Di corsa, mezzo sudato verso il finestrino abbassato della limousine, ancora non avevo capito perché avevo accettato. Guarda scusami, altri dieci minuti, c’era una giornalista, non ho capito bene comunque faccio veloce, mi chiedevo se gliene interessasse davvero qualcosa e aspettavo che mi tornasse l’appetito della cena saltata poche ore prima. Ha detto dieci minuti, tra undici vado a dormire crollasse il cielo, che non ce la faccio più. Seduto sotto il faro della videocamera continuavo a sudare vergognosamente: sentivo tutta la tensione del palcoscenico scivolare via, grondandomi addosso sotto la camicia. Grazie per la disponibilità, facciamo davvero presto, solo qualche domandina veloce, pochi minuti, continuava a rivoltarmisi nell’orecchio la voce della donna. Era giovane, discretamente carina, non doveva aver avuto troppi problemi a trovare lavoro, magari proprio quello che aveva sempre sognato di fare; c’erano tutti i presupposti per immaginare che avrebbe pure fatto carriera e la camera è dritta davanti a te, se per favore passi un attimo da lei ti mettiamo il microfono e cominciamo. Vuoi un po’ di trucco? Solo quando si accese la luce rossa e sentii di nuovo quella giovane voce metallica inerpicarsi sulla romanzata presentazione della mia vita, mi resi conto che non mi ero neppure degnato di rispondere alla domanda. In fondo avevo le mie buone ragioni, sapevo di potermi concedere il lusso di qualche distrazione, alla fine della venticinquesima replica dello spettacolo. Con quello che ci stavo guadagnando poi, mi meritavo almeno un po’ di pace, un attimo di tregua, un vero e proprio record, sia d’incassi che di critica, il pubblico finalmente ritorna a teatro. E a me che invece importava solo che ritornasse a casa quello schiaffo che m’aveva tirato in faccia prima d’andare via e abbandonarmi per sempre, pensa che idiota che ero. A quarant’anni ancora incapace di rapportarmi seriamente con la gente, mai la persona giusta, distaccato da tutto e da tutti, senza un amico, una moglie, un cast d’eccezione, riunito per l’occasione in una delle produzioni più entusiasmanti sulla scena italiana degli ultimi dieci/quindici anni, intravedevo l’autista appoggiato alla portiera fumare nervosamente una sigaretta, spazientito dalla noia di un’intervista imprevista nell’ora tarda di una giornata di fatica. Forse stava pensando ai figli, forse a un trancio di pizza o un pezzo di pollo surgelato che qualcuno doveva avergli preparato un po’alla buona per quando fosse rientrato. Magari stava semplicemente maledicendo il giorno in cui aveva cominciato a lavorare per me, si chiedeva per quale incomprensibile ragione avesse accettato, con quello che lo pagavo poi. Chissà perché aveva cominciato a fare l’autista, difficile che se lo fosse scelto di sua iniziativa come lavoro; io me l’ero scelto, il giorno in cui nella vecchia casa di campagna vidi mia madre vomitare dalla ringhiera del terrazzo, davanti a quel cane randagio che aveva pensato bene di venire nel nostro giardino a divertirsi con un piccione in putrefazione che gli penzolava dilaniato tra i denti. Mi ricordo come fosse ora il sorrisetto divertito che teneva stampato sul muso, e fu così che mi chiesi per la prima volta se anch’io sarei stato capace di simulare a mio piacimento un’espressione così allegra e spensierata, con quel miscuglio di sapori nauseanti color morte e decomposizione dentro la bocca. Ero pieno di domande, mi chiedevo cosa avrebbe potuto significare quella scena, cosa avrei fatto della mia vita, come sarei riuscito a capire qualcosa di me, quando avrei cominciato a sentire che tutto stava procedendo secondo i piani, quando per la prima volta avrei avuto qualche garanzia dalla vita di essere felice, quando ti sei accorto per la prima volta di voler fare l’attore? E quanto conta secondo te la preparazione nel vostro mestiere? Ancora non si era resa conto che la mia testa ormai aveva spazio soltanto per la depressione dell’appuntamento con l’avvocato, fissato per la mattina seguente. Nessuna voglia di andarci, di averci a che fare, non sopportavo il suo modo di fare così mostruosamente equilibrato, l’indifferenza bestiale della sua professionalità, il tocco magistrale di un regista di fama internazionale: come è stato lavorare con lui? Certo, dieci minuti; è già passata mezz’ora e questa continua, non la ferma più nessuno. Devo andare via, bisogna che m’inventi qualcosa, di sbrigativo, un cenno, un segnale. O qualcosa di più scenico, perché no, un’uscita teatrale, in linea col personaggio, magari dedicata all’autista. Non sarà la migliore pubblicità ma la noia mi distrugge.
Al liceo, dopo una recita di fine anno. Non so quanto conti la preparazione, ma vi consiglio l’accademia.
E il regista è uno stronzo.