Quando per la prima volta conobbi mio figlio, l’eco di una vecchia marcia militare ungherese filtrava dallo spiraglio di una lontana finestra lasciata socchiusa dalle temperature roventi dell’estate. Sonorità incerte mi si stuzzicavano in mente, a contorno del turbinio violento di esplosioni confuse, responsabilità, rabbia e sensi di colpa. In mezzo agli occhi, stampata la fotografia di un quattordicenne perfettamente normale, quasi patetico, altrettanto confuso. Lo presi per mano e cominciammo a camminare, diffidando l’uno dell’altro come due estranei stritolati in una conversazione obbligata a casa di un amico comune. Le note determinate della marcia per la prima volta intimorite dal silenzio impetuoso delle ultime ore di luce. Ci volle qualche altra ora prima che entrambi ci rendessimo conto che nessuno dei due avrebbe mai avuto intenzione di introdursi all’altro. E per il momento ci andava bene così. Non potevo fare a meno di fissarlo, di stupirmi di quanto non avesse assolutamente niente di particolare, nascosto da qualche parte sotto il maglione di lana, o i jeans sabbiati tenuti alti in vita dal quarto buco della cintura. Come da rituale, mi venne in mente soltanto d’andare a prendere un caffè e così fu, tanto per ossequiare la tradizione della mano stretta intorno alla sua. Me lo trascinai dietro fino al primo bar con i tavolini all’esterno, tra un’occhiata e l’altra della sigaretta che mi si consumava nervosa tra le dita. Accavallai le gambe sulla sua faccia annoiata, appoggiandomi saldamente allo schienale della fresca sedia di metallo. Il caffè aveva l’aria d’esser stato partorito di fretta, come quell’oscura controfigura che mi si parava a ostacolo tra la vita reale e il suo successivo momento di noia mortale. Il liquido viscoso nella tazzina si increspava con la geometria sinuosa d’un metronomo fedele, e mi sputava in faccia vibrazioni convinte di fumo e umidità. Notai che la sua fronte sembrava arricciarsi ogni volta che la mente mi trasportava verso l’idea di sua madre, e ancora non ero sicuro di quanto fosse consapevole che non avevo alcun sospetto di chi potesse essere quella donna. Le sue espressioni predeterminate mi prosciugavano fino all’ultimo istinto violento, rassicurandomi di frustrazioni, paranoie. Sembrava proprio che qualcuno l’avesse messo a conoscenza del copione, che avesse imparato le battute e che ne seguisse l’evoluzione con il distacco professionale di un commediografo navigato. Non ero sicuro di quanto si sentisse protagonista e quanto spettatore, della sua stessa vita. Mi fece tornare alla mente il gioco a cui ricorrevo da ragazzo per ristabilire i nervi subito dopo gli attacchi di panico. Da che mi possa ricordare, era tutta la vita che soffrivo di quelle crisi, e l’unico modo per riuscire a placare le mie isterie adolescenziali era un gioco. Convincersi, intimamente, con tutta la dedizione che incatena un artista alla più promettente delle sue opere, di vivere ogni singolo istante della propria vita come il protagonista del libro dai cui se ne potrebbe trarre ispirazione. Come un personaggio fedele rimettersi alle dita paterne dello scrittore, rassicurato dalla sua buona volontà, libero dal morso pressante del senso di responsabilità, del libero arbitrio e di tutti i suoi seguaci. Rimettersi, completamente, nell’attesa di cosa succederà dopo, di quale sarà la prossima assurdità partorita da una mente illuminata, capace di catapultarti in un vortice scombinato di sfortune talmente atroci e grottesche da non potersi sospettare di essere vere. In quel momento, appoggiato al fresco schienale della sedia metallica del bar, rivedevo incarnate fino all’ultima delle mie contraddittorie simultaneità. Entrambe le nostre tazzine avevano tutta l’aria d’essere possedute da un impercettibile demone musicale, come fosse talmente forte e persistente da riuscire a manifestarsi soltanto sotto forma di un soffocante silenzio assoluto. Il soffio tenue di vapore che sprigionava dalla ceramica bollente della tazzina sembrava rievocare l’umore di un detenuto sulla via dell’evasione, e mi lasciava preda di un certo irripetibile senso di inferiorità. Dall’altra parte del tavolo, altre due rètine impazzite seguivano stordite quello stesso soffio di vapore, le oscillazioni che disegnava in aria sublimandosi, e le stesse dita ustionate a stritolare la ceramica, irridevano in vampe nervose di urlante sottomissione. Chissà chi poteva essere quella donna, quella che tanto si dimenava per deformargli la fronte, ogni qual volta mi azzardassi a sfiorarla col pensiero. Di certo avrebbe avuto un aspetto almeno più umano dei nostri, magari di una calorosa vitalità, sanguinosamente ferita dalla violenza domestica d’un secondo binario, fatto di depressioni e fotografie; niente di originale in realtà, ma credo proprio che sarebbe potuta essere lei. O magari la commessa della tabaccheria, quella che ogni volta insieme al resto mi faceva trovare sul bancone l’accendino di quel colore osceno che compravo soltanto io e che l’aveva fatta innamorare. O forse di meglio, la bella cameriera del bar, che con le dita affusolate da poco più che ventenne veniva a portarmi il conto. Un bastardo foglio di carta, niente di più d’uno sputo d’inchiostro, che mi si avvinghiava intorno al collo. Ora che, di nuovo, di caffè non si sapeva più quanti pagarne, e nessuno di quelli aveva di certo l’aria del protagonista.