Da grande stavolta voglio che ti chiami Elena. Voglio che tu faccia soffrire tutti quei rifiuti umani nati grossomodo insieme a te, almeno quanto m’hai fatto soffrire a me nelle tue reincarnazioni precedenti. Quelle di quando il rifiuto umano ero io e tutte le guerre e tutti gli eserciti me li tenevo conficcati in gola, tra una lacrima d’orgasmo e una di vendetta, ridevo con la mano sulla bocca per non svegliarmi. Da grande voglio che t’innamori del piano B, del piano terra, del fai piano che di là ci sono i miei, magari giusto se ti ci puoi soffiare il naso dopo aver litigato anche del piano piano crollerete tutti davanti a me [e non dimenticare di lasciar stare il pianoforte con annessi e connessi, che non sono mai riuscito a trovare uno che lo suonasse e in grazia del suo Dio personale fosse anche simpatico. Anzi, sempre degli incalcolabili sventragonadisti col fegato sotto chiave]. Ma nessun altro piano, mai per nessuna ragione. Te lo dico così, da solo ma davanti a tutti come sempre, e solo perché in carne non riesco a parlarti come si deve. Proprio per quella storia della gola di prima, non ti offendere. Da grande voglio che ti dimentichi tutto quello che ti ho scritto, ma che sia disposta a dare fuoco alla casa dove vivi pur di non perdere coscienza di quella bambina vestita di candido che si rigira la notte e ti trascina via le coperte quasi con la stessa cattiveria che c’avrebbe messo facendotelo di proposito. Da grande voglio che se ti capita vada anche tu a dormire insieme al cane, ai piedi di una piazza disgraziatamente singola di letto, per di più occupata da tutti e due i ladroni messi a croce, e che comunque sia pronta a inchiodare la testa di tua madre a un fondo di bottiglia se per pietà non t’insegna a usare la frusta con gli occhi chiusi e i denti all’aria. Da grande voglio che i capelli impari a farteli da sola e che non ti dia sofferenza chiamare al telefono la parrucchiera di famiglia e augurare l’incidente stradale a tutto l’albero genealogico. Voglio che impari a fare il caffè, anche solo per potertelo bere tutto insieme dentro la scodella delle tagliatelle prima di andare a dormire, la mattina alle dieci dopo la nottata al pronto soccorso. Da grande voglio che il tuo primo tatuaggio sia grande quantomeno come la rabbia di tutti i preti del mondo quando scade l’abbonamento annuale a zoosex.com, e deve ricordarti che non si gode facendo il peccato ma che facendo il peccato si gode. E poi magari sul secondo ci scrivi che l’infamia è il negativo dell’ignoranza, e che l’unico legame che conta è quello con chi si chiede quale sia l’unico legame che conta. Da grande vorrei che tu non morissi, che non crescessi, che non nascessi nemmeno. Da grande voglio che tu stringa la mano a chi ci si è stretto il nodo, e che tu stringessi il nodo a chi le mani se le è lavate lisciandosi il filo della cravatta occasionissima dell’asta giudiziaria. Da grande voglio che impari a nuotare in mezzo all’alfabeto, con gli occhi a mezz’asta distratti dalla ricerca erogena d’uno scultore solitario. E che poi ti faccia crescere i muscoli per restarci aggrappata, mentre giù scorre la lava sulla bava delle mandibole puntate che ti chiamano ma non sanno pregustare. Da grande voglio che ti butti in mezzo al Viale Europa dentro un cavallo di Troia metallizzato per fissare le facce misto nylon di quelli che ti fissano con la puzza di terrore, è finito il petrolio! sotto alla cintura e i capelli tristezza, stile anni ’40 ma senza bombardamenti. Da grande voglio che fumi, che bevi, che ti droghi, che ti buchi le orecchie e che poi chiudi il libro perché s’è anche già sentita; che ti piaci anche quando sei nuda, che fai del male senza motivo, che bestemmi quando va via l’acqua calda; che ti trovi un lavoro con calma, dopo un po’ che non l’avevi mai fatto e solo perché era un’altra spunta da mettere sulla lista; che non ti venga proprio bene cucinare, che la doccia quando ti pare a te e i maglioni c’hanno tutti almeno uno strappo; che sbatti il telefono in terra, che urli da sola in macchina, che a sedic’anni ti piace la danza ma il rosa t’ha sempre fatto schifo; che vomitare alla fine serve, e dopo un po’magari ti c’affezioni anche a risalutar la cena, che magari in fondo scrivere è l’unica cosa che ti piace; che dire quello che si pensa è giusto, pensare quello che si vuole va bene, ma se poi non ti fa né ridere né scopare anche col cazzo che me ne frega; che la vendetta è bella anche se fa male e che se il treno non ferma io piscio sul sedile; che sia prima o dopo l’erezione, l’affinità elettiva che disturba i progetti rapisce la quiete svela i conti in sospeso sia orfana di futuro se, come e quando ti pare a te; che dei froci, dei negri, degli zingari quel che ti fa schifo è che in buona parte siano stupidi esattamente come tutti gli altri; che ti diano la nausea il buonsenso, l’opportunità, il moralismo, le reprimende, i paternalismi, gli elenchi telefonici, gli elenchi di parole superflue nelle descrizioni, quelli che ti dicono che gli altri sono stupidi, però quando ti serve lo fai anche te e il primo che viene a rinfacciare, protestare, sindacare, piagnucolare, intristire, ammosciare, infastidire, sempre se, come e quando ti pare a te, la prossima volta non avrà una prossima volta e la sua unica prossima volta te la sei già masticata un bel po’di secoli fa; che ti diverta ascoltare contemporaneamente il tango argentino, il nipote dei vicini che gioca con la palla da tennis e il coro dei tuoi meravigliosi ospiti interni raccontarsi barzellette scabrose in cui guarda caso sei sempre te a passare da cretina; che come sempre ti domandi quanto si devono maledettamente divertire con le matite quelli che sanno disegnare davvero bene, a crearsi tutte quelle situazioni sessualmente incredibili, quegli spiragli così intrigantemente entusiasmanti di libertà assoluta, e voglio che tu lo faccia giusto prima di ricordarti che in realtà l’hai sempre saputo fare anche te, come a suo modo per prima ti disse la maestra alle elementari commentando il tuo primo foglio protocollo; che ti diverti a rubare i cartelli pubblicitari alle gelaterie dei paesini sperduti dove ti sei lasciata trascinare a corpo morto da quei pochi coraggiosi che si sono azzardati a infilare le loro vene in mezzo ai denti infuocati delle tue, e che poi subito dopo al mare preferisca morire piuttosto che andare via, anche se lo sai perfettamente che ti stanno spiando da mezzora. Voglio che ti dimentichi come non si muore dal ridere. Da grande voglio che tu sia felice, forse proprio perché non nascerai mai. [Da grande voglio che tu sia come uno di me, tanto a quel punto quegli altri se lo saranno già impiccato, qualche secolo prima che tu cominciassi a respirare. Godendo].