L’odore di funghi non si sente più sotto il mentolo delle domande dell’Istituto Nazionale di Teologia Marziana, ancora non si vedono passeggeri o turisti che si fermino cinque minuti a parlare col Demonio mentre la metropolitana sbaglia tutto e ti porta al terminal più avanti, dopo cresce l’odore di tabacco, il tappo svitol della bottiglia da cestino che ti insegue in mezzo alla tappezzeria stile Sessanta delle panche del vagone di terza classe, e l’ossigeno fresco evapora sotto il Sole del Tredicesimo Reich, e guardarlo da lontano significa esserci affogato dentro con tutte le carni che qualcuno ha marcabollato preciso apposta per le tue esigenze, il divano e un senso di vuoto, in mezzo ai documentari natgeo.bg, un vecchio uomo con la coperta del Poeta, ti mette in guardia dalle risate sciocche che ti partono dal naso quando vorresti non dover avere un corpo da tenere al guinzaglio, le parole del vecchio tramontano sul mare insieme alle sue ginocchia, che si piegano per dormire lì dove dorme qualcuno che si è imparato un paio di libri a memoria e non ha nessun motivo di fartelo sapere, un nudo gomito femminile, elegante braccio aristocratico, s’intreccia con l’incidente diplomatico caduto fra collo e cranio, indica città di mari lontani e si arrotola alle strane pendici della carne, che poi non si ricorderà come mai non aveva voluto chiamarti, non si ricorderà come mai poi ti ha chiamato, come mai poi i gatti randagi ululano in faccia ai cani stupidi delle cicatrici che ti porti in fronte come segno inevitabile dei sagrestani che ti sei scopato sulla via di Damasco, insieme a qualche Samaritano di passaggio che ti faceva la spremuta col succo e polpa d’anguria mentre te ne stavi a fissare la lama con cui tagliava gli spicchi e pensavi, sognavi ti tagliargli le ossa dei capelli e delle unghie, e i denti frizzavano davanti alle zampe impallottolabili del sacro divenire delle angustie terrene, un momento nuovo che sembrava non potesse avere l’ardire di finire dentro il cerchio ruvido d’un ex pozzo venerando, rimasto incinta di cemento armato sul più bello della tovaglia di stoffa, rossa e verde senza rispetto per il buongusto, e qualche cucchiaio bastava di nuovo per tornare fuori dalle allucinazioni, un nome, un cognome distinto e indistinguibile tra mille altri che ti girano in testa insieme a un taglio degli occhi che ormai vedi dovunque e chissà fino a quale argine lontano dei tuoi desideri possa continuare a fidarti di lui, e poco lontano un fagiano non c’entrava niente, un nome, un desiderio altrui, un paio di tempie terremotate, un sogno di naftalina che stringe i pantaloni senza fibbie valide da contenere, chissà quale malattia venerea poteva portarsi via Tolstoj, la sera che se la svignava, e amava, amava tanto, povero coglione di un veritiero, Karenina, e il posto resta libero, un volto di Nina che spiaggiato lontano lungo sassi bagnati e plastiche insabbiate, per un secondo netto, non riesce a fare a meno di pensare ai colleghi, teneramente.