Deserti, non più cantine d’Occidente, sogni di scriba, amanuensi piegati in due dall’insofferenza, parlare di sé, termini di cosmogonia irrimandabili, soffi morbidi sul pendio della testa, piccoli segni di denti rotti che graffiano la pelle sensibile, senza bagno schiuma tutto diventa più reale, e solo quando si sorpassano i limiti dell’eccedenza pare che ritornino i sacerdoti dall’aldilà della vita quotidiana a benedire profumi d’incenso e stupratori con la mirra nelle mutande che ti guardano dall’alto in basso con la semplicità di una bambina che si morde la lingua davanti all’insegnante di ginnastica, il giorno degli esercizi difficili, della prova cronometrata che altro non ricorda se non quando eri piccolo, in piedi sulla sedia della cucina, davanti alla finestra col telescopio puntato sui passanti, e le cornici diventavano sogni di cera e scintille luminose che divampavano fino a quando non si abbassava la saracinesca e le sedie e i tavoli di ferro rosso restavano incompiuti dentro un garage di primissima periferia, addobbato a santi monaci e crisantemi d’edilizia troppo moderna anche per le schiere infinite dei cinesi troneggianti, che contavano gli spiccioli da rinchiudere nei piccoli tubi di plastica dentro un furgone con la targa coperta e le coperture di nylon sfilacciate intorno ai finestrini, che ti risucchiavano lungo la polvere dei sedili, e di nuovo veniva l’altalena del tuo piazzale personalissimo a ritirarti da ogni scena abominevole nel silenzio della Domenica rovinato da spasmi di pistole giocattolo e cartelli stradali ammaccati nell’orgoglio, nella divinità, nel ruolo dei più istituzionali che altro non rimaneva se non linee, piccole linee di svolgimento pari alle code mozzate delle lucertole, senza per fortuna voler dir più niente che l’ansia di un ragazzino sfuggito dagli zii intorno al tavolo della cucina e pronti a soffiarti via il salotto con la partita di calcio rituale che segnava il confine tra i mattoni rossi della grande scuola pubblica di stato e tutto quello che davvero ti scorreva lungo i fianchi insieme al sudore freddo sotto al sole caldissimo dei pomeriggi interminabili, fatti di macchine fotografiche senza rullino e frustrazioni di gatti dentro un altro garage che piangevano, piangevano continuamente, e mangiavano, mangiavano continuamente, e da fuori potevi sentirli, li sentivi continuamente, e mozzavi code di lucertole, e mozzavi code di cartelli stradali, e mozzavi code di mattoni rossi, in piedi alla finestra della cucina, e il vicino con il gelato da servire al cane, morto d’infarto per colpa del tempo, e continuamente li seguivi dalla bicicletta che si allontanava nel nuovo minuto raccomandato, e ti lasciavi raccomandare dai passanti, da quello vestito di nero che ti guardava con occhi da sellino e barba lunga fino all’angoscia dei malleoli, e volevi morderli, volevi mordere i malleoli anche se ti faceva paura, e le credenze erano soltanto mobili di legno che non avevano altra certezza se non quella del tuo futuro, misurato in centimetri e tacche progressive immaginarie, e chissà che aria, chissà quale aria da lassù, da dove lo specchio non si piegava nella cornice bassa del muro, ma si lasciava servire dai volti di pietra imbiancati dalle schiume della vita, che non era la tua neanche stavolta ma che di sicuro non sarebbe potuta esser altro che il tuo migliore amico per il resto dei giorni, la tua esistenza che mangiava biscottini al sapore di pollo gironzolandoti intorno a forza di colpetti di coda, e ogni tanto ti tiravi in faccia qualche secchio di bastonate da riportare indietro prima di sera, prima che facesse buio e non si vedesse più in terra in mezzo ai fili d’erba che crescevano sulla fronte di chi li guardava, e ti dava l’idea che quel posto fosse infinitamente più enorme, più infinito delle ghiande che raccoglievi dalle altre parti, e non sapevi perché tutto era così zitto, e non ti spiegavi come mai fosse tutto silenzioso fino all’alba dei cadaveri dei giorni dopo, giorni che non c’erano neppure per un errore strano e imprevisto dei calendari, e ogni attesa era la verità della tua persona, coi pantaloni corti, la bicicletta verde preferita e il cambio a rotelle che si insinuava in mezzo alle dita per rivalità d’un campanello rotto e canne infinite che si sotterravano da sole dalla paura di cadere, e quando cadevi volevi rifarlo e l’innaffiatore automatico ti irrigava i pantaloni della faccia e tutto si faceva stretto e breve intorno ai misurini di medicinali sparsi sulle piastrelle malconce della cucina, lì di nuovo alla finestra, in mezzo alle scintille, telescopiche, e ti si chiudeva il bandone sul naso e gridavi, zitto, nel bagno, nuove scoperte che misuravano a forza di finestre incrinate la veranda della tua genialità perversa, fino a quando non ti crollava addosso pure lei e te ne tornavi a perderti nel letto, le mattine con la testa al posto dei piedi, i pompieri che non si sapeva da che parte fossero entrati, fascicoli aperti e fogli sdraiati per terra come carcasse di orsi polari in una fossa comune della grande Austria dell’inizio del secolo, e nuovi millenni in un singolo cigolio ti spalancavano le palpebre su una maniglia che non poteva esser lei ma che continuava a muoversi, a piegarsi senza ritegno senza aprirsi mai, e a volte sembrava dovesse farlo e ti mettevi a sedere sui fragilissimi divanetti vellutati di rosso, lì dove giocavi di nascosto con la palla di gommapiuma per terrore che si rovinassero i musei con tutte le loro perline sacre di plasticaccia viola e scaffali pieni di pezzetti verdi che dovevano essere del tutto particolarmente intoccabili, e ti sembrava buono, che ci fosse sempre un letto, per tener la testa al posto dei piedi, e dormire.