Tornare a lavoro, ogni mattina poco dopo le prime luci dell’alba, stava diventando sempre più snervante. Da qualche tempo ci si era messo anche il mio assistente, un giovane apprendista appena laureato, a farmi innervosire. Per qualche ragione sconosciuta aveva preso il brutto vizio di rimettere al suo posto nell’archivio la teca delle formiche, la sera prima di uscire. Tutti lo sapevano, nel laboratorio, che non sopportavo che si toccasse la grande clessidra di vetro del trentottesimo esperimento. Fin dall’inizio mi ero reso conto che quella sarebbe stata la volta buona per capirci qualcosa, e in mezzo all’incalcolabile quantità di fallimenti stava diventando il mio principale motivo d’orgoglio e ormai praticamente l’unico stimolo per continuare con le ricerche. I risultati da parecchio tempo si mostravano sempre meno convincenti: quasi per farsi coraggio ci eravamo imposti degli obiettivi, messi per iscritto in un elenco numerato, concordato tra noi della facoltà, e fino a quel momento ne avevamo raggiunti poco meno di cinquanta su un totale di qualche centinaio. La teca racchiudeva contemporaneamente due ecosistemi distinti: nella zona inferiore della clessidra viveva un’intera colonia di formiche rosse, che ero riuscito solo dopo molto tempo e molta pazienza a far sì che si formasse in modo autonomo e il più spontaneamente possibile. Per quanto possa sembrare di poco conto, posso assicurare che non è per niente facile riuscire a convincere esemplari di formiche rosse perfettamente di diverse provenienze a convivere pacificamente all’interno della stessa colonia. Nella parte superiore, che grazie a specifiche attrezzature meccaniche godeva di gravità invertita, un’intera colonia di api affollava un alveare appositamente creato con materiale plastico e piastrelle metalliche attraversate da un flusso continuo di elettrostimolazioni artificiali. Al centro della clessidra, lo stretto passaggio tra un ecosistema e l’altro era il frutto di un vero e proprio colpo di genio: attraverso quell’unica via di fuga, gli esemplari animali che in qualche modo si trovavano ai margini delle rispettive strutture sociali, rifiutati dagli altri oppure riconosciuti come devianze o motivi di indebolimento per l’ordinamento naturale dell’ecosistema, riuscivano a trasferirsi dall’altra parte. Il risultato era comunque sempre lo stesso: non provvedendo dall’esterno a nessun tipo di alimentazione, i ribelli finivano per essere divorati dalla ferocia dei nuovi coinquilini. In mezzo alle formiche si potevano notare continui accanimenti verso i cadaveri in decomposizione delle api fuggitive, e così viceversa dall’altro lato. In più di tre anni di sperimentazione, mai si registrarono tentativi di ribellione generalizzata, o movimenti bellici comunitari di una delle due specie, riunita contro l’altra. Nel laboratorio, solo la vasca dei guardiani del reparto adibito a museo delle scienze naturali aveva dato risultati altrettanto soddisfacenti. In quel caso, risalente all’inizio della mia carriera, molti anni prima e ormai divenuto un pezzo di storia nel campo della ricerca sul comportamento animale in situazioni di criticità ambientale, avevo avuto l’intuizione di inserire il personale di servizio del laboratorio in un’apposita automobile impermeabilizzata e ossigenata, e poi immergere il tutto in un’enorme vasca trasparente, ricavata tra il primo e il secondo piano dell’edificio. Applicai loro degli elettrodi sul petto e alle radici del collo, assicurandoli riguardo alla rapidità e alla non invasività della sperimentazione; successivamente chiesi loro di osservarmi con la massima attenzione e di ripetere ad alta voce il cognome del rispettivo collega al cenno della mia mano, inviando in corrispondenza di intervalli regolari prestabiliti stimolazioni elettriche di sempre maggiore intensità. Dopo ore e ore ininterrotte di esperimento, quando i livelli di ossigeno cominciarono a diminuire drasticamente, mentii ai due guardiani, comunicando loro che il vero scopo della ricerca sarebbe stato in realtà osservare le reazioni anatomiche dei corpi stimolati elettricamente in assenza di ossigeno nell’istante della morte biologica. A quel punto i guardiani si scagliarono l’uno contro l’altro, rinfacciandosi reciprocamente colpe e responsabilità tra le più fantasiose, con giustificazioni palesemente paranoiche e schizofreniche. E nessuno dei due ebbe nemmeno la tentazione di provare ad aprire le portiere dell’auto, per mettersi in salvo. Morirono entrambi, lasciandoci in dono una delle più rivoluzionarie scoperte della scienza moderna. Quel giorno non feci neppure in tempo a farmi venire la forza di rimproverare il mio assistente, per aver spostato la clessidra con i cadaveri delle formiche e delle api, che subito mi venne incontro il direttore. Finalmente, dottore, congratulazioni. Stavolta ce l’ha fatta, ha raggiunto l’obiettivo Quarantotto, il paradigma dell’infinito; la riproduzione continua dei livelli di esasperazione individuale nel rispetto dei limiti dell’equilibrio sociale, e tutto dentro una semplice clessidra. Stavolta è il Quarantotto. E lei entrerà nella storia. Un veloce cenno col capo per gentilezza, poi sullo sfondo la spia rossa del monitor. Foglio e penna subito alla mano, solo qualche breve istante per pregustare l’osservazione di una nuova, disperata, fuga verso la libertà. Poi di colpo, mi scivolò di mano la cartella dei grafici. E contemporaneamente l’occhio cadde sul segno, quasi irriconoscibile nel vetro, della prima crepa.