In genere se si chiede a qualcuno di fare una stima delle sue ore di sonno la risposta sarà: mah, più o meno otto, come tutti. In realtà si dice che quasi tutti tra questi non dormano meno di dieci ore. E secondo alcuni è proprio questa la ragione per cui così pochi si ricordano i sogni che fanno. Colpito da certe indiscrezioni, in un primo periodo vendetti la fiducia alla sveglia, in un secondo alla droga. Poi alla pizzica salentina, passando per l’alcolismo, e infine alla depressione. Nessuna di queste funzionò. Sulla sveglia m’avevano truffato l’opinione pubblica e l’educazione; sulla droga gli amici più fidati, sulla pizzica la disperazione; sull’alcolismo l’idea che si erano fatti gli altri di me, sulla depressione l’idea che m’ero fatto io degli altri. Poi quando mi accorsi che stavo cominciando a sperimentarle tutte insieme, decisi di sedermi intorno a un tavolo e risolvere la questione più civilmente: il risultato fu strabiliante. Dopo tanto penare, finalmente avevo trovato la soluzione. Il mio entusiasmo era palpabile, chiunque mi frequentasse in quei giorni notava nelle mie espressioni un qualcosa di diverso dal solito, come un senso di freschezza, di sollievo, come se per miracolo fossi alla fine riuscito a fare pace col mondo. O almeno a lasciarmi convincere sui possibili vantaggi del mostrarmi superiore di fronte a tutte le bassezze e i tiri mancini che prontamente quest’ultimo continuava a rifilarmi da anni. Mi sentivo talmente eccitato che per paura di dimenticare il frutto di tutte le disperate ricerche del passato misi tutto per iscritto su un foglietto ripiegato quattro volte e rinchiuso nel portafoglio, nella tasca dietro dei pantaloni buoni. Per la prima volta riuscii a godere veramente di quelle stramaledette tarantelle da terroni. Uscivo di casa con lo sguardo fiero sotto al sole e la mano sempre ben salda sulla fessura all’altezza della natica destra; e con il segreto di quella meravigliosa rivelazione blindato stretto al suo posto, me ne scorrazzavo lungo i viali alberati. A braccetto con l’autunno mi divertivo sovrappensiero a scalciare affettuosamente le foglie rossastre che mi stringevano l’occhio sulla via di casa, dove tornavo d’inverno per mettermi al riparo dalle frizzantezze dei primi vagiti di grecale, insieme a quell’espressione inebetita che a stento riuscivo a nascondere dentro sciarpe di lana e girocolli prominenti; ma poco importava, e col sorriso scolpito e qualche pacca sulla spalla ai bambini degli altri era già primavera. Il rifiorire della vegetazione per la prima volta nella sua storia si sorprendeva di questo inedito senso di gelosia che la brillante magnificenza della mia sagoma ispirava rabbiosamente. E poi era di nuovo estate e tanto ero contento e spensierato che all’obitorio dovettero chiamare il falegname per sradicarmi il sorriso a colpi di punteruolo e far finalmente riposare i denti abbronzati della salma. Nonostante i numerosi sforzi, non riuscirono comunque mai a distogliermi la mano dalla tasca dei pantaloni. Al cimitero feci amicizia con tutti i vicini e nel giro di poco tempo diventai uno dei più acclamati e rispettati del terzo piano mansardato. Sciaguratamente oltre al corridoio mio e alla mansarda non si riusciva a sentirmi, quando alla sera intrattenevo gli animi dei più spiritosi con certi miei intermezzi di cabaret sperimentale antinoia, di cui così tanto si sentiva il bisogno nella mortale monotonia di certe serate autunnali. Quasi rassegnato al piccolo numero dei miei interlocutori, all’improvviso venni a sapere con molto piacere che confidando sul passaparola grazie al quale si tenevano aggiornate sulle novità della vita sepolcrale un gruppo di ex parrucchiere e pensionate inacidite, amiche in vita e ora sepolte sparpagliate da un capo all’altro dell’edificio, stavo rapidamente diventando una vera e propria celebrità nel campo santo. Mi tornavano indietro notizie di alcune salme talmente incuriosite dalle voci che giravano sul mio conto da spingersi in impensabili stratagemmi e bizzarrie inaudite per tentare con ogni mezzo di convincere i familiari a farsi spostare di loculo fino al terzo piano mansardato. C’era uno che aveva cercato d’apparire in sogno ai congiunti e tra un numero vincente e l’altro sibilava strane richieste, con la promessa di riservare il numerone finale e decisivo al giorno in cui, di grazia, gli fossero venuti incontro in quella cortesia. Altri s’erano sforzati di svitare i rispettivi coperchi con la forza della meditazione spirituale, ottenendo comunque sempre al massimo qualche sonora fuoriuscita di fuochi fatui, verdognoli e di breve durata, sommersi da grosse risate e dall’ilarità generale dei seppelliti a muro. Qualcuno dei più disgraziati s’era limitato a sporadici gesti di stizza e frustrazione, che non potendo sfociare in nessun tipo di violenza fisica si erano poi quasi sempre trasformati in raptus di invidia, rabbia, nevrosi e repulsione nei confronti della mia stessa persona. Ce n’erano altri che quasi per vendetta si inventavano pettegolezzi infamanti sulla mia vita passata, mentre addirittura qualcuno metteva in dubbio la mia stessa esistenza, architettando teorie sempre più convincenti per mettere in guardia quanti più cadaveri possibile a non farsi abbindolare dalle dicerie che circolavano sempre più insistentemente nei lunghi corridoi piastrellati. Nonostante la frenesia generale dei condomini e le incredulità degli scettici, tanto forte e spietato era il morso della noia che ben presto il divertimento riuscì a imporsi sul resto e trascinare alle stelle la mia popolarità: abbandonai il cabaret, applicandomi in scritture di scena sempre più complesse, fino a inventarmi vere e proprie performance teatrali. Ogni sera mi schiarivo la voce, per quanto mi fosse possibile a settimane buone di distanza dalla sepoltura, intonando canti e declamazioni solenni, storie di grandi amori e gesta eroiche del passato, incoraggiato dal pubblico fedele, ormai affezionato alle trame sempre più originali e avvincenti. Tanto quanto fu sincera ed esaltante quella smodata approvazione nei miei confronti, tanto mi commosse quel giorno in cui, rientrando nel loculo a tarda sera dopo il lavoro, trovai finalmente riuniti tutti quanti i cari defunti del cimitero, che si apprestavano a terminare gli ultimi preparativi per la festa a sorpresa che ormai all’unanimità avevano deciso di organizzare in mio onore: mi ricordo ancora benissimo che non riuscii a trattenermi, nonostante l’avanzato stato di decomposizione, dal correre ad abbracciare uno per uno i miei premurosi amici, divincolandomi qua e là attraverso gli stretti viottoli tra una lapide e l’altra, col cranio sfregiato da lacrime di gioia e vermi solitari. Una delle parrucchiere, che avevano contribuito alla mia fama, mi prese per un braccio e appena voltato mi accorsi che stava indicando un enorme palco fatto di tubi da cantiere e lastre di parquet inchiodate a un basamento di finto marmo roseo, trasportato e allestito per l’occasione. Sbalordito dall’imponenza della struttura, adornata con tanto di microfoni, altoparlanti e giochi di fumo, il fascio di luce proiettato sopra la grande X di nastro isolante al centro del piano rialzato mi fece capire che tutto era pronto per l’inizio dello spettacolo. Incoraggiato da strette di mano e sguardi compiaciuti, mi inoltrai tra la folla. Per un istante, mentre il pubblico prendeva posto in sala, restai immobile davanti alle scalette metalliche che dalle quinte conducevano alla gloria, quasi ipnotizzato, fissando la postazione che mi era stata riservata. Al segnale dell’ex dentista del paese, improvvisato assistente di studio, si spensero le luci; mi lasciai alle spalle le ultime timidezze e con passo sicuro andai incontro al destino, abbandonandomi al maestoso applauso del grande teatro gremito. Erano appena arrivati anche i giornalisti e le televisioni, locali e nazionali, per la diretta. Tra la folla si faceva segno di fare silenzio e prestare attenzione. Lo spettacolo fu finalmente un successo senza precedenti, e in tutta fretta mi portai nei camerini per togliere il trucco e gli abiti di scena, dato che una delle donne sedute in prima fila mi aveva lanciato, in un bigliettino messo giù di pugno in fretta e furia, le sue irresistibili profferte amorose; ammaliato da quel suo portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, avevo accettato. Ancora nudo corsi nel bagno, per espletare le esigenze fisiologiche sovrastimolate dalla forte tensione della prestazione artistica e, appena appoggiata la mano destra al muro in segno di liberazione, sentii bussare tre volte alla porta del camerino, come da segnale concordato, e poi la porta spalancarsi. Da dietro gli arabeschi colorati del séparée di tela intravidi la donna entrare e ne fui felice, ignaro com’ero del piccolo intoppo con cui avrei dovuto fare i conti di lì a poco: non riuscivo più a smettere di pisciare. Il liquido scorreva inappagabile e, dopo aver riempito l’elegante tazza di ceramica, cominciò a fluire inarrestabile lungo le mattonelle celesti del pavimento. Sforzandomi di mantenere la calma, provai a fare appello a tutta la tenacia possibile affinché mi concedesse la tranquillità per terminare, nonostante il feroce richiamo che sprigionava esasperato dalla giovane carne della ragazza, incendiata sul fuoco del grande letto delle modelle, a distanza di pochi metri. Continuavo a pisciare, non c’era niente da fare. Improvvisamente nuda e spazientita, la donna troncò a metà il séparée spazzandolo via contro il muro portante; mi si scaraventò addosso ma il getto non si arrendeva, così sopraffatto dall’eccitazione lasciai che provasse a risolvere lei, e appena riaperti gli occhi l’unico risultato che mi ritrovai davanti fu l’immagine di una povera donna tenuta per i capelli, morti soffocati. Terrorizzato lasciai cadere il cadavere sul pavimento, afferrai al volo una vestaglia e scappai dalla porta di servizio, correndo lungo la biglietteria in preda al panico. Una volta in strada feci cenno al primo taxi libero e mi lasciai trasportare lungo i viali bagnati dalla pioggia leggera, mentre dai finestrini imploravo pietà inginocchiandomi davanti agli schizzi impazziti delle sirene sulle ambulanze, che mi traforavano le pupille a colpi di riflessi azzurrastri, puntualmente amplificati dal pastello morbido delle vetrine umide degli ultimi negozi in chiusura, in quella folle notte come tante d’inizio inverno nella metropoli. Sopraffatto dagli eventi, non prestai attenzione al tassista, che aveva ormai rinunciato a fare domande e distrattamente mi stava accompagnando verso casa sua. Abitava in una villetta vecchio stile della prima periferia, su due piani deliziosamente arredati dalla cura amorevole e dal gusto retrò della padrona di casa, una donnetta rifinita ma gentile, che senza troppe esitazioni aveva accolto fin dall’inizio le mie tacite richieste di ospitalità. Dopo avermi preparato una cena frugale e offerto una sigaretta, mi guidò fino alla camera da letto, che a quanto diceva lei si era appena liberata. Ci sedemmo a fumare insieme per un momento, poi mi indicò la strada per il bagno in caso di necessità, diede un’ultima rassettata ai guanciali e se ne tornò davanti al televisore. Improvvisamente sereno e tranquillizzato, mi soffermai a osservare la stanza, togliendomi la vestaglia: alle pareti erano appese alcune fotografie in bianco e nero di scorci rurali e paesaggi di campagna; al lampadario, sulla ringhiera del letto e intorno alle maniglie di porta e finestra erano annodati fiocchi colorati, che si mescolavano ai toni arcobaleno della grande moquette colorata stesa sul pavimento. Quasi ogni componente della piccola stanza quadrata era di legno, eccezion fatta per quelle contraddistinte dai fiocchi, e dalle crepe che si erano formate fin sopra la cornice della grossa specchiera a parete nascosta dietro la porta si intuiva che l’ambiente doveva esser stato dipinto di quel potente rosso sangue ormai molti anni prima. Appoggiai la vestaglia sul letto con grande naturalezza, adesso incuriosito dal senso di familiarità che mi ispirava profondamente quel posto, e cercai nell’armadio qualche vestito di ricambio: c’erano soltanto abiti da donna, in fila a scalare secondo le tonalità di colore; in uno scomparto quelli per la casa e le mises da ufficio, nell’altro i costosi completi da sera. Tutti straordinariamente eleganti, magnetici. Un po’ per curiosità e un po’ per divertimento, me ne infilai uno e cominciai a improvvisare goffi passi di danza alla stregua di un’isterica dama di compagnia ottocentesca. Quando poi, poche ore dopo,mi rialzai dal letto ancora con gli abiti indosso, non riuscii a fare a meno di bloccarmi per un attimo, con un sussulto di vanità rinfrancato nell’orgoglio dall’immagine nella specchiera: un portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, che per la prima volta mi sorprendeva così tanto intimamente. Al piano di sotto, la donnetta rifinita mi fece trovare la colazione già nel piatto. Appena finito di mangiare mi dette un bacio sulla testa, qualche spicciolo per le spese della giornata e con sguardo materno mi augurò buona fortuna e buon divertimento per lo spettacolo a teatro di quella sera: ormai erano mesi che non parlavo d’altro e finalmente era arrivato il momento. Mai come quel giorno furono interminabili le ore trascorse a lavoro, poi all’università e china sui libri, illuminati di verde dal vetro delle lampade della biblioteca; giunto il momento presi posto a sedere in prima fila, staccando il cartoncino che ricordava a tutti la mia tempestiva prenotazione. Lo vidi salire sul palco e cominciai a applaudire più forte che potevo, tanto che mi sembrava d’essere tornata una bambina, al primo concerto del cantante preferito. Restai come ipnotizzata per tutto il tempo, e non riesco a descrivere l’emozione quando a un certo punto realizzai che si era accorto di me, proprio lui, così vicino, mi stava guardando, e più passava il tempo più mi fissava. Euforia, panico e ancora euforia, poi decisi di agire, di scrivergli un biglietto. Lo lanciai sul palco e dopo neanche dieci minuti dalla fine dello spettacolo eccomi lì, tutta eccitata e trepidante, in piedi davanti al camerino.
Una mano sulla porta, come da accordo bussava tre volte; l’altra, come sempre, ben salda sulla fessura della tasca destra dei pantaloni, a blindare il portafoglio. E il suo insaziabile segreto.