succedere mai, e quando ti vedi, ti vergogni.

73 febbraio

Continuava diritto, non era nuovo per lui. Il mento di tre quarti rifletteva pallido nello specchio convesso, disperso tra sfumature ingrandite e lo sguardo disperso nella chiara luce dei quattro fari al neon. La voce della radio resisteva tra le pale innervosite del ventilatore, da cui sprigionava un ronzio sordo come il pomeriggio di metà luglio. Dietro lo specchio, pochi barattoli, e lui seduto di fronte ai segni rossastri dei gomiti disegnati sulle cosce nude. Si respirava aria gonfia e appesantita di monotonia, non c’era da sottrarsi alle intemperie della noia. Ogni passo spiccato verso il mare era frutto di terze possibilità, mai concretizzate nel lusso di un’immaginazione vaga. Soffrire era rimasto privilegio di pochi benefattori, e quel che più induceva in tentazione era la fila di turisti davanti alla cassa del bar, che sembrava messa lì apposta per riempire di schiaffi le facce dei disperati e poi supplicarli di scappare con le tasche piene verso tutti i finalmente di una mezzora successiva nella latitanza latinoamericana. Arrivò il giorno del bagno nudi nel mare: sembravano le due o le tre di notte, se non fosse per la luce della radio e i fiotti di bambini dissanguati che scorrazzavano sotto il cielo asfaltato. Pochi spiccioli nella mano, un soffio di vento e la sabbia che li divora, che viene a leccare la punta della mano con le sue grosse fusa al sapore di nylon e lamiera. Una carrozzeria che accumula gradi centigradi per il solo gusto di tenersi compagnia. Ogni memoria è il richiamo di una foresta incendiata, diventa il segno di un incubo recente, di quelli che tengono sveglie le persone migliori per una quarantina di minuti, agonizzanti, sotto il riflesso dell’occhio assassino che dal quadro sopra il letto ritorna ogni volta a morsicarti il collo, per poi uccidersi nel ventilatore. Ogni passo di felicità diventa panico e disorientamento, la fatica una dolorosa abitudine, la nausea il compagno di viaggio dall’uscita del carcere fino alla prima macchina rubata intorno a un cassonetto vuoto. La forza di un castello di carte che si agguanta alla radice delle unghie e ci sbatte la punta del naso, alternando leccatine veloci e risate spaventose. Ogni ringhiera resta ferma. Ogni ringhiera resta sufficiente per se stessa, e chiama qualcuno. Svuota qualcuno. Un cane senza ombra né affetto, alza le virtù e ci mette la parola fine, come segno di compassione. Continua dritta nella corrente misteriosa delle segnaletiche, gli spasmi di tamponamenti mancati, le angosce del ritratto in salamoia di un passato scomparso.

72 febbraio

Salì di lontano un’ombra di ripetizione, cresceva lungo le pozze d’acqua dei marciapiedi e ci fissava da lontano con occhi di sogno, vestito di speranze ammuffite nei frigoriferi al metanolo delle pause pubblicitarie. Se ne percepiva la presenza osservandosi i piedi, in serate fredde e pungenti della tarda età. Tutto inutile, sforzi clandestini per trattenersi le mutande con gli avambracci, e finivano sempre per tremare e screpolarsi, sotto il peso delle forzature, delle pantomime notturne, il caos degli animi ordinati. Venne in su fino al naso col portamento distinto e la resurrezione da gratta e vinci, coi cinquanta centesimi ancora invischiati nella polverina grattata via, e si presentò ai fratelli dei lampioni. L’odalisco era un mezzo di sovranità, una vettura termovalorizzata di arie condizionate e sputi di vanità in faccia al vetro specchiato dell’orologio da tasca, accanto al pugno. Succedeva spesso, succede ancora, ogni volta che i girasoli si prendono malattia e si tranquillizzano i nervi del collo, una volta tanto. Succede ogni volta che nei campi coltivati i fiori clandestini sbocciano bianco frizzante e la condensa cola lungo le terre sassose e sconnesse, in rigoli di puro estratto, piccole boccette di assoluta e inviolabile nostalgia. Il genocidio loro lo conoscono bene, e se ne rammentano quando passa il motore una volta ancora a scuotere le teste con guantino di lattice e occhio severo, mille alveari dal passo incerto e compassionevole che tirano fuori il bisturi dalla cravatta e lo tengono saldo, nella crepa chiusa dentro la tasca, pronta a uscire, a salutare a festa grande gli oceani coagulati del prossimo, amato come se stesso, come se fosse disteso, e tanto alla fine è lo stesso. La calcolatrice batte ticchettii senza tregua, conta i millimetri degli scontrini, i litri e litri di cotone misto nylon ammatassati in gola, e tutto quel che si raccontano, cullati dai pezzi di vetro della moquette, in giorni profumati di nuovo vomito da bestia domestica, animali in fuga verso la reincarnazione che si distinguono per l’eleganza e per l’inimitabile aristocratica vicinanza con le loro feci solidificate dalle settimane di polvere e pulviscolo ardente.

71 febbraio

Bitmap esadecimali, suoni d’esasperazione psicotronica. Contare le tabelline sulle dita della manica, sognando tuffatori di Giappone insinuarsi nel fresco limo di un Nilo disorientato. La vasca del pesce richiama tentazioni proibite, tutto si fa metro quadro. Intanto sotto al ponte, miliardi di minuscole lampadine s’accendevano e si spegnevano al ritmo cardiaco dei tecnici parolieri, a veleggiare in comitive di tre dalla centralina fino al bancone dei tatuaggi. Codici identificativi, numeri di serie e licenze d’autore a inchiostro colorato. Una seria ragione per accettare l’incarico, il salario e tutto il resto. Ancora una volta, eccovi in prima linea, pronti a morirci tutti d’amianto e considerazione. Dal ponte, sedicenni si scambiavano occhiate languide, sicuri di non esser riconosciuti, e le aspettative dei più si fermarono a un ghigno veloce e un nuovo tuffo carpiato dritto nel torrente senza fine né quadratura delle speranze future. Occhi verdi di smeraldo trovarono insegne luccicare senza posa, mostrare riguardo alle sole vecchie conoscenze di tempi andati e carezze che furono. S’intenerivano al solo pensiero di nuovi tramonti che potessero acconsentire alle ricapitolazioni di quanto non fosse già stato dimenticato in abbondanza. In lontananza le sagome scure dei portatori di piombo sforzavano i muscoli facciali in manovre contrite di ordinaria disperazione. Poco distante, omuncoli in miniatura si lasciavano vivisezionare dai microscopi dei grossi pali portanti d’acciaio, dall’intelaiatura impigliata nel cemento armato. Uno di loro si chinò per terra, e con le ginocchia infuocate ebbe virtù di tirar fuori la lingua e abbandonarla, finalmente rinsecchita, lungo le asperità dell’asfalto. Ne uscì inghiottendo sospiri di sollievo e lisciandosi il pelo sul pietrisco liquefatto dalle manie di protagonismo del Sole. Posizione di riguardo quella dei rispettivi centralinisti, che sotto alla grande campata del ponte, si radunavano nelle roulotte di servizio a scansionare le minacce della loro permanenza. Uno di questi signori giurava d’aver sentito parlare un bullone, una volta, e non la smetteva mai di raccontarne ai quattro venti i frutti della conversazione. Diceva che il bullone si era lamentato della sua funzione, della sua stessa origine di vita, monouso, insignificante e ben poco remunerata. Invidiava le sacre virilità dei cacciaviti, dei martelli e persino delle più ambigue chiavi inglesi che lo avevano accompagnato durante l’ultimo viaggio. Non si seppe molto del resto, ma pare che poi quel bullone sia rimasto esattamente inchiodato dove l’avevamo lasciato, borbottando in altre lingue qualche verso sconosciuto e incomprensibile, affidato all’atmosfera come alle cure d’una madre apprensiva. Il frastuono dei grossi cavalloni dell’Oceano Pacifico risputava a nuova vita le rimembranze lontane dei pozzi di periferia, i quali assunsero sempre nuovo potere, diritti sociali e capacità amministrativa. Di lì a breve, si riuscì a stordire a tal punto il maestoso tirante principale del ponte da farlo vacillare più di una volta, in occasione del passaggio dei treni sul binario centrale della grande opera. Starsene seduti lontani significava starsene ad aspettare. Aspettare il momento del crollo, della rivelazione, del niente di fatto che finalmente poteva mescolarsi liberamente con un nuovo e ritrovato senso di colpa, personale a tutti gli effetti. Non si poteva chiedere di meglio da una sbirciatina rapida e indolore. Il ponte dichiarò la propria resa, le roulotte si scoperchiarono lasciando abbronzature irrispettose sui capi dei funzionari, e tutto si risolse con qualche deceduto contenibile e nessun ferito. Nuovo giro e nessuno dei nostri colleghi restò presente abbastanza da potercelo raccontare.

70 febbraio

L’eco bisticciata dei cardinali rintoccava sulle guglie dei marciapiedi fin dal fondo della strada. Le prime requisitorie formali avevano già lasciato il posto alle consuete messinscene della controffensiva d’ufficio. Si sentivano alcune punte a spillo soffocarsi in gridolini sommessi da dietro le facce punto croce del banco degli imputati. Tutt’intorno, si respirava disapprovazione, reprimenda e buona educazione. Il mogano delle rosse tappezzerie circoncideva ogni sorriso al gergo amorfo delle circostanze. Le folte chiome biancastre della stanza ripugnavano gli astanti a suono di fumo impregnato e tanfo di unto, che rimaneva ad aleggiare tra le teste dei giurati fin nelle pieghe delle camicette, sbottonate al petto come giovani apprendiste. Una di loro aveva l’aria d’esser particolarmente contrariata dall’aria viziata dell’aula, e cercava nuove vie respiratorie continuando a sfilacciare sempre di più la camicetta sul corpo. Continuavo a chiedermi per quanto tempo avrebbe resistito, si tenevano delle vere e proprie scommesse sottobanco tra il macellaio e il paramilitare, sotto la telecamera di sorveglianza del veterinario. Una bisca clandestina, tenuta in piedi in buona regola dalle frenesie di quel benedetto pomeriggio di tempo perso. Alzai gli occhi verso lidi più felici e accoglienti, un posto dove le camicette avrebbero parlato anche di me, e dove magari l’avrebbero fatto pure in mia presenza, magari proprio per farmi felice, tutto per conto mio. Strattonai le caviglie e rimontai i malleoli verso direzioni più propizie. Abbandonai l’aula del tribunale per rigettarmi nuovamente in strada. La strada era l’obiettivo spontaneo, involontario e incontrollabile di ogni mio abbozzato tentativo di fuga o simili. Mi rendevo conto già all’epoca di quanto fosse semplice e scontato rimettere tutto alle casualità e alle mediocrità della pubblica piazza, del brodo comune, ma tanto mi aiutava a risolvere i problemi, e tanto bastava assai per rigare dritto. Rivoltai le maniche della cravatta e subito lì sotto ad aspettarmi c’erano i profumi del mercato dei fiori di Taipa. Le bancarelle parevano ricoperte d’una specie di ottone sbruciacchiato, corroso dal tempo acido delle piogge della Cina indonesiana. Se ne stavano disposte in geometrie impeccabili lungo i mattoni sconnessi del pavimento lastricato, infiltrando rigagnoli di fango e liquido di governo a conserva del microclima, che qualche buon santone della tradizione doveva aver tramandato loro, probabilmente con un certo velato disprezzo e svariate insidie umorali dell’età, mascherate in un nodo di curcuma riparato dallo zucchero a velo. Al di là di quanto ci si possa aspettare da un mercato rionale, tutta la grande piazza addobbata era deserta, e alla mercanzia abbandonata a se stessa altro non riuscì di meglio che starsene a ragionare col tempo delle vecchie spasimanti di parecchi novembri migliori. Girai il dente sulla mandibola e dalla cima del lampione, intiepidita di jeans e di sudore, si odoravano adesso gemiti quasi impercettibili di dolore fisico. La cena era finita e s’era portata via pure tutte le indiscrezioni del caso, lasciando l’amaro in bocca al pubblico improvvisato. In un attimo ci trovammo tutti d’accordo, prendemmo l’interruttore e ce lo lanciammo addosso con grasse risate d’accompagnamento. Ripescammo la fondina dal letto del fiume e restammo al buio, insieme ai gemiti, a passare il resto del tempo aspettando che la realtà se ne tornasse da dove era venuta.

69 febbraio

La sera capitava spesso di imbattersi in un nastri di luce sospesi che dal marciapiede rintoccavano i minuti con gemiti acuti da bambino, brevi e discontinui. Nell’insieme, si formava un mosaico di suoni che riempiva le strade, da moschea a moschea. A prima vista pareva già inopportuno chiedersi spiegazioni. Poco lontano si montavano gli interruttori ai due lampioni di nuova generazione sotto casa del sindaco. Uno dei suoi sottosegretari da qualche tempo si era rinchiuso dentro con lui, nel soffice nido da primo piano di un minimarket 24h. La palazzina era identica in tutto e per tutto agli altri agglomerati del quartiere, inchiodati nella divisa giallo senape dell’intonaco da guerra. Interminabili milizie di mattoni e periferia, a passo d’oca lungo tutto l’accampamento dell’autostrada. Di tutto quel che se ne potrebbe raccontare, l’unico motivo di sincero interesse era quella spianata di tetti perfettamente regolare, schiacciata sui soffitti, inciampata nella speranza fallita di una prospettiva più debole, una linea che potesse precipitare di sotto fino ai marciapiedi bagnati. In definitiva nessun appiglio per chi dalla strada cercasse la via breve per il successo. I consultori domestici dell’ora di cena brillavano motu proprio di strette di mano e preghiere al silicone che s’infrangevano tra le punte arrotondate dei cappotti e i vapori dell’arrosto col contorno. Solo qualche latta di passaggio ostacolava la marcia dei probiviri verso la Gerusalemme incordonata, dal Primo Mondo fino alla tavola. Restai gambe incrociate a guardarli, appollaiato sulla punta dei lampioni insieme agli operai e agli scatti meravigliati dei loro interruttori nuovi di zecca, attraverso le piccole vetrate che ancora resistevano nella senape, affogate come sardine in una padella trasparente, soffocate dal culo pesante delle alghe incrostate e dell’odore di salamoia che le penetrava come spilli in una spugna morsicata. I due si guardavano, si sfioravano le dita con le punte dei palmi e seguivano le rispettive temperature nel vortice di squilibrio e destabilizzazione. Ogni singolo grado di maturazione corporea si rinchiudeva sotto la tovaglia in frenetica masturbazione, verso l’ora dell’aperitivo.

68 febbraio

Io sapevo di quello fenico, ma poco importa se il tradimento è la via della sussistenza. Lentamente mi scesi di bocca il combustibile e la memoria gusto lime prese possesso delle mucose, lievemente frizzante intorno alle pareti della lingua. Quando ripresi a guardare verso la strada mi resi conto che la storia stava procedendo verso un cambio di direzione. La lasciai perdere e mi infilai in una macelleria affrescata a olio stile condominio di una vecchia nobiltà palermitana decaduta. I grossi rasoi d’acciaio tintillavano sul costato gelido delle carcasse gocciolanti in un coro di silenzi di cristallo, lasciandosi dietro solo uno strano odore di comodino e moquette impolverata. Ci volle solo un lieve riavvicinamento alla vita, da parte del gracile macellaio, prima di sospendere gli occhi a mezz’asta e incorniciarci dentro la mia figura confusa e probabilmente anche troppo poco integra rispetto a quella che potesse aspettarsi da un semplice cliente. Domandai la porta del bagno con una lamina di sillabe quasi impercettibile a orecchio nudo, dopodiché seguii la punta della lama fino a una tromba metallica di scalette a chiocciola che si diramavano dall’angolo delle bistecche di maiale fino al luminosissimo sotterraneo. Uno stretto corridoio bagnato al neon rifletteva vampate metropolitane di elettricità clandestina lungo la ceramica delle piastrelle tirate a lucido. Un tappeto invisibile stuprato da continue cascate di basalto fuso. Ogni passo poteva sorprendere anche il più avventuriero degli imperturbabili, dall’assoluto silenzio metafisico di quella cornice. L’impotenza di turbarsi le orecchie al suono dei tacchi a spillo mi diresse a velocità crescente verso l’oblò della porta scorrevole che dava fin sul vespasiano. Accanto a me, le sagome ingiallite di milioni di incontinenti, come ombre polverose tutti quelli che erano passati di lì prima di me, alcuni addirittura provvisti d’accompagnatore adeguatamente prescelti per l’occasione tra le fila dei parenti stretti, mi si stringevano al collo nella morsa di antichi spiriti insoddisfatti dalle genie concepite. Come risciacqui gengivali in lontananza finalmente riuscivano a riemergere i primi suoni, simili a martellate d’ovatta sulla pelle d’un tamburo tribale, e nessuno ti chiedeva in cambio una mezza sigaretta o uno spicciolo per fare festa, per poterti osservare, affogato nell’ovatta. Tutti gli occhi addosso, e in pochi possono sapere quanti, a rubarti a gratis le soddisfazioni d’una pisciata isolata. Veleggiavano intorno, nelle loro orbite celestiali, con pupille affilate a sventrare a metà certi grossi occhi di quercia secolare, puntati dritti sulle strettoie della piccola grata metallica dello scarico. Veniva quasi da domandarsi come mai pareva girasse in entrambi i sensi, il vortice del risucchio. Non avrei saputo descrivere fino a che punto esatto di collisione potesse confermarsi quella verità, e tra le unghie bagnate di mousse delle schiere profanate di pisciatori, chiamati a raccolta da incastramenti astrali epici o qualcosa di simile, preferii rimandare la questione del risucchio fino a quando non fossi riuscito a interrompere il risciacquo gengivale. Se non il mio, perlomeno il loro. Realizzai questa speranza quando già non riuscivo più a vedere altro sotto le caviglie se non il riflesso esausto del cadavere rigonfio del vespasiano perduto in melmose rive di ambrata desolazione. Continuai a non credermi fino a quando non ebbi modo di sentire il primo brivido gelato lungo l’interno coscia sinistro, nell’atto di ritirare su i pantaloni lasciati sfibrati a marcire liberi sul pavimento. Chinai il capo in un cenno di saluto, raccolsi con soddisfazione il reciproco ricambio dei coinquilini, e cambiai direzione. Risollevai l’oblò della finestra dal suo oblio di disinteresse assoluto e con qualche sforzo navigai fino a raggiungere nuovamente la tromba delle scale. Continuai a scendere seguendo i pendii traballanti degli scali metallici, dai quali esalavano lontane eco come di confusi mazzi di chiavi violentati dal pollice del guardiano, a ogni rintocco di suola. Il piano al di sotto del sotterraneo, nuovamente i piedi si saldavano nell’asciutto, l’aria viziata e in un lato del piccolo bunker squadrata la figura rifinita di quella che riconobbi come la moglie del macellaio, dalle descrizioni della cicatrice sul collo che se ne facevano nei passaparola del bar. Stava in piedi dietro alla robusta vetrata di un casottino, improvvisato biglietteria, e dal piccolo forellino rotondo posto all’altezza del mento mi chiese di svuotare almeno una delle tasche dei pantaloni, di lasciarle il contenuto qualsiasi cosa fosse e procedere verso l’apertura del muro coperta dalle striscioline di plastica trasparente di quella specie di macabra tendina. Di là dal muro ritrovai Georg, imbustato dentro una sacchetta di quelle per i prelievi del sangue e riposto accuratamente dentro una cassaforte lasciata col coperchio socchiuso. Lo presi per mano, lo rinfilai nella tasca e imboccando nuovamente la tendina mi riportai verso le scale a chiocciola e continuai a scenderle fino all’uscita. Il mondo all’esterno s’era fatto giallo e umido; le nuvole riflettevano i primi raggi del sole, sortiti in ritardo dal mosaico delle nubi per rischiarare gli ultimi traffici del tramonto. Fuori da quella baracca infernale, affrescata alla palermitana, un Cristo irredentista versava fialette d’orina infetta nella gola dei mendicanti, e cercava poi di convincerli ad alitarmi in faccia. Fortunatamente, bagnato fino al cavallo dei jeans fuori dalla macelleria, dovevo pur contare qualcosa più di lui, e nessuno s’azzardò a dargli retta. Alcuni, i più orgogliosi, continuarono ad osservarmi ancora per qualche momento, poi anche loro realizzarono, e fu calma piatta fino al sopraggiungere della stanchezza. Mi strinsi la tasca in una risata e c’addormentammo entrambi sul primo sedile macchiato di sperma della carrozza per le biciclette d’un treno in demolizione, al deposito della stazione centrale.
Nel bel mezzo della demolizione.

67 febbraio

La grata metallica nera della sala d’attesa, uno schienale insospettatamente gelido, maglie fitte impediscono ai granelli di sabbia di farmi compagnia di qua dal muro. Una mano sopra l’altra, entrambe sotto il ginocchio, si scambiano saliva calda e stanca nell’abbraccio di due morbidissime manette, sguardi contriti e gridolini moralizzatori, intere coltivazioni di occhialini tondi come pannocchie al sole, puntano dritti verso il fegato con occhio di siringa e sovrastrutture. Il pavimento non ha mai tenuto di conto della pesantezza del passo, e adesso meno che mai, si contorce sul cadavere degli internati come macchia di Sole pronta alla fuga, tira occhiatacce di sfida alla penombra della prima mattina. Poco distante gorgogliano i camici pettinati e imbellettati, in riluttanti profferte amorose e pratiche orgiastiche di autocelebrazione. I numeri delle cabine partono dal centinaio, come camere d’un albergo per aspiranti suicidi, si appiattiscono su elenchi paradisiaci di affermazione progressiva e numerata, come lapissini temperati ciucciano la gonna della madre a filo di mediocrità. Schedari digitali sbattono in faccia al mondo il casellario giudiziario della proiezione distaccata di sé, al seguito ogni fila indiana di vecchie signore vaccinanti e pochi altri condottieri del corridoio. Di sicuro non si tiene di conto di come, nella realtà rovesciata, anomala e virulenta, uno sputo in faccia al poliambulatorio dà ripetizioni gratuite di divertimento, scavando a cucchiaio fuori dal bunker delle linearità ambrate ai fiori di gelsomino del deodorante per ambienti di un cesso ambulante. Ogni frazione resta sospesa, come ammutolita a mezz’aria, e di là dalla scrivania mi si conosce meglio che di qua. Sogghignare significa mangiarsi le manette, e le chiavi le lasciano a chi ancora non lo sa.

66 febbraio

Interrogarsi sulle monete di plastica dell’Occidente a volte porta meno soddisfazioni di quante non ne sbandierassero i vecchi marinai dell’Oltrebar, e fu così che il giorno dopo me ne andai sotto il ponte delle chewingum a strisciolina per divorziare. Era una giornata rassicurante, stesa come un’enorme matassa di minuscoli tappeti polverosi cuciti insieme, brillando l’umidità delle piogge precedenti al vapore accentratore della sgonfia palla di Sole. Lampeggiavano ombre sonore di dita in movimento sugli schermetti retroilluminati che qualcuno m’aveva appiccicato sui nervi, e la distanza era diventata fragile come una pala meccanica di gommapiuma. Si riversavano addosso alle barriere dei sensi di colpa parole stupide, strappate dalle lacrime come pietre da un rene malato, e cadevano tintinnanti sul pavimento gelido, a disegnare contorni evanescenti d’una favola mal raccontata, una barzelletta col finale sbagliato, un vangelo senza verità. Non è facile infilarsi le lenti a contatto quando si piange sulla sponda sinistra d’un cornicione. Qualcuno prima o poi dovrà ricordarselo.

65 febbraio

Feci giusto in tempo a ritirare la mano che le ombre arrugginite squartarono i calcinacci del sottoscala per venirmi a ricordare il loro sibilo stregato lungo le pendici del collo, sporche di saliva e cenere. Il tocco fu di un’intensità distratta, e mi commosse le maniche arrotolate lungo i gomiti con una certa, annoiata, semplicità. Rimbombavano le macchie di buio sulle tempie grattugiate nelle pareti spoglie del cantiere, e in qualche modo riuscivo a essere una volta ancora nel posto giusto, al momento giusto, con la terra sbagliata sotto ai piedi. Filtrava la sagoma di una grossa porta verdognola stuprata a spinta, in mezzo alla luce calda del pomeriggio, e da lì sotto finalmente vedevamo la prospettiva migliore degli scalini di cemento che portavano all’officina tinteggiata di rosso e celeste del piano superiore. Finalmente sapevamo di quei pezzetti di legno lasciati a supporto della struttura, finalmente le vedevamo fragili. E ci abbracciavamo, in mezzo ai colonnati semoventi e ai pacchetti vuoti delle sigarette, ancora fumanti a consumarci l’ossigeno dentro al cranio indolenzito. Non potrei ricordarmi, anche d’impegno, altro marmo più incandescente di quella frizione nascosta alla luce della realtà di cartone, l’impiccagione innocente di una scultura finalmente scappata rosacarne dalla scatola di vetro che la contiene, che la stritola, nei giorni al museo.