Periferia est

Era da molto tempo che non si registravano temperature così basse come quell’inverno.
L’asfalto dei viali piegato dalla brina luccicava al sole gelido del tardo pomeriggio, sfogando decenni di manie di protagonismo represse dai tubi di scappamento dei vecchi autobus di linea. Nell’aria si percepiva un profondo senso di silenzio. Il freddo aveva rimesso tutti a un’isterica repulsione contemplativa, che si librava sui tetti innevati, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali del quartiere. Negli appartamenti l’insolito carico di umori contrapposti e vibrazioni contraddittorie dava vita ad atroci litigi domestici, in cui cattiverie e crudeltà verbali per una volta si sostituivano al classico tepore della violenza fisica. Ad ogni modo, fuori casa i rapporti interpersonali si erano ammorbiditi; il tasso di disoccupazione era pressoché totale nella zona e sembrava che grazie al ghiaccio si fosse finalmente trovato un pretesto valido per giustificare a se stessi e agli altri quel profondo stato di marginalità sociale. Automobili impraticabili, strade bloccate e mezzi di comunicazione fuori servizio erano stati sufficienti per rassicurare i toni delle conversazioni nei luoghi di ritrovo, in cui solitamente si consumavano sensi di colpa, complessi d’inferiorità e interi cataloghi di nevrosi assortite. Il timore di sentirsi rinfacciare le proprie inutilità era diventato una vera e propria ossessione di massa, una paranoia collettiva sempre più faticosa da mitigare, e la temperatura rigida di quell’anno arrivò con la tempestività di un’operazione chirurgica ad arginare l’imminente crisi di nervi. La mancanza di lavoro era superata solo dalle feroci instabilità della noia e dai risvolti inquietanti dell’apatia che ne conseguiva. Pur di riempire in qualche modo il tempo morto, ci si dava ad ogni tipo di attività, più o meno immaginaria. Una casalinga del terzo isolato aveva allestito in cucina un vero e proprio bancone da pub e trascorreva pomeriggi interi a servire superalcolici ai due figli di sette e dieci anni, evocando l’immagine di una locandiera di mezz’età stressata dal maltempo. Un ventiduenne del secondo isolato da qualche mese girovagava tra gli edifici segnando appunti confusi e sconnessi su una cartelletta da funzionario del catasto, mentre a suo padre era venuta in mente la parola carcerato, e da una quarantina di giorni ormai non usciva di casa. Un anziano dell’unico grande condominio del primo isolato, ex pilota dell’aeronautica militare, si era costruito una guardiola rudimentale accanto all’ingresso dell’edificio per potersi improvvisare portiere e togliersi il cappello in segno di saluto al ritorno delle due signore del quarto e sedicesimo piano che ogni mattina alle sei tornavano nel nido coniugale dopo aver passato la notte a prostituirsi. Per loro sfortuna non conoscevano né l’ex dirigente delle poste del secondo isolato divenuto puttaniere, né la sua anziana moglie che per rimanere vicina al consorte si era immaginata una discreta abilità nel gestire il traffico delle schiave sessuali, così restavano entrambe ogni sera a incendiare copertoni senza nessuna effettiva produttività. Il più originale era stato senza dubbio un vedovo del terzo isolato, che aveva allestito un’intera bisca clandestina nel sotterraneo di un casinò di lusso inserito all’interno del suo forno a microonde; restava giorni interi col sigaro in bocca a fissarne il piatto di vetro roteare a vuoto, come simboleggiasse l’attività incessante di un ipotetico registratore di cassa tra le mani di un giovanotto suo dipendente, tenuto a libro paga soprattutto perché mantenesse il silenzio sulle attività illegali che si svolgevano sotto i suoi piedi. In buona sostanza, tutti avevano bisogno di qualcosa da fare ma nessuno si sentiva propriamente a suo agio nel coinvolgere gli altri in un qualche progetto più concreto. E la situazione stava cominciando a precipitare. Il giorno in cui il ventiduenne del catasto convinse la vecchia zitella del commissariato a indagare sul forno a microonde, fu probabilmente soltanto merito dei comuni effetti del freddo se si riuscì in qualche modo a placare gli animi e superare le diffidenze, scongiurando il pronto intervento degli inquilini dei condomini F e G del quarto isolato, trasformatisi improvvisamente in due eserciti sull’orlo di uno scontro nucleare per il predominio. Per ritrovare un temporaneo senso di comunità dovettero aspettare fino a quando, in seguito a un imbarazzante caso di omonimia, una vecchia fabbrica di ceramiche assunse per errore un cittadino della periferia, forse l’unico che fino a quel momento non si era trastullato con nessun impiego immaginario. Nessuno si ricordava più da quanti anni nel registro nazionale dell’impiego non risultassero nome e cognome di almeno uno tra tutti gli abitanti della periferia est, praticamente una città a sé, distante svariate decine di chilometri dalla metropoli. Recuperati orgoglio e autostima, nei primi tempi si organizzarono feste di paese in grande stile e allegria, per festeggiare l’avvenimento; i vari capifamiglia ballavano e si alcolizzavano nella palestra dell’antica scuola abbandonata, ipotizzando un periodo di celebrazioni ufficiali che concedesse a tutti loro una tregua dalle rispettive occupazioni di fantasia. Messi da parte gli antichi rancori, spremevano al massimo tutto l’entusiasmo ricavabile da un CD rigato di Muddy Waters e un paio di amplificatori da chitarra di provenienza incerta. Comprensibilmente, l’euforia iniziale svanì nel giro di poche settimane, lasciando il posto a conseguenze ben più irritanti. Giorno dopo giorno, l’operaio ancora fresco di nomina percepiva un crescente isolamento intorno a sé; evitato dagli altri, che nel frattempo avevano ricominciato a temere possibili confronti esistenziali e soprattutto spiacevoli dimostrazioni della loro inferiorità economica, ancora non sapeva di essersi reso il protagonista involontario della più violenta delle grottesche crisi di convivenza che si fosse mai registrata nella periferia. Sempre più segretamente spaventati dal giudizio delle proprie mogli, non ci volle molto prima che per tacito accordo tra i disoccupati si cominciasse a cancellare gradualmente ogni testimonianza della sua stessa esistenza. L’operaio, forse il più stupido tra i maschi adulti, non aveva famiglia e viveva da solo in un bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, collezionando le etichette delle bottiglie di birra che trovava per strada. Nel momento in cui arrampicandosi fino alla sua cassetta della posta trovò la lettera in cui lo si bandiva da tutte le adunate pubbliche e dai pochi luoghi di ritrovo rimasti in attività, poco lontano si sorteggiava a sorte chi dovesse andare una seconda volta fino al quarto isolato ad avvisarlo della volontà unanime che non si facesse più rivedere per strada in orario di luce. E subito prima che il secondo messo portasse a termine la nuova comunicazione, in assemblea era già stato suggerito di invitarlo, con le buone o con le cattive, a non uscire proprio mai più di casa; senza prevedere che qualche giorno dopo sarebbe stata definitivamente dichiarata l’apertura della vera e propria caccia all’uomo. Incatenato all’armadio del bilocale, l’operaio rimuginava sulla sua passione per le bottiglie di birra che l’aveva costretto a violare il coprifuoco imposto dalla comunità, mentre nel reparto cucina a pochi metri da lui un ex impiegato di banca sulla quarantina, con tre figli licenziato per improduttività, lasciava cadere distrattamente la cenere della sigaretta nel cerchio del bicchierino di liquore aromatizzato, versato poco prima per ingannare il tempo del suo turno di sorveglianza. Al discount dall’altro lato della strada, il turno a cui si pensava era quello della presidenza a rotazione del consiglio straordinario di gestione che si era ufficializzato all’ultima riunione dei capifamiglia nella palestra della scuola, allo scopo di garantire e mantenere la prigionia dell’operaio, le cui incombenze organizzative toccava presiedere al cinquantasettenne con quattro figli del trilocale al sesto piano del grande condominio unico del primo isolato. Spingendo il carrello tra gli scaffali di cibo in scatola rimasti all’abbandono dopo il fallimento dell’attività, s’interrogava sulle responsabilità del nuovo incarico; scervellandosi sulle direttive da impartire, realizzò l’importanza della struttura gerarchica e ne stabilì dettagliatamente le varie diramazioni. Per prima cosa regolamentò il servizio di sorveglianza dell’operaio prigioniero, formando un nucleo operativo di trentadue effettivi, divisi in quattro squadre da otto alternate in tre turni giornalieri. Subito dopo toccò al servizio sostentamento, che si procurava cibo e consulenza psicologica per il detenuto, poi al servizio igiene e pulizia fino al settore qualità-della-vita, che si occupava di assicurare i servizi minimi fondamentali di soddisfacimento alimentare, intellettuale e sessuale. Continuò con il servizio manutenzione, che si occupava dei lavori di riparazione in casa, quello di intrattenimento, di applicazione artistica, qualche corso di cucina e di meditazione, mentre venivano implementate le forze di controllo con l’ausilio di impianti di videosorveglianza installati da tecnici qualificati e istituiti reparti specializzati di polizia investigativa. Quando si dimostrò più difficile del previsto debellare l’ossessione dell’operaio verso le bottiglie di birra trovate in strada, fu inaugurato un ulteriore livello organizzativo: si crearono laboratori per gruppi di ricerca e sperimentazione che sviluppassero sistemi sempre più creativi e funzionali per far sì che l’operaio fosse cancellato dai ricordi della società civile, che gli fosse impossibile qualsiasi interazione con l’esterno ma che al tempo stesso potesse disporre di tutto ciò di cui necessitava. Tagliato fuori dal mondo con un sistema ideato per riprodurre artificialmente il sistema propulsivo delle valvole a nido di rondine nei vasi sanguigni, l’operaio viveva impassibile la furia di laboriosità che si era scatenata intorno a lui, accettando anche se con un po’ d’amarezza lo stile di vita tutto sommato privilegiato che gli era stato riservato. In breve tempo, quasi tutta la periferia aveva trovato un’occupazione in uno dei quattro livelli [manovalanza, sicurezza, servizi, ricerca], e per la prima volta in assoluto stavano tutti cooperando per un unico grande obiettivo universale, di cui tuttavia in pochi ricordavano ancora l’esistenza. Grazie al gioco di squadra dei capifamiglia, l’assemblea di gestione otteneva risultati sempre più entusiasmanti. I più illuminati compresero presto che se l’operaio avesse perso, a causa della detenzione, il posto di lavoro da operaio, sarebbe venuta meno l’esigenza iniziale che stava indirizzando e motivando l’intera nuova struttura sociale; venne così istituito un ultimo livello organizzativo, composto da un gruppo scelto di abili comunicatori e piazzisti reclutati tra ex venditori, impiegati delle assicurazioni e fanatici religiosi, affinché elaborassero e mettessero in pratica un manipolatorio piano di convincimento a lungo termine nei confronti della fabbrica di ceramiche. Sbalorditi dalle potenzialità della forza di volontà umana, misero in campo tra le più fantasiose delle menzogne, facendo sì che dopo mesi di lontananza dal posto di lavoro l’operaio non venisse ancora formalmente licenziato. Tutto adesso quadrava, ogni ingranaggio contribuiva quotidianamente al meccanismo con pari dignità sociale, e l’operaio era rimasto l’unico concretamente disoccupato, rinchiuso nel bilocale a godere segretamente delle servizievoli e premurose attenzioni dei lavoratori. Ognuno si sentiva utile e accettato. I livelli delle nevrosi e dei comportamenti antisociali rientrarono sotto i livelli di guardia, ogni attività era pianificata in modo tale da richiedere la collaborazione di un livello organizzativo superiore e chiunque si avventurasse in percorsi autoformativi non autorizzati dal consiglio di gestione veniva severamente punito dal settore sicurezza. Si stipularono nuove leggi e organismi giuridici capaci di farle rispettare. Vennero aperte scuole che tramandassero alle nuove generazioni i frutti delle recenti esperienze, si organizzarono ospedali, tribunali, carceri, e una volta che la struttura sociale fu finalmente completa di ogni sua appendice pratica, si ripristinarono le feste alcoliche nella palestra della vecchia scuola abbandonata.
Era da molto tempo, nella periferia est, che non si registrava un inverno freddo, interminabile ed emozionante come quello. Poi con la primavera cominciarono a sciogliersi gli ultimi strati di nevischio sui tetti, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali, e nella sua camera da letto nel bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, l’operaio fumava una pipa di radica affacciato alla finestra in compagnia di una rivoltella e un vecchio CD rigato di Muddy Waters. Sognando le etichette delle bottiglie di birra lungo la strada, e il panico che avrebbe seguito la sua morte.

Il segreto

In genere se si chiede a qualcuno di fare una stima delle sue ore di sonno la risposta sarà: mah, più o meno otto, come tutti. In realtà si dice che quasi tutti tra questi non dormano meno di dieci ore. E secondo alcuni è proprio questa la ragione per cui così pochi si ricordano i sogni che fanno. Colpito da certe indiscrezioni, in un primo periodo vendetti la fiducia alla sveglia, in un secondo alla droga. Poi alla pizzica salentina, passando per l’alcolismo, e infine alla depressione. Nessuna di queste funzionò. Sulla sveglia m’avevano truffato l’opinione pubblica e l’educazione; sulla droga gli amici più fidati, sulla pizzica la disperazione; sull’alcolismo l’idea che si erano fatti gli altri di me, sulla depressione l’idea che m’ero fatto io degli altri. Poi quando mi accorsi che stavo cominciando a sperimentarle tutte insieme, decisi di sedermi intorno a un tavolo e risolvere la questione più civilmente: il risultato fu strabiliante. Dopo tanto penare, finalmente avevo trovato la soluzione. Il mio entusiasmo era palpabile, chiunque mi frequentasse in quei giorni notava nelle mie espressioni un qualcosa di diverso dal solito, come un senso di freschezza, di sollievo, come se per miracolo fossi alla fine riuscito a fare pace col mondo. O almeno a lasciarmi convincere sui possibili vantaggi del mostrarmi superiore di fronte a tutte le bassezze e i tiri mancini che prontamente quest’ultimo continuava a rifilarmi da anni. Mi sentivo talmente eccitato che per paura di dimenticare il frutto di tutte le disperate ricerche del passato misi tutto per iscritto su un foglietto ripiegato quattro volte e rinchiuso nel portafoglio, nella tasca dietro dei pantaloni buoni. Per la prima volta riuscii a godere veramente di quelle stramaledette tarantelle da terroni. Uscivo di casa con lo sguardo fiero sotto al sole e la mano sempre ben salda sulla fessura all’altezza della natica destra; e con il segreto di quella meravigliosa rivelazione blindato stretto al suo posto, me ne scorrazzavo lungo i viali alberati. A braccetto con l’autunno mi divertivo sovrappensiero a scalciare affettuosamente le foglie rossastre che mi stringevano l’occhio sulla via di casa, dove tornavo d’inverno per mettermi al riparo dalle frizzantezze dei primi vagiti di grecale, insieme a quell’espressione inebetita che a stento riuscivo a nascondere dentro sciarpe di lana e girocolli prominenti; ma poco importava, e col sorriso scolpito e qualche pacca sulla spalla ai bambini degli altri era già primavera. Il rifiorire della vegetazione per la prima volta nella sua storia si sorprendeva di questo inedito senso di gelosia che la brillante magnificenza della mia sagoma ispirava rabbiosamente. E poi era di nuovo estate e tanto ero contento e spensierato che all’obitorio dovettero chiamare il falegname per sradicarmi il sorriso a colpi di punteruolo e far finalmente riposare i denti abbronzati della salma. Nonostante i numerosi sforzi, non riuscirono comunque mai a distogliermi la mano dalla tasca dei pantaloni. Al cimitero feci amicizia con tutti i vicini e nel giro di poco tempo diventai uno dei più acclamati e rispettati del terzo piano mansardato. Sciaguratamente oltre al corridoio mio e alla mansarda non si riusciva a sentirmi, quando alla sera intrattenevo gli animi dei più spiritosi con certi miei intermezzi di cabaret sperimentale antinoia, di cui così tanto si sentiva il bisogno nella mortale monotonia di certe serate autunnali. Quasi rassegnato al piccolo numero dei miei interlocutori, all’improvviso venni a sapere con molto piacere che confidando sul passaparola grazie al quale si tenevano aggiornate sulle novità della vita sepolcrale un gruppo di ex parrucchiere e pensionate inacidite, amiche in vita e ora sepolte sparpagliate da un capo all’altro dell’edificio, stavo rapidamente diventando una vera e propria celebrità nel campo santo. Mi tornavano indietro notizie di alcune salme talmente incuriosite dalle voci che giravano sul mio conto da spingersi in impensabili stratagemmi e bizzarrie inaudite per tentare con ogni mezzo di convincere i familiari a farsi spostare di loculo fino al terzo piano mansardato. C’era uno che aveva cercato d’apparire in sogno ai congiunti e tra un numero vincente e l’altro sibilava strane richieste, con la promessa di riservare il numerone finale e decisivo al giorno in cui, di grazia, gli fossero venuti incontro in quella cortesia. Altri s’erano sforzati di svitare i rispettivi coperchi con la forza della meditazione spirituale, ottenendo comunque sempre al massimo qualche sonora fuoriuscita di fuochi fatui, verdognoli e di breve durata, sommersi da grosse risate e dall’ilarità generale dei seppelliti a muro. Qualcuno dei più disgraziati s’era limitato a sporadici gesti di stizza e frustrazione, che non potendo sfociare in nessun tipo di violenza fisica si erano poi quasi sempre trasformati in raptus di invidia, rabbia, nevrosi e repulsione nei confronti della mia stessa persona. Ce n’erano altri che quasi per vendetta si inventavano pettegolezzi infamanti sulla mia vita passata, mentre addirittura qualcuno metteva in dubbio la mia stessa esistenza, architettando teorie sempre più convincenti per mettere in guardia quanti più cadaveri possibile a non farsi abbindolare dalle dicerie che circolavano sempre più insistentemente nei lunghi corridoi piastrellati. Nonostante la frenesia generale dei condomini e le incredulità degli scettici, tanto forte e spietato era il morso della noia che ben presto il divertimento riuscì a imporsi sul resto e trascinare alle stelle la mia popolarità: abbandonai il cabaret, applicandomi in scritture di scena sempre più complesse, fino a inventarmi vere e proprie performance teatrali. Ogni sera mi schiarivo la voce, per quanto mi fosse possibile a settimane buone di distanza dalla sepoltura, intonando canti e declamazioni solenni, storie di grandi amori e gesta eroiche del passato, incoraggiato dal pubblico fedele, ormai affezionato alle trame sempre più originali e avvincenti. Tanto quanto fu sincera ed esaltante quella smodata approvazione nei miei confronti, tanto mi commosse quel giorno in cui, rientrando nel loculo a tarda sera dopo il lavoro, trovai finalmente riuniti tutti quanti i cari defunti del cimitero, che si apprestavano a terminare gli ultimi preparativi per la festa a sorpresa che ormai all’unanimità avevano deciso di organizzare in mio onore: mi ricordo ancora benissimo che non riuscii a trattenermi, nonostante l’avanzato stato di decomposizione, dal correre ad abbracciare uno per uno i miei premurosi amici, divincolandomi qua e là attraverso gli stretti viottoli tra una lapide e l’altra, col cranio sfregiato da lacrime di gioia e vermi solitari. Una delle parrucchiere, che avevano contribuito alla mia fama, mi prese per un braccio e appena voltato mi accorsi che stava indicando un enorme palco fatto di tubi da cantiere e lastre di parquet inchiodate a un basamento di finto marmo roseo, trasportato e allestito per l’occasione. Sbalordito dall’imponenza della struttura, adornata con tanto di microfoni, altoparlanti e giochi di fumo, il fascio di luce proiettato sopra la grande X di nastro isolante al centro del piano rialzato mi fece capire che tutto era pronto per l’inizio dello spettacolo. Incoraggiato da strette di mano e sguardi compiaciuti, mi inoltrai tra la folla. Per un istante, mentre il pubblico prendeva posto in sala, restai immobile davanti alle scalette metalliche che dalle quinte conducevano alla gloria, quasi ipnotizzato, fissando la postazione che mi era stata riservata. Al segnale dell’ex dentista del paese, improvvisato assistente di studio, si spensero le luci; mi lasciai alle spalle le ultime timidezze e con passo sicuro andai incontro al destino, abbandonandomi al maestoso applauso del grande teatro gremito. Erano appena arrivati anche i giornalisti e le televisioni, locali e nazionali, per la diretta. Tra la folla si faceva segno di fare silenzio e prestare attenzione. Lo spettacolo fu finalmente un successo senza precedenti, e in tutta fretta mi portai nei camerini per togliere il trucco e gli abiti di scena, dato che una delle donne sedute in prima fila mi aveva lanciato, in un bigliettino messo giù di pugno in fretta e furia, le sue irresistibili profferte amorose; ammaliato da quel suo portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, avevo accettato. Ancora nudo corsi nel bagno, per espletare le esigenze fisiologiche sovrastimolate dalla forte tensione della prestazione artistica e, appena appoggiata la mano destra al muro in segno di liberazione, sentii bussare tre volte alla porta del camerino, come da segnale concordato, e poi la porta spalancarsi. Da dietro gli arabeschi colorati del séparée di tela intravidi la donna entrare e ne fui felice, ignaro com’ero del piccolo intoppo con cui avrei dovuto fare i conti di lì a poco: non riuscivo più a smettere di pisciare. Il liquido scorreva inappagabile e, dopo aver riempito l’elegante tazza di ceramica, cominciò a fluire inarrestabile lungo le mattonelle celesti del pavimento. Sforzandomi di mantenere la calma, provai a fare appello a tutta la tenacia possibile affinché mi concedesse la tranquillità per terminare, nonostante il feroce richiamo che sprigionava esasperato dalla giovane carne della ragazza, incendiata sul fuoco del grande letto delle modelle, a distanza di pochi metri. Continuavo a pisciare, non c’era niente da fare. Improvvisamente nuda e spazientita, la donna troncò a metà il séparée spazzandolo via contro il muro portante; mi si scaraventò addosso ma il getto non si arrendeva, così sopraffatto dall’eccitazione lasciai che provasse a risolvere lei, e appena riaperti gli occhi l’unico risultato che mi ritrovai davanti fu l’immagine di una povera donna tenuta per i capelli, morti soffocati. Terrorizzato lasciai cadere il cadavere sul pavimento, afferrai al volo una vestaglia e scappai dalla porta di servizio, correndo lungo la biglietteria in preda al panico. Una volta in strada feci cenno al primo taxi libero e mi lasciai trasportare lungo i viali bagnati dalla pioggia leggera, mentre dai finestrini imploravo pietà inginocchiandomi davanti agli schizzi impazziti delle sirene sulle ambulanze, che mi traforavano le pupille a colpi di riflessi azzurrastri, puntualmente amplificati dal pastello morbido delle vetrine umide degli ultimi negozi in chiusura, in quella folle notte come tante d’inizio inverno nella metropoli. Sopraffatto dagli eventi, non prestai attenzione al tassista, che aveva ormai rinunciato a fare domande e distrattamente mi stava accompagnando verso casa sua. Abitava in una villetta vecchio stile della prima periferia, su due piani deliziosamente arredati dalla cura amorevole e dal gusto retrò della padrona di casa, una donnetta rifinita ma gentile, che senza troppe esitazioni aveva accolto fin dall’inizio le mie tacite richieste di ospitalità. Dopo avermi preparato una cena frugale e offerto una sigaretta, mi guidò fino alla camera da letto, che a quanto diceva lei si era appena liberata. Ci sedemmo a fumare insieme per un momento, poi mi indicò la strada per il bagno in caso di necessità, diede un’ultima rassettata ai guanciali e se ne tornò davanti al televisore. Improvvisamente sereno e tranquillizzato, mi soffermai a osservare la stanza, togliendomi la vestaglia: alle pareti erano appese alcune fotografie in bianco e nero di scorci rurali e paesaggi di campagna; al lampadario, sulla ringhiera del letto e intorno alle maniglie di porta e finestra erano annodati fiocchi colorati, che si mescolavano ai toni arcobaleno della grande moquette colorata stesa sul pavimento. Quasi ogni componente della piccola stanza quadrata era di legno, eccezion fatta per quelle contraddistinte dai fiocchi, e dalle crepe che si erano formate fin sopra la cornice della grossa specchiera a parete nascosta dietro la porta si intuiva che l’ambiente doveva esser stato dipinto di quel potente rosso sangue ormai molti anni prima. Appoggiai la vestaglia sul letto con grande naturalezza, adesso incuriosito dal senso di familiarità che mi ispirava profondamente quel posto, e cercai nell’armadio qualche vestito di ricambio: c’erano soltanto abiti da donna, in fila a scalare secondo le tonalità di colore; in uno scomparto quelli per la casa e le mises da ufficio, nell’altro i costosi completi da sera. Tutti straordinariamente eleganti, magnetici. Un po’ per curiosità e un po’ per divertimento, me ne infilai uno e cominciai a improvvisare goffi passi di danza alla stregua di un’isterica dama di compagnia ottocentesca. Quando poi, poche ore dopo,mi rialzai dal letto ancora con gli abiti indosso, non riuscii a fare a meno di bloccarmi per un attimo, con un sussulto di vanità rinfrancato nell’orgoglio dall’immagine nella specchiera: un portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, che per la prima volta mi sorprendeva così tanto intimamente. Al piano di sotto, la donnetta rifinita mi fece trovare la colazione già nel piatto. Appena finito di mangiare mi dette un bacio sulla testa, qualche spicciolo per le spese della giornata e con sguardo materno mi augurò buona fortuna e buon divertimento per lo spettacolo a teatro di quella sera: ormai erano mesi che non parlavo d’altro e finalmente era arrivato il momento. Mai come quel giorno furono interminabili le ore trascorse a lavoro, poi all’università e china sui libri, illuminati di verde dal vetro delle lampade della biblioteca; giunto il momento presi posto a sedere in prima fila, staccando il cartoncino che ricordava a tutti la mia tempestiva prenotazione. Lo vidi salire sul palco e cominciai a applaudire più forte che potevo, tanto che mi sembrava d’essere tornata una bambina, al primo concerto del cantante preferito. Restai come ipnotizzata per tutto il tempo, e non riesco a descrivere l’emozione quando a un certo punto realizzai che si era accorto di me, proprio lui, così vicino, mi stava guardando, e più passava il tempo più mi fissava. Euforia, panico e ancora euforia, poi decisi di agire, di scrivergli un biglietto. Lo lanciai sul palco e dopo neanche dieci minuti dalla fine dello spettacolo eccomi lì, tutta eccitata e trepidante, in piedi davanti al camerino.
Una mano sulla porta, come da accordo bussava tre volte; l’altra, come sempre, ben salda sulla fessura della tasca destra dei pantaloni, a blindare il portafoglio. E il suo insaziabile segreto.

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Sapeva che sarebbe successo di nuovo. 19:11, niente.
Lo sguardo spento, ripiegato lungo la segnaletica, cercava di rassicurarlo silenziosamente, mentre senza comprenderne a fondo il motivo si era ormai quasi del tutto rassegnato a farsene una ragione. I riflessi dei lampioni si infrangevano come zolfo incandescente tra le portiere metallizzate e gli angoli scanalati dell’imponente scaleo da cantiere che giaceva ripiegato lungo i sedili posteriori reclinati dell’abitacolo. Quel mosaico di bagliori isterici, proiettato in mezzo alle bruciature di sigaretta sul tettuccio dell’auto, era rimasto probabilmente l’unico labile collegamento psichico tra il suo ecosistema mobile e la realtà circostante. 19:37, niente. Gradualmente anche quell’ultimo superstite gli stava scivolando via, trascinato per i capelli da una suoneria polifonica stile primi anni Duemila, scaricata con un servizio in abbonamento. 19:39, amore quando torni? Noi siamo rientrati adesso, pensavamo di ordinare un paio di pizze. Ti aspettiamo per cena? Riporta a casa lo scaleo e poi ricordati che è venerdì: andiamo al cinema dopo mangiato, alle nove e un quarto ti voglio qui. Sfuggire da sua madre era stata la sua prima grande abilità. Col tempo aveva raggiunto una tale spontaneità, nel tagliare corto, da non aver più bisogno di elaborare ulteriori rassicurazioni; tanto era diventato semplice il meccanismo che gli sembrava quasi fossero i cartelloni pubblicitari spuntati dietro il guardrail dell’autostrada a suggerirgli le battute, a riadattare costantemente il copione, man mano che si intricavano le sue esigenze insieme al livello di difficoltà nell’elaborazione delle menzogne. 19:43, niente. Erano forse proprio queste sue simbiosi immaginarie, tra sé e l’inanimato delle sue scenografie in lenta evoluzione, i suoi unici momenti di svago e soddisfazione. Per il resto sentiva di continuare ad allontanarsi da se stesso. 19:55, niente. Riconosceva a stento il suono della sua stessa voce e in qualche modo si divertiva a immaginarsi rinchiuso in una vibrazione silenziosa, nei minuscoli altoparlanti finalmente distrutti della sua polifonia vocale. A volte ci riusciva, nei tempi morti, pochi istanti prima che il telefono squillasse di nuovo e che la voce metallica gli rimbombasse nell’orecchio gli energici saluti di un adolescente in crisi, sempre pronto a raccontare delle proprie interminabili vicende amorose, cercando di convincerlo a condividere isteria e disperazione, come si conviene in questi casi. 20:01, guarda, hai fatto bene a chiamarmi, lo sai che non ci si può fidare di lei. Lasciala perdere e vieni stasera al centro, piuttosto. C’è una festa, alle nove e mezzo ti passo a prendere e ci andiamo a svagare; a modo mio però, lo sai. Quando ti serve un amico sai dove trovarmi. 20:05, adesso ti saluto, devo andare. Perché lo facesse non lo sapeva nemmeno lui. Forse un buon indizio lo si dovrebbe ricercare nel rumorino elettronico dei segnalatori di direzione, o nelle frequenze trasmesse alla sua radio dalle numerose interferenze delle gallerie. Solo dei suoni, forse troppo simili a certi allarmi che gli si erano radicati dietro i timpani. Gli ricordavano troppo il tono predefinito della sveglia che si era impossessata di lui, e lo costringevano a sopportare l’idea che sarebbe inevitabilmente successo di nuovo. 20:07, nessuna notifica; solo il martirio polifonico, grottesca bestia mutante stavolta con le sembianze del capo, il padrone della pizzeria. 20:08, stasera puoi venire? Manca gente, dai vieni al secondo turno, verso le nove, massimo nove e mezzo. Sicuro, diceva lui, che problema c’è? Ci vediamo più tardi allora, insisteva, e ora però tutti zitti. A ogni sorpasso si dimenticava del suono della freccia e alle 20:19 metteva distrattamente mano al cellulare, ben riposto sul sedile passeggero, tanto per dare una controllata al suo giardino segreto di pallini verdi e freccette blu, che ancora notificava: niente. In silenzio tornava a immergersi nei pensieri, per scegliere la più sbagliata tra le versioni di sé. Sapeva che fare il cameriere non sarebbe bastato a soddisfare le sue ambizioni, e per quanto si sforzasse non riusciva a trovare nessuna valida spiegazione del perché avesse accettato quando gli fu avanzata la proposta, quella volta che trovandosi al telefono con la sua ex fidanzata era diventato un esemplare maschio perfetto di trentenne slavo d’ispirazione bohémienne, alla ricerca di una sistemazione provvisoria misera e inutile di cui servirsi per giustificare la propria esistenza di fronte alla frusta del padre e sostenere le spese per le inconfessabili razioni mensili di stagnole d’oppio di pessima qualità. 20:24, niente. Qualcosa di vero poteva esserci, nella comodità stessa in cui calzavano le cuciture del ricamo, la maschera automodellante sulla sua faccia; o magari nel senso di familiarità che gli pulsava sulla pelle ingiallita dall’alcol delle dita affusolate, mentre strisciando sul sedile lanciavano una nuova rapida scorsa allo schermo. 20:29, niente. Nessuna novità, nessun beep che riportasse il nome tra quelli dell’elenco, nient’altro che non fosse quella stupida suoneria che ritornava col suo carico di frustrazioni politicamente corrette, nervosismi blandi socialmente accettati, la voce tremolante di una delle sue amanti che implorava eccitazione e un pezzo di fascino tutto mistero e pugno d’acciaio che, 20:32, stasera passo da te, fammi sapere quando lui se ne va; anch’io non penso altro che a te, schifosa, mi fai tremare. 20:37, niente ma tremava davvero, anche all’idea di quell’entusiasmante progetto per il futuro, l’opera d’arte estrema e definitiva della sua carriera. Il lampo di genio gli era venuto nel sonno: aveva sognato di riuscire a mettere insieme così tanta corda da formare un cappio con nodo scorsoio a entrambe le estremità, capace di unire la Terra e la Luna nella nevrosi di un insuperabile abbraccio mortale, in cui non si riuscisse a capire chi dei due fosse il boia e chi l’impiccato. La sua convinzione era tanto irremovibile e suggestiva da tenerlo occupato fino alle 20:54, niente, prima che le dita tornassero a distrarsi sul display retroilluminato. Si era anche informato per cambiare il suono delle notifiche, in modo tale da poterne impostare alcuni così caratteristici da non poter essere confusi con i gorgoglii della sua auto, e aveva cercato di disattivare la ricezione chiamate in modo da evitare scocciature senza vedersi costretto a spengere il cellulare. Ma un po’ per sfortuna un po’ per la mancanza cronica di forza di volontà non era riuscito a combinare nulla, e si lasciava divorare ogni volta che gli succedeva di nuovo e che quello sciagurato ritornello polifonico tornava ad ammorbargli i nervi, ogni volta che si sentiva sbattere in faccia dagli auricolari il ronzio sferragliante della compagna, una giovane ragazza poco più che intrigante, decisa a coinvolgerlo in elaborate elucubrazioni mentali sul significato della sua intrepida avventura artistica. 21:04, alle 21:30 a casa tua, ne parliamo aggrappati a un bicchiere di vino ma cosa ne penso davvero te lo devi lasciar sussurrare all’orecchio, e in bocca gli era rimasta solo la voglia di cambiarsi d’abito, scegliere un altro travestimento. L’immagine che gli precipitò addosso fu quella di un misero cameriere alcolizzato, con la prospettiva del lavapiatti a tenerlo da sola ancorato al mondo dei viventi. 21:12, niente, cominciò a farsi delle domande. Mancava una telefonata e magari c’era sotto qualcosa, un piano, una qualche strana congettura, così crudelmente naturale da rivelarsi sempre più imprevedibile. 21:19, niente, e arrivò il tempo di slacciarsi l’orologio, insieme al vestito da onesto lavoratore precario. 21:23, niente, ma in compenso si ritrovò con la maschera da autolesionista: gli saltarono agli occhi i fallimenti della sua vita sociale, le pochezze dei suoi rapporti con gli altri, per non parlare dell’insuccesso personale, l’affermazione mancata sia negli studi che nel lavoro. 21:25, non riuscì a fare a meno di trovare nella sua storia un qualcosa di nascosto ma estremamente divertente, un trionfo voluttuoso di personalissimo feticismo a riempirgli i polmoni d’aria fresca. Alle 21:30, niente, si trovava contemporaneamente a casa dalla famiglia, a lavare i piatti in pizzeria, alla festa con gli amici e nelle camere da letto di due rispettive amanti differenti, e tutto sommato non aveva ancora niente da fare. Accostò la macchina, finalmente giunta a destinazione in nessuna delle sue solite realtà. Tirò giù lo scaleo e lo zaino delle corde, si abbandonò per un’ultima volta al giardino retroilluminato della sua schizofrenia e cominciò ad arrampicarsi, verso la gloria. Finalmente nudo, e solo.
Nel suo niente.

L’ultima intervista

Di corsa, mezzo sudato verso il finestrino abbassato della limousine, ancora non avevo capito perché avevo accettato. Guarda scusami, altri dieci minuti, c’era una giornalista, non ho capito bene comunque faccio veloce, mi chiedevo se gliene interessasse davvero qualcosa e aspettavo che mi tornasse l’appetito della cena saltata poche ore prima. Ha detto dieci minuti, tra undici vado a dormire crollasse il cielo, che non ce la faccio più. Seduto sotto il faro della videocamera continuavo a sudare vergognosamente: sentivo tutta la tensione del palcoscenico scivolare via, grondandomi addosso sotto la camicia. Grazie per la disponibilità, facciamo davvero presto, solo qualche domandina veloce, pochi minuti, continuava a rivoltarmisi nell’orecchio la voce della donna. Era giovane, discretamente carina, non doveva aver avuto troppi problemi a trovare lavoro, magari proprio quello che aveva sempre sognato di fare; c’erano tutti i presupposti per immaginare che avrebbe pure fatto carriera e la camera è dritta davanti a te, se per favore passi un attimo da lei ti mettiamo il microfono e cominciamo. Vuoi un po’ di trucco? Solo quando si accese la luce rossa e sentii di nuovo quella giovane voce metallica inerpicarsi sulla romanzata presentazione della mia vita, mi resi conto che non mi ero neppure degnato di rispondere alla domanda. In fondo avevo le mie buone ragioni, sapevo di potermi concedere il lusso di qualche distrazione, alla fine della venticinquesima replica dello spettacolo. Con quello che ci stavo guadagnando poi, mi meritavo almeno un po’ di pace, un attimo di tregua, un vero e proprio record, sia d’incassi che di critica, il pubblico finalmente ritorna a teatro. E a me che invece importava solo che ritornasse a casa quello schiaffo che m’aveva tirato in faccia prima d’andare via e abbandonarmi per sempre, pensa che idiota che ero. A quarant’anni ancora incapace di rapportarmi seriamente con la gente, mai la persona giusta, distaccato da tutto e da tutti, senza un amico, una moglie, un cast d’eccezione, riunito per l’occasione in una delle produzioni più entusiasmanti sulla scena italiana degli ultimi dieci/quindici anni, intravedevo l’autista appoggiato alla portiera fumare nervosamente una sigaretta, spazientito dalla noia di un’intervista imprevista nell’ora tarda di una giornata di fatica. Forse stava pensando ai figli, forse a un trancio di pizza o un pezzo di pollo surgelato che qualcuno doveva avergli preparato un po’alla buona per quando fosse rientrato. Magari stava semplicemente maledicendo il giorno in cui aveva cominciato a lavorare per me, si chiedeva per quale incomprensibile ragione avesse accettato, con quello che lo pagavo poi. Chissà perché aveva cominciato a fare l’autista, difficile che se lo fosse scelto di sua iniziativa come lavoro; io me l’ero scelto, il giorno in cui nella vecchia casa di campagna vidi mia madre vomitare dalla ringhiera del terrazzo, davanti a quel cane randagio che aveva pensato bene di venire nel nostro giardino a divertirsi con un piccione in putrefazione che gli penzolava dilaniato tra i denti. Mi ricordo come fosse ora il sorrisetto divertito che teneva stampato sul muso, e fu così che mi chiesi per la prima volta se anch’io sarei stato capace di simulare a mio piacimento un’espressione così allegra e spensierata, con quel miscuglio di sapori nauseanti color morte e decomposizione dentro la bocca. Ero pieno di domande, mi chiedevo cosa avrebbe potuto significare quella scena, cosa avrei fatto della mia vita, come sarei riuscito a capire qualcosa di me, quando avrei cominciato a sentire che tutto stava procedendo secondo i piani, quando per la prima volta avrei avuto qualche garanzia dalla vita di essere felice, quando ti sei accorto per la prima volta di voler fare l’attore? E quanto conta secondo te la preparazione nel vostro mestiere? Ancora non si era resa conto che la mia testa ormai aveva spazio soltanto per la depressione dell’appuntamento con l’avvocato, fissato per la mattina seguente. Nessuna voglia di andarci, di averci a che fare, non sopportavo il suo modo di fare così mostruosamente equilibrato, l’indifferenza bestiale della sua professionalità, il tocco magistrale di un regista di fama internazionale: come è stato lavorare con lui? Certo, dieci minuti; è già passata mezz’ora e questa continua, non la ferma più nessuno. Devo andare via, bisogna che m’inventi qualcosa, di sbrigativo, un cenno, un segnale. O qualcosa di più scenico, perché no, un’uscita teatrale, in linea col personaggio, magari dedicata all’autista. Non sarà la migliore pubblicità ma la noia mi distrugge.
Al liceo, dopo una recita di fine anno. Non so quanto conti la preparazione, ma vi consiglio l’accademia.
E il regista è uno stronzo.

Provamotóri

[AVVISO DI SISTEMA. In una fotografia multisensoriale, il riflesso delle parole nelle pupille, lo scorrere delle righe col dito e il rimbombo delle vocali sulle tempie si mescolano assieme a terze parti, fornite insieme al testo: sarà bene ricordare che, per quanto inscindibili dalla compagnia originaria, anche quest’ultime godono dell’indipendenza di una vita autonoma, di un valore specifico di primaria importanza, in quanto elaborati originali dell’autore.
Avviate il lettore e consumate senza freni, nel rispetto dei ritmi stabiliti dal vostro gradimento.]

L’altra sera, guarda l’altra sera lascia fare.
Successo di tutto, davvero, guarda, lascia fare.

Fitte nello stomaco.
Il segnale della radio è disturbato, poco ma si sente.
Ora non si sente più.
Si sentono chiaramente invece le fitte nello stomaco, adesso difficile nascondersi.
Anche stavolta notte.
Una notte come tutte le altre, se non fosse per quelle palpebre che stavolta non pesano, non si chiudono, distratte da quelle maledette fitte che non ne vogliono sapere di starsene a bada, di lasciarlo dormire, di lasciarlo rischiare.
Le mani sul volante, piantate.
Ogni tanto qualche spasmo al gomito, contrazioni nervose, spontanee, fosse anche solo per ricordare al viso e alle mani che, per quanto sembri strano, ancora esiste qualcosa che li collega, che li tiene insieme, senza fare caso alla loro rigidità.
Le mani sul volante, gli occhi sulla strada, in testa l’idea di una sigaretta, di nuovo.
La strada di casa, anche stanotte tarda notte.
Uno è stato fuori tutto il giorno, non è riuscito nemmeno a dare un morso a un panino. Non che senta particolarmente fame, ma è ossessionato dalle fitte, così come da tutto ciò che appare più testardo di lui.
E sembra quasi che siano loro a disturbare la radio, proprio quelle fitte.
Ci sta pensando già da un po’, adesso praticamente non ha più dubbi: in effetti niente potrebbe essere più logico in questo momento, e si deve ricorrere a questo tipo di pensiero quando si è inchiodati su un sedile, soli con l’asfalto e una radio. La colpa dev’essere di qualcuno, e stavolta è delle fitte: sono loro che non gli fanno sentire niente, è quella strana fame nervosa che lo distrae, lo blocca.
Un gioco con se stessi, niente di più.
Un virus, uno straccio di interferenza, un’altra realtà a braccetto con la prima.
Tanto per rendere interessante anche le abitudini più monotone, e dare meno importanza ai problemi.
Anzi, i problemi non è proprio necessario ricordarseli affatto, né tantomeno ha senso cercare delle soluzioni, e Uno adesso è convinto che non gli serva altro, lo sa senza nemmeno pensarci.
Mani sul volante, occhi sulla strada, la radio a tratti ricomincia a disturbarsi, le fitte ritornano, più forti di prima, quel pensiero forse non basta, prova a resistere ma non basta, mani sul volante, occhi sulla strada, la voce alla radio è diventata ormai un gorgoglio misterioso e incomprensibile, ancora fitte, fitte nervose, nervi sensibili, senso d’impotenza: la voce praticamente non esiste più.
La macchina si ferma.
Verde, riparte, mani sul volante, occhi sulla strada.
Si fruga nella tasca, ritrova l’idea della sigaretta.
Manca l’accendino, ancora fitte, è caduto sotto il sedile sicuramente, di nuovo le fitte, di nuovo i nervi.
Una mano sul volante, la sigaretta spenta, la radio non esiste più, d’accordo.
Uno si rassegna distrattamente.
Vuole sentire cosa dirà dopo il tizio della radio: ormai si è convinto di volerlo sapere, e a questo punto pare non ci siano altre possibilità, deve farsene una ragione. Deve fermare le fitte, per sentire cosa dirà dopo.
Non è perfettamente sicuro che gliene freghi effettivamente qualcosa, però ormai se ne è convinto: il gioco di stasera ha deciso così, quindi nel dubbio vuole sentire, lo sa senza nemmeno pensarci.
Manca poco a casa, una mezza dozzina di curve.
Ma prima deve vincere il gioco: freccia, piede sicuro sul pedale, ancora pochi metri.
La macchina si ferma.
Intorno, il piazzale della stazione.
L’auto accostata accanto alla fila dei taxi, poco più avanti un’auto nera, vuota.
Ancora più avanti un finestrino socchiuso a interrompere una lamiera grigia.
Niente di particolare.
Uno scende dall’auto: ormai, distrattamente, si è rassegnato.
Senza pensarci, si è rassegnato al menù fisso della stazione.
Alla stazione vivono i tramezzini, in un rapporto del tutto particolare con i loro interlocutori.
Uno non li sopporta, come tutti. Li trova inconsistenti, mollicci, come tutti, ma non ha altra scelta: non ha niente di pronto a casa, non vuole mettersi a cucinare e, soprattutto, vuole tornare a sentire la radio.
Uno chiude la macchina, ancora deve riabituare gli occhi a non seguire più le linee bianche in terra e i muscoli delle gambe a non aspettare i comodi delle mani e del volante per curvare. Poca attenzione, giusto l’accenno di una diffidenza particolare verso quell’ambiente, anch’essa parte del gioco di questa sera.
Alza lo sguardo, a fatica prende la mira.
Il portone spalancato comunque non basta per fargli notare la sagoma di un tizio, seduto su una panchina nella sala d’aspetto, subito accanto a lui, nascosto dalla visuale precedente. Non ci fa caso, arriva ai binari, qualche gradino ed ecco la macchinetta. Ripensa a tutte le mattine che quei gradini li ha fatti di corsa, contando i secondi per prendere il treno e andare a scuola: aveva calcolato che il treno delle 06:47 arrivava sempre tra il quindicesimo e il quarantacinquesimo secondo del quarantasettesimo minuto delle sei, l’unico treno sempre perfettamente puntuale, l’angoscia di tutte le 06:45 della sua vita.
Gli occhi tornano alla macchinetta, le dita frenetiche sulla moneta. La guarda, prova a inserirla ma la fessura non la prende, sembra incastrato il meccanismo. Riprova, e ancora, niente.
Dai, non è possibile, proprio oggi deve smettere di funzionare.
Si sente minacciato dal gioco, non vuole perdere, accende gli occhi un momento, guarda meglio il display della macchinetta. È diverso dal solito. Sfondo verde, luce chiara, scritte blu.
Qualcosa di strano.
Solo qualche momento per capire che sono rimaste attive le impostazioni del tecnico, il menù di servizio.
Solo qualche altro secondo per leggere tra le opzioni la voce “prova motori”.
Nient’altro.
Nient’altro per spalancarsi, ferro e fuoco nelle vene, un sapore di vendetta nitido sulla lingua.
Legge di nuovo, per sicurezza. “Prova motori”. Non si è sbagliato, è vero.
Proprio adesso, proprio lì, l’occasione perfetta.
Un errore del sistema, tutto per lui, proprio per lui, legge ancora, scorre le dita sullo schermo, ma ormai ha capito, ha trovato una falla.
Ferro e fuoco nelle vene, si guarda intorno, si sforza di non mostrare l’eccitazione all’esterno.
Si butta di nuovo sul display, legge di nuovo, prova motori, tasto verde.
Numero del motore, facciamo quello del tramezzino, tasto verde.
Ferro e fuoco nelle vene, vede la molla girarsi, funziona, solo qualche secondo e sente il tramezzino sbattere sul fondo della macchinetta, come ispirato da un profondo fascino femminile, ammiccante. Funziona, senza monete, con la prova motori del tecnico.
Ha trovato il modo, tutto gratis, la falla del sistema, l’ha trovata lui ed è lì che lo aspetta, che lo chiama, e sembra lo chiami da sempre, che chiami solo lui.
Di nuovo, ancora: prova motori, tasto verde.
Numero motore, proviamo qualcosa da bere, facciamo the al limone, tasto verde e sbatte sul fondo, con un rumore sordo stavolta, stroncato dal tramezzino di prima, ma sempre, inspiegabilmente, eccitante come non mai.
Funziona, ancora.
Adesso non ci sono più dubbi, stavolta i fili li tira lui, è lui che può provare i motori, metti caso non funzionino, bisogna provare, proviamoli subito, uno per uno, proviamoli tutti, stavolta i fili ce li ha lui, nelle quinte ci sta lui, è lui che stende i rapporti, firma i registri, fa le prove, i test, la manutenzione, i controlli e le verifiche. Non ha più dubbi, stavolta è così.
Adesso è lui il sistema.
Uno sente la vendetta, la tiene per mano.
La sente accarezzarlo lungo i fianchi, salire fino al collo, sfiorargli i capelli e tornare giù.
Uno sa di avere l’occasione di rifarsi per tutti i torti subiti, di vendicarsi per ogni treno in ritardo, ogni treno soppresso la sera tardi che l’obbligava a dormire sperduto in chissà quale stazione a giro per il mondo, ogni disagio, ogni centesimo in più sul biglietto, per tutti quei panini schifosi pagati a prezzo di gourmeterie, per tutte le angosce, le esasperazioni, le disperazioni, la noia, la stanchezza, la fatica di anni e anni di viaggi interminabili buttato dentro un vagone, con l’unica consolazione che sapevano vendergli le macchinette puttane di quei ladri approfittatori.
Adesso quegli stessi che avevano riso di lui, tutte quelle merendine che avevano riso di lui, tutti i binari, i gradini, le linee gialle, i vigilanti dalle telecamere che godevano a giocare coi suoi nervi, tutti loro adesso stavano per perdere, era lui che avrebbe riso, sghignazzato, con i fili adesso stretti nelle sue mani. Stritolati, così come tutti i ricordi degli anni precedenti, che adesso, in un attimo, si dissolvevano: tutti quei nemici, tutti via, ribaltati dal loro stesso sistema che ora, per qualche motivo, senza nemmeno pensarci, li rinnegava.
Le fitte iniziano a scomparire, e al loro posto subentra un appetito malefico, insidioso, che non ci mette molto ad evolvere in una fame feroce, una necessità vorace. Le fitte non le sente più, avanti senza pensarci: ora non servono più, non se le ricorda nemmeno e probabilmente non ci sono mai state.
Ancora, un’altra volta ancora. Tasto verde, tramezzino cotto e funghi, tasto verde, radicchio e prosciutto praga, tasto verde, forse tonno e uova, poi ancora cotto e funghi, tasto verde, bottiglietta d’acqua, tasto verde, barretta di cioccolato bianco, tasto verde, merendina ripiena al cioccolato, tasto verde, e così via, ancora tramezzini, tasto verde.
La cassetta sul fondo della macchinetta è piena, non ci sta più niente. Ancora non ha tirato fuori niente.
Si guarda intorno, ancora una volta.
Farà ridere vedere uno che si porta via tutta quella roba, ma pazienza, che ci vuoi fare? Non c’è nessuno, se trova qualcuno di là farà finta di niente, che ci vuoi fare? Mal di poco, non c’è nessuno, magari qualche telecamera ma che vuoi che sia, al massimo si faranno due risate quelli della stazione, che ci vuoi fare? Ancora nessuno, solo qualche voce in lontananza di un gruppetto di ragazzi. Adesso è perfetto.
Tira fuori i primi tramezzini, li appoggia per prendere il resto della sua refurtiva. Un po’impacciato, in ginocchio per terra, prende dalla tasca dei pantaloni le chiavi della macchina, si infila l’anello del portachiavi nell’indice destro, per averle subito a portata, si carica tutta la roba in braccio, ancora un’occhiata prima di alzarsi, senza farsi notare, poi sicuro, in piedi, via a passo deciso, come di marcia militare, verso la macchina. Passa di nuovo accanto all’uomo, seduto sulla panchina nella sala d’aspetto: stavolta nota la sua felpa rossa e la testa calva, ma poco importa. Dritto verso la macchina, lì davanti a lui. Ancora la macchina nera, vuota, e poco più avanti il finestrino socchiuso di quella grigia, ma chiunque sia non può vederlo, e al massimo si farà una risata pure lui, pazienza.
Dritto in macchina, lascia cadere tutto nel sedile del passeggero, accanto al suo; il tempo di salire, mettere in moto, lanciare un’ultima occhiata di sfida, ora che può permetterselo, al finestrino socchiuso, poi la prima curva a sinistra e girato l’angolo scompare da tutti e per tutti, nessuno può più farci niente.
Stavolta è finita bene per lui, alla faccia vostra; eccolo, un posto libero tra un’auto e un cassonetto.
Si ferma e accende la radio.
Stavolta è finita bene per lui, alla faccia vostra, ricordatevelo.
Regola il volume, adesso sente forte e chiaro. Il tizio della radio ricomincia a blaterare ininterrottamente: ora sa quello che avrebbe detto dopo, questo è l’importante, per il resto pazienza, che blateri, adesso gli interessa molto poco. Adesso non è il momento per il gioco, solo il tempo del riscatto.
Si scaraventa sulla confezione del tramezzino e, giusto in tempo, subito dopo aver tolto tutto l’incartamento, ne strappa metà con un solo morso. Si riempie completamente la bocca, quasi ad affogare, la voce alla radio diventa immediatamente più ovattata, quasi seppellita dai rumori scomposti del masticamento. Non basta, altro morso: il sapore della maionese si libera dai due freschi strati di pane, all’interno della bocca sfiancata e ruminante; solo adesso riesce ad accorgersi dell’odore che gli sta riempiendo le narici fin da quando ha rotto la prima plastica. Il prosciutto tenero insieme a un forte sapore di funghi e strutto, e poi ancora maionese, per far scivolare tutto nell’amalgama di quel composto armonioso, un impasto gommoso dal quale si sente avvolto, rinfrancato, coccolato, stuzzicato e consolato, praticamente redento, mentre gli occhi si socchiudono per un istante, per lasciare subito spazio al terzo morso, quello definitivo, fatale per quel che restava del tramezzino, ormai massacrato. Ancora qualche colpo coi denti, poi la lingua, a ripulire tutto, insieme alla sua ultima saliva ancora aggrappata alle gengive, l’ultimo ricordo di quella tenera poesia della notte.
Uno non se l’aspettava, ma si rende conto solo adesso di aver riscoperto una sensazione antica, un piacere del tutto segreto e personale, un godimento intimo, nascosto, irraggiungibile e indecifrabile per chi non ne riuscisse a identificare gli ingredienti misteriosi, le coordinate esatte, e lui è l’unico a conoscerle.
L’unico al mondo, proprio stasera.
Non ricordava fossero così buoni quei tramezzini: certo, non sarà proprio esattamente la cena più raccomandata dalle migliori cucine francesi o dalle guide ufficiali di chissà quale gambero strano, ma niente al mondo gli avrebbe dato più sfizio, più soddisfazione di quel tramezzino, e lì dove prima schifava l’inconsistenza e la mollicciosità, adesso riconosce solo morbidezza, scioglievolezza, tenerezza, e quasi pentito della sua irruenza e voracità iniziale, si rivede come in una sorta di vendicatore raffinato, illuminato, elegante.
E di certo sa che non può finire così.
L’occasione è unica, irripetibile: la macchinetta è ancora piena e lui ha preso solo un po’ di tramezzini, di cui uno è già andato, e poco altro. Non può andare a casa adesso, quando ti ricapita un’occasione simile, una fortuna del genere. Senza nemmeno pensarci sente ancora quell’impasto sotto la lingua, inspiegabilmente molto più appetitoso di quanto non ricordasse. Si meraviglia di come abbia fatto a non apprezzarlo mai prima d’ora, forse sarebbe bastato per alleviare il peso dello stress durante i suoi viaggi in treno, sicuramente l’avrebbero aiutato, ma lui non si è mai soffermato ad apprezzare, sempre stato schiavo, rinchiuso nei pregiudizi. Adesso però sa cosa si è perso in tutti questi anni, adesso se ne rende conto. E a che prezzo? Gratis: adesso comincia a pensarci, l’ha avuto gratis. E può averne ancora. Un piacere senza prezzo, come è giusto che sia, senza soldi, una conquista, solo per lui.
Davvero, a che prezzo?
Magari giusto l’imbarazzo iniziale di farsi vedere con tutta quella roba in braccio, di sicuro non molto piacevole, ma adesso che importa. Chi l’ha visto? Chi poteva prenderlo in giro? Quel tipo con la felpa rossa? Ma figurati se si mette a dire qualcosa, come minimo lui era lì a pensare che fosse Uno a prenderlo in giro per quella buffa testa pelata che spuntava dal colletto. Anche se magari si sarebbe messo il cappuccio se avesse avuto paura di esser preso in giro. E comunque pazienza, a lui cosa gliene frega di uno che passa con dei tramezzini, voglio dire, avrà i suoi problemi senza dover pensare agli altri. Nessuno l’ha visto, di certo non quel finestrino socchiuso, e comunque al massimo si saranno fatti una risata. Sicuramente le telecamere, ecco; ma voglio dire, perché dovrebbe interessargli, mica sono delle Ferrovie le macchinette, né di certo dello Stato, al massimo una risata. Forse però magari la ditta che si ritrova la macchinetta svuotata fa una denuncia e poi controllano le telecamere, ma siamo addirittura a questi livelli? Difficile, senz’altro molto difficile, al massimo una risata, molto più plausibile, figurati a chi è che gliene frega qualcosa di quei tramezzini, sanno assai loro, dicono che sono mollicci e inconsistenti, magari gli fa solo piacere d’essersene liberati, al massimo una risata. Ai binari non c’era nessuno, forse qualche ragazzo, ma dall’altra parte della stazione, impossibile che abbiano visto qualcosa, sanno assai loro, e sicuramente aspettare il momento giusto, aspettare prima di prendere e portare via tutto è stata la scelta migliore, è stato attento, al massimo le telecamere ma non è possibile che siamo arrivati a questi livelli, voglio dire, il bello è che la gente se ne frega, se ne frega sempre, una volta che fa comodo a lui, vuoi che non se la facciano questa stramaledetta risata? Solo un po’ d’imbarazzo, e il piccolo sforzo di fare attenzione, di guardarsi intorno: questo è l’unico prezzo.
L’unico prezzo per quel pane soffice, per quella sensazione unica al mondo di completezza, di realizzazione personale, nel momento in cui si inumidisce sotto la lingua e ti si scioglie in corpo, e ti fa venire quei brividini un po’ frenetici, un’insieme di soddisfazione perversa per il successo inatteso e di rilassante godimento fine a se stesso.
E l’occasione è unica, irripetibile.
Deve ritornare, deve farlo per forza, la situazione è troppo invitante per una sola manciata di tramezzini.
Mette in moto, adesso senza nemmeno pensarci, di nuovo la radio.
Giro dell’isolato e torna nel piazzale della stazione.
Di nuovo, l’auto accostata accanto alla fila dei taxi, poco più avanti l’altra auto nera, vuota.
Ancora più avanti il finestrino socchiuso spunta dalla lamiera grigia.
Ancora niente di particolare, che vuoi che ci sia di particolare?
Il collo punta verso il portone della sala d’aspetto, deve attraversarla, come prima, senza problemi.
Così, en passant.
Gli altri tramezzini ancora sul sedile, li nasconde alla strada come può.
Scende, chiude l’auto, passo sicuro.
Ricordati: nonchalance, nessun problema.
Sala d’aspetto, ancora il tipo con la felpa rossa, ancora appoggiato coi gomiti sulle ginocchia, testa bassa a far risplendere la specchiatura del cranio: adesso si notano le cuffie piantate nelle orecchie, prima non ci aveva fatto caso.
Pazienza, dritto verso i binari.
Stavolta ci sono due ragazzi, forse quelli che sentiva prima in lontananza.
Sono seduti, sulla panchina, al secondo binario. Due interi binari di distanza, non molto ma ormai non può tornare indietro, ha già superato il cranio e la felpa, non può tornare indietro. I due ragazzi l’hanno visto, non può girarsi da un momento all’altro e tornare indietro, né ci sono altri posti dove possa esser credibile che volesse andare, a quest’ora di notte, quando i treni non ci sono, in una stazione deserta di periferia.
Arriva alla macchinetta, così, en passant.
Ricordati: nonchalance totale, nessun problema davvero, che vuoi che gliene freghi?
Si avvicina allo schermo, ormai conosce bene la procedura.
Si sente mille sguardi addosso, quattro occhi che bruciano come centinaia di spilli sulla schiena.
In più le telecamere, ma pazienza.
Cerca di non farsi vedere esperto, fa finta di riflettere sull’acquisto, ma sa già benissimo cosa vuole prendere. Ci sono ancora due file intere di tramezzini, più una terza a metà.
Cerca di coprirsi le dita con il corpo: segretamente, prova motori, tasto verde.
Gli spilli aumentano, sembrano qualche migliaio adesso.
Motore 22, tasto verde.
La molla comincia a girarsi, vede il tramezzino sporgersi sempre di più, scivolare sicuro fino a quel suono metallico, mortale, quando cade sul fondo. Adesso, d colpo, gli spilli gli pungolano la schiena con una forza insopportabile. Non prova vergogna, solo un certo tipo di imbarazzo, deve riuscire a dimostrarsi sicuro, deve dimostrare di essere quello furbo, il maschio alfa della stazione, che se ne frega di quei due e che alla faccia loro si gode i frutti della sua intelligenza superiore, della sua bravura.
È un gioco, ancora.
Adesso è cambiato, ma sempre un gioco: un’altra realtà, ma importante quanto e forse più della prima.
Ancora, prova motori, tasto verde, bottiglia d’acqua, tasto verde.
L’acqua non la voleva, la prende perché adesso, senza nemmeno pensarci, gli sembra giusto far sembrare tutto più credibile, quindi se prende da mangiare deve prendere anche qualcosa da bere. Una copertura, una falsa pista per sviare tutti i suoi nemici.
Gli spilli continuano, ormai difficile nascondersi.
Tutti contro la sua schiena.
Lo sguardo gli cade poco sulla destra del suo schermo rassicurante, e dietro la macchinetta, poco più lontano dai binari, vede un uomo. Un uomo dormire per terra, appoggiato in un angolo tra il muro e una cabina di quella per le fotografie, dove evidentemente alla buona era riuscito a trovare riparo.
Un barbone, evidentemente.
Uno vede l’Uomo, e senza nemmeno pensarci vede scorrere nella testa una tempesta di immagini gloriose, una furia di eroismo e generosità che sarebbe giusto trasformassero la sua fortuna miracolosa, il suo piacere intimo e segreto di stasera, in un altissimo destino rivoluzionario, di cui essere protagonista, benefattore magnanimo e orgoglioso, inamovibile protettore dei poveri, paladino degli oppressi e degli sfruttati.
Lo sguardo torna alla macchinetta, vuole prendere qualcosa da mangiare e da bere da lasciargli. Per qualche motivo non pensa a quel che ha già preso, all’acqua e al tramezzino già sul fondo del distributore, ma torna a cercare altro, forse qualcosa di più, forse qualcosa di meglio.
Cerca di capire cosa deve fare, adesso gli spilli tornano con una forza mostruosa, mai così insostenibile prima d’ora. Cerca di capire cosa deve fare, sente la schiena incendiarsi, sente il silenzio di quegli sguardi sfondargli i timpani, premere insistentemente contro il suo cervello, e tutto deve risolversi adesso, in pochi secondi, per mantenere i giusti ritmi, per mantenere credibile la situazione, per farla sembrare spontanea, improvvisata, per nascondere ai suoi nemici tutti i suoi piani, tutto ciò che gli passa per la testa, e che deve tenere a bada per risolvere tutto in pochi secondi. Senza nemmeno pensarci, improvvisamente gli torna in mente un episodio, la storia di una volta, sempre in una stazione, in un’altra stazione, quando aveva offerto del vino in cartone a un altro barbone, che offeso dal gesto era andato via risentito, guardandolo male e lasciandolo impietrito sui suoi passi, con quel cartone di vino in mano, subito dopo averlo informato che lui non beveva vino, che non era alcolizzato: come aveva potuto pensare a un’ingenuità, a una stronzata del genere? Che leggerezza, che stupidità. L’aveva offeso, ovviamente era in buona fede ma gli aveva dato dell’alcolizzato, del povero straccione alcolizzato, l’aveva offeso nella sua dignità inattaccabile: com’era stato stupido. E adesso, senza nemmeno pensarci, se ne vergogna di nuovo, per quella scena orribile del passato.
E non vuole ricaderci, non vuole fare lo stesso, stupido, errore schifoso e insopportabile.
Forse potrebbe semplicemente svegliarlo e dirgli che la macchinetta stasera non prende soldi, che può prenderci tutto quello che vuole, magari basta spiegargli come fare e farà da solo, probabilmente sarebbe infinita la soddisfazione di vederlo felice, però se poi invece si offende di nuovo? Magari, visto che sta tutto il giorno a chiedere spiccioli, vuole prendersi da mangiare con quelli, magari non vuole essere aiutato, magari a lui non sembra proprio che io sia nella posizione di aiutarlo, di aiutare nessuno, anzi magari è lui che deve aiutare me, che deve aiutarmi a recuperare un po’ di dignità, di attenzione, di presenza nelle cose. Non sa decidere, ma deve farlo. Ancora pochi altri secondi, ne ha già bruciati tre o quattro per non arrivare a niente. Con la massima attenzione, grazie a impercettibili movimenti del collo, cerca di guardarsi intorno, tira occhiate a destra e poi a sinistra, non c’è ancora nessuno, oltre a quei quattro occhi piantati dietro, quasi come se si divertissero con l’accendino a stuzzicarlo e bruciacchiarlo da dietro, con lui di spalle, da veri vigliacchi.
All’improvviso delle voci, accompagnate da rumore di passi, dalla sala d’aspetto. Forse era solo qualche altro annoiato nottambulo, o forse era arrivato qualche ferroviere, o magari qualche poliziotto, o peggio ancora il tecnico, che magari si era ricordato ed era tornato indietro per rimediare al danno.
Non c’è tempo, prende la sua roba: un’ultima occhiata all’Uomo, ancora addormentato appoggiato al suo angolo, e si volta. Vede i due ragazzi distratti, sovrappensiero, che probabilmente a malapena avevano fatto caso alla sua presenza, alla sua schiena, alla sua prova motori. Pazienza, adesso deve chiarire la situazione, risolvere il problema, poi tornerà a pensare al resto. Dritto verso l’uscita, quasi al portone e spuntano due uomini, due uomini qualunque, di una quarantina d’anni, insignificanti.
Non può voltarsi e tornare indietro, non sarebbe credibile, sarebbe una cosa da stupidi, soprattutto perché l’hanno già visto col tramezzino in mano, non può tornare di nuovo alle macchinette, non avrebbe senso, e poi ci sono i ragazzi, che magari sembravano sovrappensiero ma vai a sapere: lui gli spilli li sentiva bene, conficcati nelle vertebre, adesso non può farsi rivedere un’altra volta, in ogni caso darebbe nell’occhio molto più di prima, lo avevano già visto e non era credibile che tornasse.
Ormai alla macchina.
Entra, lascia cadere tutto sul sedile, insieme al resto, recupera il suo borsone del calcio, lo svuota da scarpe, maglietta e pantaloncini e comincia a riempirlo dei tramezzini e del resto del suo bottino.
Di nuovo: mette in moto, il tempo di lanciare un’ultima occhiata di sfida, ora che può permetterselo, al finestrino socchiuso, poi la prima curva a sinistra e girato l’angolo scompare da tutti e per tutti.
Dietro al cassonetto, ancora il posto libero, il suo.
Si ferma e di nuovo la radio.
Regola il volume, ancora nella testa quel che è appena successo. Sente forte e chiaro, e ci sarà il tempo per rimediare a tutto. Il tizio ancora lì al microfono che blatera; ancora non è finita, nessun problema.
Non può essere finita, perché non ha preso quasi niente e adesso, ancora una volta, si sente stupido. Si sente un ingenuo, perché anche stavolta come per il vino non è riuscito a comportarsi nel modo migliore, non è riuscito ad uscirne soddisfatto, non ha saputo decidere per il meglio, anzi non è stato in grado di decidere proprio niente, anche stavolta, non ha deciso. Si sente vigliacco, altro che maschio alfa della stazione, non è riuscito a pensare velocemente, non si è riuscito a dare delle risposte, e la conclusione è che non ha dato proprio un bel niente a quell’Uomo, non l’ha aiutato in nessun modo, non è riuscito a ricamarsi quel destino rivoluzionario di benefattore, che almeno per stanotte l’avrebbe fatto andare a letto sereno e compiaciuto. In più non è riuscito a riprendere che un solo tramezzino, e di certo non può pensare di aver sfruttato al massimo l’occasione unica, irripetibile. Non ci siamo, e poi per esempio, poteva essere utile prendere quei tramezzini anche per sua nonna, a casa, con mezzo dente sano, che sicuramente avrebbe apprezzato quelle fette di pane così morbide, così tenere, invitanti, fantastiche.
E a forza di assaporarsele in bocca, senza nemmeno pensarci, quelle fette di pane prendono il sopravvento. Gradualmente ogni pensiero, ogni sua ulteriore paranoia si affievolisce, diventa sempre più molliccia e inconsistente, perde il passo di fronte a quel pensiero, unico e irresistibile, di quel tramezzino, così vicino a lui, a distanza di pochi centimetri, mentre ancora una volta stava rischiando di farsi distrarre dal turbinio del suo cervello, e di sottovalutare ancora, con la sua solita orribile ingiustizia, il fascino di quella tenerezza.
Adesso basta.
Adesso è il suo momento, il tempo del suo godimento: il resto poi si vedrà, adesso è lontano da qualsiasi critica, da qualsiasi sfida, da qualsiasi impegno, rinchiuso in terra franca, nelle sue questioni private, nel suo, personale, giardino segreto.
Una mano ancora sul bottone della radio e, senza nemmeno pensarci, l’altra scivola di fianco, come a sfiorare la carne di una giovane donna bollente d’amore; si porta dolce e sicura, strabordante di un’inconfondibile carica sessuale, ad accarezzarne il bordo di quelli che si immagina come i suoi corti pantaloncini, fino a stringersi addosso al fremente interno coscia: il secondo tramezzino.
Lo stringe tra le dita, avvolge il suo guscio di plastica rigida trasparente, per un attimo si ferma a osservare il fascino di quella superficie ondulata, quelle curve perfette, ancora fresche di frigorifero: lo percepisce intorno a sé. Poi con un gesto liberatorio lo salva dalla pellicola, lo tira fuori e, reggendolo con tutto il palmo della mano se lo porta alla bocca, ancora chiusa. Ne strofina su di sé la morbidezza, chiude gli occhi e si ferma a godere di quella ruvidezza che gli sfiora le labbra, ammaliandolo, invitandolo ad alzarsi e a ballare insieme a lei, a stringersi in una danza sensuale, l’ultima della sua vita, la notte dell’addio prima di un lungo viaggio, ognuno per sé. Ogni morso è come il primo, ogni colpo di lingua è una seduzione sotto ai denti, una carezza dai due strati di pane, così soffici e accoglienti, inumiditi sapientemente dalla saliva, freddi al punto giusto da scaldargli il cuore, e ancora pronti per sciogliersi, con un trasporto da mozzare il fiato, in un maestoso abbraccio d’amore. Pochi istanti, prima di riaprire gli occhi e accorgersi di averlo finito.
Sul più bello, non ci sta.
Ne prende un altro dal borsone, solita storia: adesso torna ad apprezzarne i preliminari, le sensazioni iniziali, quell’atmosfera magica e surreale di velato mistero, mentre il senso di vendetta si appresta a lasciare il posto a un detto-non detto, un vedo-non vedo di eccitante provocazione. Sente la sua voce, la percepisce risuonare ridondante sulle tempie, rimbombare sul suo petto, chiamarlo a sé, ancora una volta. Una conquista che adesso stava per sfuggirgli di mano, per prendere in lui il sopravvento, grazie a un fascino magnetico quanto indescrivibile, un potere calamitico che lui stesso non era in grado di giustificarsi. Ne restava sorpreso, estasiato, e tornava, senza nemmeno pensarci, a chiudere gli occhi e a buttarcisi in mezzo, tornava ai godimenti del tatto, alle sensazioni nuove e peccaminose di quel suo fatale incontro con quel pane, micidiale come non mai, potente come non mai, seducente come mai niente lo era stato nella sua vita, fino a quel momento.
Nessun pensiero più tormentava la sua testa, il turbinoso vortice delle sue angosce lasciava il posto a un frenetico danzare di una tempesta di surrogati ormonali, che lo impegnavano completamente; tutto di lui ormai era fermo e concentrato in quella gara di seduzione, e ogni morso diventava una prova di forza, una gara di equilibri per l’assegnazione definitiva del ruolo forte della coppia. Di nuovo, ancora più convinto, si apprestava a disegnarsi un futuro imminente da maschio alfa, adesso era giustificato a ritagliarselo nella cornice delle sue passioni, e ogni morso, fino all’ultimo, restava lì a dimostrarlo.
Stavolta senza neppure consumare l’energia per chiedere agli occhi di riaprirsi, di nuovo fa scivolare la mano lungo il sedile, fino ai suoi prossimi cinque minuti di passione. Non si accorge di aver cominciato a ondulare, a muovere convulso e caotico il bacino, a spostarlo su e giù lungo il sedile, delirante. Ne apre un altro, e continua a danzare, stavolta con più decisione, ancora più trasporto e fermezza, mentre sta per conquistare il suo tanto ambito ruolo di predominanza. I baci si trasformano in morsi, la sua bocca comincia a sforzarsi, la lingua abbandona ogni compito ai denti, la mandibola sempre più affaticata dai masticamenti risoluti, ogni morso si fa più profondo, più incisivo, comincia a sentire i muscoli del collo sporgersi sempre di più, ritorna l’impasto sul palato, inizia a percepire chiaramente la tensione sui nervi, sente il pane intimorirsi, tremare; senza nemmeno pensarci i movimenti del bacino si fanno sempre più intensi e forsennati, mentre le sue vene iniziano a gonfiarsi, a pulsare ritmate come tamburi, e così ancora, ancora un altro tramezzino, sempre con più voracità, e poi il suo sesto tramezzino. Lo stomaco comincia a lanciare qualche timido segnale, ma a lui non interessa, e ricomincia a danzare, su e giù col bacino, su e giù con la mano, dalla bocca al sedile, fino al settimo. Ormai ha perso la testa per quella tenerezza, quella falsa innocenza: lo fa sentire potente, lo fa sentire uomo, maschio, il maschio alfa, è finalmente arrivato, non ci sono più dubbi, arrivato insieme alle prime fitte nello stomaco. I morsi si fanno spaventosi, con gli occhi chiusi continua a sbranare la sua preda, a colpirla, sempre più forte, e i morsi diventano ferite, sente il sangue scorrere lungo la giugulare, mentre il collo si gonfia, le fitte crescono, i nervi si strappano e le vene, adesso le sente scoppiare, a ogni morso esplodere in un bagno di sangue senza precedenti. Su e giù il bacino, adesso vibra tutta la macchina, ma non riesce a sentire quei cigolii, forti come urla, provenire dalla carrozzeria e dai binari del sedile. Su e giù col bacino, le fitte in pochi istanti sono diventate insostenibili e i movimenti si fanno sempre più scomposti: adesso nella foga dà un colpo col clacson e la sua bocca si piega in un sorrisetto beffardo, provocatore. Su e giù il bacino, e poi su e giù con la mano, verso il suo ottavo tramezzino: lo agguanta, stavolta lo apre e butta fuori dal finestrino riempimenti e condimenti, per cercare di accontentare il più possibile quelle maledette fitte, come a pregarle di lasciarlo continuare, di lasciarlo finire, di lasciarlo venire.
Si porta di nuovo alla bocca la fetta del pane, comincia a leccarla sul lato interno, e ormai si rende conto di aver perso la testa completamente, di esser arrivato all’impazzimento totale per quell’estasi multisensoriale. Continua a leccare i due sottomessi strati di pane e si diverte a succhiarne le chiazze umide lasciate dal ripieno, come per fargli un solletico cattivo, finale, prima di lasciarsi andare del tutto e senza troppi problemi a sbranare entrambe le fette in un solo morso, l’ultimo, definitivo, liberatorio.
E ora è pace.
Apre gli occhi.
Si pulisce come può, riabitua gli occhi a quella poca luce, le orecchie a quel silenzio dannato.
Senza nemmeno pensarci, solo ora si rende conto a pieno di quelle fitte nello stomaco, che in tutta evidenza avevano preso troppo sul serio quel gesto irrispettoso, quel tramezzino svuotato dal finestrino, e anche se le sue preghiere erano state esaudite, adesso doveva pagarne lo scotto.
Il dolore lancinante, la testa stordita, e la danza ormai assopita.
Con un tremendo crescendo d’intensità, tornano alla testa i pensieri, le angosce, i problemi. Adesso al senso di colpa ha aggiunto nuovo senso di colpa: se prima si lamentava di aver approfittato poco dell’occasione unica e irripetibile, adesso aggiunge di aver sterminato tutte le sue provviste in una sola serata. Se prima si lamentava di non esser riuscito a prendere una decisione su come comportarsi riguardo all’Uomo sofferente spiaccicato nell’angolo tra il muro e la cabina per le fototessere, adesso mette insieme al rimorso, per non aver alleviato il suo dolore, la vergogna per il suo godimento appena concluso.
Tutto alla mente, in pochi istanti, tutto è ritornato.
Neanche a dirlo, scomparsa insieme all’ultimo, adorabile, strato di pane anche tutta la bella storia del maschio alfa, della conquista, della preda e così via. Restano solo i sensi di colpa, che adesso tornano a galla e spingono, insieme alle fitte, sempre più forti contro il suo ventre.
Improvvisamente tutto è crollato, e lui diventa inadeguato, inconsistente, molliccio.
Non è possibile che faccia sempre la scelta sbagliata, che alla fine la vita finisca sempre per ricordargli quanto sia una nullità, non ha senso, anche stasera che aveva quell’occasione, unica e irripetibile, miracolosa; anche stasera che sembrava fosse girata la fortuna, fosse arrivato al suo piano l’ascensore e che si preparasse a venire trasportato sul gradino più alto del podio. Non è possibile che arrivi sempre quel momento in cui crolla tutto, senza spiegazioni, da un momento all’altro, senza preavviso.
Stavolta non ha senso davvero, non è possibile proprio. Dev’essere nella sua testa il problema, sicuramente è nella sua testa, perché oggi ogni segnale era positivo, ogni frase limata al punto giusto, ogni millimetro era quello giusto dove posare la punta del piede.
Basta, non è possibile, deve rimediare.
Deve farlo subito.
Deve tornare.
Deve tornare subito.
Tanto non l’ha visto nessuno prima, probabilmente adesso non ci sarà più nessuno, e comunque sarà sufficiente aspettare il momento giusto, l’occasione unica e irripetibile per entrare, prendere tutto quello che riesce a prendere, risolvere in qualche modo la vita di quell’Uomo, almeno per stasera e forse per domani, e uscire, trionfante, straripante di orgoglio, tramezzini e buone intenzioni, per sé e per i denti della nonna. Non lo vedrà nessuno, nessuno ci farà caso: forse le telecamere, forse lo troveranno, ma non importa, se ne deve convincere, e poi comunque al massimo una risata è la conseguenza più credibile.
Deve farlo, adesso, e mette in moto.
Il giro dell’isolato e si trova di nuovo nel piazzale della stazione, ancora una volta.
Di nuovo la macchina accostata alla fila dei taxi, di nuovo l’auto nera poco più avanti, di nuovo il finestrino socchiuso nella macchina grigia.
Freno a mano, luci spente insieme alla radio.
Il collo ritorna all’antico splendore, ricomincia a danzare su se stesso, inquadrando ogni minimo particolare, ogni zanzara, ogni millimetro di quel piazzale bastardo, un fottuto campo minato del cazzo.
Passa in rassegna ogni angolo, le auto in sosta più lontane, le insegne dei bar e le luci dei lampioni, cercando sempre di memorizzare le posizioni delle telecamere, di mettere a punto un piano d’azione il più efficace possibile, un piano perfetto, nonostante le fitte.
Ancora in auto, la mano sinistra sulla leva dello sportello.
Adesso potrebbe essere il momento, non c’è nessuno, ancora le fitte, la mano comincia a fare forza sulla leva, aspetta ancora, si guarda ancora intorno: solo qualche passante in lontananza. Potrebbe essere l’occasione, la mano comincia a sudare sulla leva, in tensione. Sente la pelle del collo tirargli, lamentarsi, ma non se ne interessa, non si interessa neppure di quelle fitte, sempre più costanti e maledette, continua a scrutare qualsiasi movimento, qualsiasi anomalia, qualsiasi potenziale nemico, e senza nemmeno pensarci, in testa tornano le immagini dei due ragazzi seduti al binario, e ancora fitte, del tipo con la felpa rossa e il cranio abbandonato sulle ginocchia, e poi ancora fitte, e ancora fuori, lampioni, auto in sosta; nel parcheggio le linee bianche cominciano a mescolarsi con le linee gialle dei binari, tutto diventa sempre più offuscato, mentre le fitte adesso cominciano a diventare qualcos’altro, qualcosa di più stringente, mozzandogli il fiato. Ancora un’ultima occhiata sul piazzale, poi dall’inquadratura di una telecamera un’occhiata al cielo, sempre più luminoso. Sta per fare giorno, entra nel panico, comincia a sudare lungo tutto il corpo, e senza nemmeno pensarci torna in mente l’immagine di quelle fette di pane, inumidite dal ripieno, e le fitte si trasformano in nausea, una nausea rabbiosa e viscerale. I passanti in lontananza si fanno sempre più vicini, adesso ne riconosce la sagoma, capisce in che direzione stiano camminando, e si rende conto che stanno venendo verso di lui, senza porsi domande, inspiegabilmente loro non lo fanno, procedono dritte, sicure, verso di lui. Ancora panico, sente la nausea piantare le radici dentro il suo corpo, i passanti si avvicinano e insieme sente distintamente l’avanzare delle radici, che si allungano, ridacchiando, verso il suo ventre.
La mano sudata esplode, tira con tutta la forza la leva dello sportello, quasi a volerla staccare.
Uno non ha tempo per replicare, viene preso alla sprovvista, e adesso non ha altra scelta: si catapulta nella strada, ancora qualche schizzo col collo fino alla giusta immagine del portone, ancora spalancato. Prende la mira e adesso il suo passo debole e confuso gli risuona in corpo come la più disperata delle corse contro il tempo: sala d’aspetto, ancora l’uomo con la felpa rossa, con il cranio specchiato spiccato dal colletto, piegato in avanti con le cuffie ancora lì incastrate nelle orecchie, ma non c’è tempo. Pochi istanti e si ritrova sui binari, e per un attimo cade vittima di una catena convulsa di impercettibili spasmi muscolari, al collo e alle gambe. Lo spazio così ampio, la visuale che gli sembra infinita, lo stordiscono per un momento. Poi il tempo di notare i due ragazzi davanti a lui, ancora sulla panchina dalla parte di là del binario, e stavolta entrambi lo osservano. Qualcosa sbatte a sinistra: un ferroviere accosta la porta di un ufficio, lungo il binario, mentre un gruppetto di altri due, già avvantaggiati, si avvicina.
Uno è nel panico, la nausea e gli spasmi muscolari gli tolgono il fiato, adesso comincia a ricredersi dell’entusiasmo iniziale che l’aveva portato per la terza volta a sfidare la sorte; si appoggia alla soglia che dalla sala d’aspetto dà sui binari e comincia a passare in rassegna ogni possibile disgrazia, ogni finale atrocemente negativo: già sente nella sua testa l’eco lontana delle voci di quei due ragazzi chiamare i ferrovieri per avvisarli di quello che aveva fatto, per fare la spia, da veri vigliacchi quali sono.
La sua testa comincia a vorticare ubriaca, stordita dai colori, dalle linee, dal silenzio folgorante di tutta quella nottata maledetta e, senza nemmeno pensarci, la testa si volta verso l’Uomo, ancora sofferente buttato nell’angolo tra il muro e le fototessere.
Improvvisamente sente l’aria comprimersi, gli spasmi scompaiono dal collo e dalle gambe, e con un rapido movimento della testa vede accanto a sé l’uomo con la felpa rossa farsi stretto per passare dalla porta semioccupata. I battiti a mille, ogni centimetro del suo corpo elettrificato in concerti di pulsazioni scomposte e scoordinate. Adesso lo vede in faccia, vede in faccia quel cranio possente che l’ha quasi sfiorato, e in tutta risposta quel cranio lo ripaga con la stessa moneta, fissandolo per qualche secondo, fissando la sua faccia spaventata, la sua espressione idiota tipica di quelle che si trovano a certi orari nelle stazioni. Forse è proprio per quello che la felpa rossa se ne stanca presto, e ritorna a voltarsi per continuare verso il binario.
Uno coglie l’occasione al volo, mentre la sagoma di spalle del cranio e delle sue buffe cuffiette bianche oscura la visuale dei ragazzi: ancora l’ultima occhiata all’Uomo, senza rimpianti né vergogna ma carica di una strana incomprensibile forma d’invidia, e poi, senza nemmeno pensarci, via alla macchina, di nuovo.
Riesce a malapena a tenersi in piedi, gli spasmi e i tremiti delle gambe adesso lo distruggono quasi quanto quelle fitte nella carne, e a niente servono gli sforzi per concentrarsi a seguire le linee bianche del parcheggio, che ormai si mescolano nella sua testa, in un impasto gommoso di luci, colori, suoni, odori e sapori, uno più schifoso dell’altro.
Di nuovo rinchiuso nel suo abitacolo, lascia cadere la testa sul bordo del volante, vittima di un corpo sempre meno suo, sempre meno controllabile, sempre più stretto e inadeguato. Nessun pensiero a quello che era appena successo, nessun rimorso, neanche la forza di un senso di colpa.
Solo il silenzio e lo spegnimento.
Nessun colore, nessuna luce, nessun sapore.
Solo spasmi, ovunque. Sempre più fastidiosi e irrefrenabili, che si espandono anche alle braccia.
Con l’ultima disperata e folle energia, Uno solleva il collo e si tira un morso fortissimo all’avambraccio, proprio all’altezza dell’attaccatura interna del muscolo in preda alle convulsioni. Il dolore adesso lo dilania, ma riesce a ripagarlo della dose necessaria di sveglia per poter ripartire.
Senza nemmeno pensarci, il sapore sanguinolento del suo braccio gli restituisce l’immagine del suo godimento, di quel denso strutto ferroso che si sentiva in bocca mentre assaporava quelle fette di morbido pane malefico, quando quella tenera e simulata innocenza si inchinava preda al cospetto del suo vigore.
Cerca di isolare quella soddisfazione, e senza nemmeno pensarci gira la chiave nel quadro, prima due, poi tre volte, finché non sente accendersi il motore.
Si avvia verso casa, freno, frena, aspetta, vai, vai ora, pedale, tieni il volante, ogni tanto un’occhiata al cielo, la luce adesso quasi a giorno ma ancora macchiata dal filtro acido dell’ultima coda di luna.
Gira, gira mi raccomando, vai, così ancora, ce la fai, niente panico, tutto dritto e ci sei.
Nemmeno più si ricorda della radio.
Lungo l’ultimo viale alberato tira giù il finestrino del lato passeggero e, senza né esitare né fermarsi, per cercare di fare caso il meno possibile alle fitte nauseabonde, raccoglie dalla macchina tutti i residui del suo rapporto col tramezzino, tutte le cartacce, la plastica e i fazzoletti, e scaraventa tutto fuori, al bordo della strada, come ultima vendetta.
Poi ancora dritto, l’ultimo pezzo, gli ultimi metri, gli ultimi rigidi e abbaglianti sfarzi della mattina.
Senza nemmeno pensarci, né rendersi conto dei movimenti, raggiunge il portone di casa, adesso ce l’ha quasi fatta. Adesso che ce l’ha quasi fatta tutto diventa ancora più difficile, come fosse fatto apposta, quasi come fosse la perversione di un destino maledetto o il gioco sadico di un santo maiale.
Davanti a sé il portone, subito più in basso il mazzo di chiavi, tra le dita tremolanti. Gli spasmi adesso non gli lasciano tregua, continuano a danzare insieme alle fitte, nel trionfo di una grande festa del dolore, tutto in diretta dentro le sue viscere, come a rinfacciargli le sue di perversioni, i suoi di godimenti.
La vista cala appannata, sempre meno presente a se stessa: la testa confusa ancora più ubriacata dal concerto squillante delle chiavi, abbandonate a sbattere tra di loro quasi come in una mostruosa orgia metallica, affidata a un polso fragile e indisciplinato, incapace di porre fine a quello strazio.
Ma ora nessuna energia più per queste cose, nessuna energia per giocare col vortice del suo cervello.
Solo un incontrollabile desiderio di morte.
Una percezione sinistra sputatagli in faccia da quel dolore come di pugnale incandescente, inzuppato nel veleno, bagnato nell’acido, spalmato nella merda e poi conficcato nel ventre.
E ogni tanto qualche sprazzo di spegnimento cerebrale miscelato a una disperata rassegnazione.
Trova la chiave giusta, adesso basta.
Adesso è finita.
Basta.
Il dito evaporato fino al tasto dell’ascensore, lo chiama.
Si appoggia al muro come riesce, le sagome del corridoio continuano a mescolarsi in macchie di colori.
Attesa.
Nella mente, senza nemmeno pensarci, di nuovo gli ultimi lampi: l’orgia delle fitte, e quella delle chiavi.
Arriva l’ascensore, col solito odore fetido della moquette e quella spenta luce biancastra da obitorio: entra.
L’immagine del suo volto strinato nello specchio unto, appeso alla parete.
L’orgia delle fitte, va bene, l’orgia delle chiavi, figurati.
Ma niente a confronto dell’unica che c’è stata davvero, niente come quella: va bene, avrò perso, sarò uno schifoso fallito, quello che vi pare, però di certo voi non riuscirete mai a provare quello che ho provato io, a godere come ho goduto io, mai nelle vostre luride vite piatte, banali e insignificanti.
E di colpo il corpo, a stento controllabile, ritrova improvvisamente chiusa dentro di sé una rabbia mostruosa, che strilla per uscire: giura che non finirà così, ci vuole un bel finale, un finale che si ricordi. Giura di volersi mangiare la testa, per sentire se magari pure quella è tenera, molliccia e inconsistente, adesso l’ha giurato, ha giurato di volersi mangiare la testa, ma sa di non riuscire nemmeno in quello, sa di tornare a casa con la testa immangiata, ma giura di mangiarsela, lo giura adesso, negli gli ultimi minuti, giura di mangiarsela, chissà nell’ascensore magari, sentirla sotto ai denti, schifosa, mangiarla subito, ma sa che resterà immangiata, pure quella resterà immangiata, anche quella, lo sa, tanto ormai lo sa, vedrai resterà immangiata, alla fine immangiata, per forza: incapace di tutto, incapace anche di questo.
La nausea è pari solo alla sua rabbia, le fitte lo stanno uccidendo, niente ha più senso dentro di lui.
L’ascensore si richiude, un rumorino elettrico di caricamento preannuncia lo scatto verso l’alto della cabina, e il momento del suo arrivo è il segnale inesorabile della distruzione.
Lo scossone destabilizza anche l’ultimo equilibrio posticcio, l’ultimo ricordo della sua prospettiva di una teorica armonia, una pace credibile, una quiete plausibile, una volta raggiunto un letto, o comunque un qualsiasi posto più amichevole.
Tutto perduto, sbatte la testa in avanti, sulle macchie di unto dello specchio e, senza nemmeno pensarci, si lascia morire in un vomito nervoso, disgustoso anche solo a immaginarlo, tanto inconsistente quanto acido, freddo e appiccicoso, che prima di vederlo accasciare sulla moquette impregnata di orrore e spegnersi finalmente in un sonno profondo, gli lascia giusto il tempo per ricordare la sua fantastica serata, la sua occasione unica e irripetibile, di quella stramaledetta prova motori infame e di quanto probabilmente avrebbe preferito infilare quella sua odiosa moneta, che ancora si sente in tasca sfiorandosi i pantaloni, dentro quella fessura, senza convincersi di avere meriti particolari nell’approfittare di una botta di culo, di una disattenzione altrui, e magari sarebbe stata quella la sua penetrazione immaginaria, il suo godimento surreale, e forse non si sentirebbe così idiota, così viscido e riluttante, non si sentirebbe stupido né vigliacco, avrebbe preso il suo, pagato il suo e fine, forse alla fine sarebbe riuscito anche a offrire qualcosa a quell’Uomo, sbattuto nell’angolo tra il muro e le fototessere, o forse no, ma non importa. Di sicuro non avrebbe il rimorso di essere tornato a casa con una di quelle storie che non si possono raccontare agli amici, o che almeno vanno raccontate diverse, per non passare da stupidi, da ributtanti e volgari vigliacchi.
Ma alla fine dei conti, di certo una cosa la sa: se fosse nato giusto non sarebbe mai riuscito a perdersi nella dimensione meravigliosa in cui si può raggiungere un orgasmo scopando con un tramezzino.
E a me è venuta fame.

macchinetta bn

Per oggi no

[AVVISO DI SISTEMA. In una fotografia multisensoriale, il riflesso delle parole nelle pupille, lo scorrere delle righe col dito e il rimbombo delle vocali sulle tempie si mescolano assieme a terze parti, fornite insieme al testo: sarà bene ricordare che, per quanto inscindibili dalla compagnia originaria, anche quest’ultime godono dell’indipendenza di una vita autonoma, di un valore specifico di primaria importanza, in quanto elaborati originali dell’autore.
Avviate il lettore e consumate senza freni, nel rispetto dei ritmi stabiliti dal vostro gradimento.]

Uno era seduto.
Davanti a lui un tavolo, un bicchiere, qualcosa da fumare, qualcosa per saziarsi.
Uno era sazio.
Respirava i suoi momenti, era in pace.
Respirava il suo vino, si perdeva nella sua cenere.
Uno era sazio.
Era sazio, quando arrivarono i soldati.
Sazio, costrette le orecchie, affamate le meningi.
Affamate, ma di questo ancora non sapeva.
Uno era sazio, quando vide la galera per la prima volta.
Una cella bianca, a motore, con uno stemma giallo e incomprensibile sul fianco.
Dalla cella scese l’uomo.
Il Primo.
Il primo uomo era un uomo.
Prima di tutto un uomo.
Subito dopo era un problema.
Ma dopo.
Solo dopo.
Malandato: Primo aveva pochi capelli.
Parlava di donne.
Parlava di acciughe.
Ma salmodiava.
Con armonia nuova.
Armonia diversa, tuonante.
Un’armonia che Uno non ricordava.
Non più.
Continuava a salmodiare.
Raccolto nel neroverde di una sedia.
Rinchiuso, riempiva il vuoto della plastica.
Salmodiava e continuava.
Aveva il sangue a cantilena, e questo Uno non se lo ricordava.
Non ricordava l’armonia.
Non esiste più, sepolta nel vortice.
Rinchiusa, ben lontana dall’elastico che riordina le sue ansie.
Ma l’armonia continuava, e Uno non aveva altra scelta.
Poteva solo copiare.
Imitarlo, o almeno provarci.
Rinchiudersi.
Rinchiudersi e scrivere, di un’armonia che Uno non si ricordava.
L’uomo aveva gli occhi vivi.
Frizzanti di luce.
Il più vero come di vetro, congelato da un celeste morbido.
L’altro si strizzava verso la normalità.
Quella di tutti e di sempre.
Provava a cercarla, a farla propria, tradito di corsa dal fastidio della sua armonia.
E adesso Uno sa di non ricordarsela, di non averla mai davvero conosciuta.
Adesso lo sa.
“Vittorio”.
Vittorio.
Vittorio!
Angelo!
Angelo un panino.
Angelo due panini.
Nel mio acciughe.
Nel mio acciughe e nell’altro mortadella.
Non ho mai rubato un panino, in vita mia.
Ma un panino a lei non l’ho mai pagato.
Voglio farlo, adesso.
Ma questo lo avrebbe pensato solo dopo.
Angelo!
Adesso vuole Angelo.
Primo lo cercava, cercava il suo.
Mentre Uno ingozzava i nervi.
Sazio, drogate le orecchie, affannate le meningi.
Angelo!
E adesso lo cercava anche Uno, il suo Angelo.
Angelo, un panino con le acciughe, allora, due con le acciughe e due con la mortadella, Angelo.
Vittorio!
Angelo, Vittorio!
Due panini!
A Primo serviva l’Angelo, anche per un panino. Così almeno gli avevano detto.
A Uno serviva Primo.
Uno, affamato, affannato.
L’uomo, Primo, aveva compagnia.
Era arrivato prima degli altri, ma non era solo.
Uno era molto più solo, rinchiuso nella solitudine di Primo.
Tempo poco, arriva la seconda cella.
Fabrizio vuoi una sigaretta?
Meccanico, ancora, come prima, stemma giallo su un fianco.
Scendono tre uomini.
Scendono due donne.
Pochi capelli.
Angelo!
Altra galera, stesso carceriere.
Il solito Angelo.
Gli uomini e le donne, ancora una volta, non erano soli.
Li avevano con loro, Uno non riesce ad accettarlo.
Affannato, pensa angeli, vede sbirri, qualcosa di simile, qualcosa, forse, oltre l’affanno.
La prima donna esce dal gruppo, si avvicina a Uno, al suo tavolo.
Si avvicina, ancora, sicura, prende un biscotto.
Un biscotto, avanzato.
Insieme al biscotto riceve il suo Angelo.
Lei lo vede, Angelo si scusa con Uno.
Lei la cella, lui un carceriere.
Che la tira via, si scusa.
Gli altri cantano, ancora.
Cantano salmodiando, ancora.
Un lamento, continuo, ancora.
E canta anche Uno, senza voce, perché non è solo.
Gli amici di Uno conversano, non sono presenti a loro stessi.
Non vogliono esserlo, adesso, non serve esserlo.
Gli uomini e le donne si riuniscono al loro tavolo.
Al tavolo che è stato scelto per loro.
Gli amici di Uno parlano.
Gli amici degli uomini e delle donne non esistono.
Gli uomini cantano di topa.
Le donne sono più vere.
Perché piangi?
La prima piange.
Perché piangi? Dillo!, chiede Angelo.
Non piangere, cantano gli uomini.
E tutto svilisce.
Svilisce se stesso, risvegliandosi nella sua tragica normalità, obbligata, infernale.
Tutto come sempre.
Insopportabile.
Normale.
Schiaffandosi contro canti che non gli appartengono.
Che non appartengono a nessuno.
Tutto già visto, come sempre.
Uno si osserva: è presente a se stesso.
Si riconosce presente.
Gli amici di Uno continuano.
E non si ripetono che tutto è normale, se lo ricordano.
Monica! Vittorio!
Angelo.
Prima piange, gli altri si ricordano il proprio ruolo.
Il tirocinio.
I progetti.
La vita.
Uno è presente a se stesso.
Adesso si vede.
L’uomo, Primo: si viene a sapere che è colpa delle suore. Da loro, lui che lavorava, per colpa loro, della loro distanza, della loro imprecisione. Colpa loro se Primo si è fulminato. Si è fulminato le braccia con l’elettricità, le suore, poi la cancrena, poi un niente da fare che lo travolgerà, lo scaraventerà nel mondo dei mostri, obbligato a baciare un aborto senza poterlo mai più abbracciare.
Colpa loro.
Colpa.
La sua vita.
In una colpa.
Adesso non è più normale, non è più tutto normale.
La cella è l’unica, l’unica che adesso trova ad aspettarlo.
Insieme alle corde del suo letto.
E Angelo.
Scossa, cancrena, e vede Angelo, per la prima volta.
Primo è a tavola con gli altri.
Disperazione atavica, dicono.
Una pena che non riesce a controllare.
Una pena, una cantilena, una pena, una cantilena.
Così dicono gli amici degli amici.
E Uno.
Gli uomini continuano a salmodiare, le donne sono più sincere.
Piangono.
Sono diabetiche, dicono, non li possono mangiare.
Dice Angelo.
Uno vede sbirri, ancora.
Mangiano, cantano, bevono, piangono.
Uno è presente a se stesso, non sa più come e perché, non riesce più a chiederselo.
Prima piange.
Il lieto fine, stuprato.
Vorrei un caffè.
Lo voleva perché vedeva Angelo, il suo Angelo.
Hai già preso un panino, per oggi sono finiti i soldi.
Per oggi no, dai.
Adesso si torna.
Mai più di qualche sorso.
Mai più di poche parole.
Vedevo sbirri.
Poche frasi.
Brevi.
Ancora, senza filtro.
Affamato, affannato.
Presente a me stesso.
Ucciso.

manicomiofinestra

Polvere

Polvere.
Odore di metallo.
Non riesce a liberarsene.
Ritornano, sempre. A distanza di pochi pensieri.
Uno ci si trova in mezzo. Non lo ha mai cercato, ma ci si ritrova sempre.
Uno vuole alzare la testa.
Sa che lo farà ma non lo ha ancora deciso: deve pensarci. Sa che non ne può fare a meno, ma riconoscerlo lo spaventa. Uno non può fare altro che spaventarsi, e questo ne ritaglia un veloce, annoiato divertimento.
Ancora metallo.
Adesso ha deciso, non ha altre possibilità.
Uno alza la testa, apre gli occhi.
Ritorna la polvere, e fedelmente di conseguenza il metallo.
Uno non sa di essere felice, non sa di essere confuso, non sa essere sicuro.
Sguazza nell’attesa, nell’incertezza, e questo lo difende.
Lo difende dalla polvere, dal metallo.
Non ha ancora deciso come sentirsi, se apprezzare il martirio della pioggia sulla stanca insistenza della lamiera. Non sa se deve decidere, ma non si sente sicuro.
L’incertezza lo difende, e lui ne è orgoglioso.
Nelle mani nasconde le dita, e gli occhi tornano chiusi, il mento ancora ad affidarsi al collo, con arroganza.
E torna il metallo.
Il metallo e la polvere.
A distanza di pochi pensieri, come sempre.
Arriva qualcuno. Non che mancasse traffico, nella frenesia del viavai, ma adesso sa che è arrivato qualcuno.
Deve alzare la testa.
Il tempo necessario per convincersene e apre gli occhi.
A Uno piacciono le novità, le sorprese. Sono ciò che meglio riesce a tenerlo in vita. Piace soddisfare il gusto proprio personale per le perversioni. Uno è convinto di essere in piedi su un elastico. Un elastico che ti può rovesciare in pochi istanti con la capacità devastante di un uomo che urla. Uno non vuole pensarci, ha paura dell’elastico. Uno si assottiglia lungo se stesso, si distende lungo il vorticoso equilibrio delle sue angosce, e vi si appollaia sicuro: come chi sente di voler urlare ma si compiace di aver la bocca chiusa, di non esistere, di non avere voce.
Ma solo occhi e odori.
Dispersi lungo i vagoni.
Uno apre gli occhi e vede un uomo.
Mezza età, fascino desolato: un residuato di un uomo elegante, composto, stravolto dal proprio elastico.
L’esempio tipico di un uomo che urla, ormai probabilmente non ha più neanche il ricordo dell’elastico, ma solo di una voce stridula, dei denti in bella mostra, spavaldi e complici di una bocca scomposta.
Un uomo che lo attira, finalmente è arrivato qualcuno.
Quanto si possa dire finalmente, questo non lo sa. Un po’ ha paura, ma non ci pensa.
L’uomo non ha scarpe, cammina silenzioso lungo la polvere.
Uno sa di non poterlo fare ma vuole chiudere gli occhi.
Non ce la fa.
L’uomo se ne accorge e lo interrompe.
Il tempo di godersi l’ultimo timore del suo pubblico e parla.
Uno vede infrangersi il vetro, ne osserva i pezzi cadere fra la polvere.
Chiede un sorso di birra, e Uno glielo porge senza perdite di tempo.
Sa di aver fatto la cosa giusta ma non vuole ammettere di avere paura; sa che non deve e non ci cade, è attento Uno. Ma sa di essere fuori posto, esattamente lì dove finora aveva ricavato casa sua, sgretolandosi in un covo di autolesionismo. Sa di essere fuori posto e di aver paura, ma non se lo può permettere, così recupera la birra e fa finta di niente. Ha deciso che questo lo aiuterà. Lo ha deciso senza pensarci, ma non importa: adesso è così e tornarci sopra non avrebbe senso, non se lo può permettere. Fa finta di niente e basta, e che nessuno si metta a dirgli niente perché sa benissimo che tutti avrebbero fatto come lui, o pure peggio a seconda di come. Fa finta di niente, ma quell’uomo se ne accorge, Uno è stato troppo sfacciato, ma non pensa di aver saputo fare di meglio. L’uomo ritorna a parlare, e solo adesso Uno si accorge delle sue dita. Dita affusolate, magre e promettenti. Non c’è fatica, non c’è usura. Solo ansia.
Molta ansia.
Mescolata uniformemente con la polvere.
E questo continua ad affascinare Uno, per quanto non riesca ad accettarlo.
Strette fra le dita un mazzo di chiavi.
L’uomo, scalzo, agita in alto la sua ultima sicurezza. L’uomo se ne vergogna, adesso non le interessa più, è spaventato e offeso: si sente insultato dalle sue sicurezze. A questo punto non ha motivi per convincersi. Per convincersi a crederci.
Si sente umiliato, preso in giro.
Ma sorride.
E sorride per ferire.
Per fare del male, anche agli altri, inutili, insulse scenografie del suo presente, ormai, inutile anch’esso.
L’ultima sicurezza, delle chiavi.
Le offre a Uno.
Quasi vorrebbe scagliargliele addosso, liberarsene, allontanare l’ultima, offensiva, responsabilità.
Lo fa sorridere l’idea.
Uno è imbarazzato, non può accettare: vorrebbe farlo ragionare ma non riesce a convincersi che sia giusto, né tantomeno crede di esserne capace. Si limita a rifiutare, abbozzando un sorriso di pietra.
Non può accettare, è fuori di dubbio, anche se una parte di sé comincia a fantasticare.
Ma non può, non deve e non ne è capace.
L’ultima sicurezza vale cento volte la prima.
Vuole farglielo capire, cercando di esserne sicuro.
Sa soltanto che la frase, messa così, suona bene, ma non ha idea in realtà di ciò in cui realmente crede.
Quando è in difficoltà Uno si rifugia nella banalità.
Cerca di non farlo, ne è schifato, ma inconsapevolmente non riesce a sfuggirne. Ci cade sempre, e lì per lì suona pure bene.
Sarà solo dopo che se ne renderà conto.
Dai, non farlo, ripensaci.
Poi come fai? Dai, no.
L’uomo insiste, Uno insiste.
L’uomo lascia cadere le chiavi, che quasi si perdono tra la polvere. Vuole che le prenda Uno, ma adesso Uno non è più alle prese con il suo elastico. Adesso è ben saldo, ancorato nella parte giusta.
Uno è dalla parte giusta.
Stavolta non ci sono dubbi.
E adesso si accorge di esserne diventato orgoglioso.
Stavolta non si discute, ha ragione.
Uno ha ragione e nessuno può farci niente, è dalla parte di tutta la gente che sta da una parte. E’ uscito dalla parte di chi non sta da nessuna parte. Adesso ha un senso, un compimento, una finalità.
Uno si conclude in se stesso, e adesso ne è orgoglioso.
Pienamente orgoglioso, se lo ripete.
L’uomo non è in sé, è evidente, e Uno sa esattamente cosa deve fare, come comportarsi. Non lo sa, in effetti, ma avverte inconfondibile la sicurezza di chi ha ragione, e questo adesso gli pare sufficiente per permettersi di improvvisare.
Riprendi le chiavi, non esagerare, non si fa così, non essere debole, fatti forza e vai avanti, tranquillo.
Sereno.
Uno adesso ha vinto.
Uno ha vinto, è sicuro di sé, sta dalla parte giusta.
La zona d’ombra della sua paura lascia spazio a qualcosa di più rotondo e meno spigoloso.
Una sorta di compiacimento penoso.
Non ha paura, non c’è da aver paura, non ha mai avuto paura.
Alla fine ha vinto lui, e non poteva andare diversamente perché lui non è così.
Dai, questo no, non si può dire.
Lui non è così, alla fine l’elastico non esiste mica davvero, lui è stabile, inchiodato a terra, e ha vinto.
Ha vinto, però nessuno può vederlo.
Nessuno può saperlo ma a lui che importa? Alla fine l’importante è essere saldi sul terreno.
Non venire rovesciati.
E questo adesso non può succedere.
Non può succedere ma non lo saprà mai nessuno.
L’uomo se ne va.
Nessun apparente segno di sconfitta, nessuna evidente motivazione.
Almeno non verso Uno.
Anche se Uno ha vinto.
Almeno stavolta.
Ma è solo.
Adesso di nuovo.
Abbassa la testa, chiude gli occhi.
Adesso scompare la polvere, sopraffatta dal metallo.
Dall’odore di metallo.
Dallo stridio dei freni del suo vagone.
E adesso, di nuovo.
Di nuovo l’elastico.

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