La ringrazio comunque, arrivederci.
Dalla finestra filtrava un soffio gelido, mentre i bagliori delle due grosse lampade al neon si riflettevano nella pioggia debole della notte primaverile, illuminandone grottescamente le improvvisate di celebrità subito prima che si schiantassero sul tavolo di vetro del terrazzo e se n’andassero a sgretolare in metallici ticchettii da orologiaio. Non riuscivo a togliere gli occhi dagli appunti sul foglietto che frenetico mi rimbalzava da una mano all’altra, sulla scrivania. Avevo dovuto scartare quasi tutte le voci dell’elenco, messo insieme in tutta fretta in una mattinata di ritardi, e adesso cominciavo a temere seriamente di non farcela in tempo. Mi restavano ancora diciotto ore, e continuai col numero successivo. Buonasera, vorrei prenotare se possibile.. /siamo completi, mi dispiace. Neanche il tempo di concludere la frase, la situazione stava cominciando a seccarmi. Ancora una volta me ne tornai a fissare la pioggia. Sedici ore e mezzo, nuovo giro. Per domani, se possibile, saremmo in due. /Solo un attimo, dunque vediamo, no mi dispiace, non c’è più posto, arrivederci. Per la prima volta mi domandai per quale ragione avessi sistemato il tavolo di vetro proprio sul terrazzo. Il ticchettio delle gocce d’acqua si faceva sempre più insistente, come a volermi mettere fretta. Quattordici ore e quaranta minuti, tentai di nuovo. Niente da fare, mi dispiace, magari però lunedì se le va bene lo stesso potremmo metterci d’accordo per… Più di tutti mi davano fastidio quelli che non si facevano più di troppi problemi a mostrarsi palesemente più preoccupati di mantenere un cliente che dispiaciuti per la mia sventura. Stavo cominciando a rivalutare quello spiffero di vento, il brivido di freddo che mi elettrizzava la punta delle dita. Mi alzai per spengere il riscaldamento e restai per un po’ a domandarmi quanto fosse credibile la facciata d’eternità che quella pioggia mi continuava a sbattere addosso, fottendosene delle mie sensibilità. Dodici ore e ventitre minuti, ancora. Ma le sembra l’ora di telefonare? E comunque no, tutto pieno. Non lo sa che è festa domani? Mi sembrava decisamente insolito, a pensarci bene. Tutta quella pioggia, in primavera. Continuava senza freni, come se fosse fuggita di casa si fosse ritrovata immersa in un vortice di sensazioni e quotidianità violente talmente indiscutibile da intimorirla, e impedirle di tornare indietro. O forse di era soltanto dimenticata anche lei di osservare i giorni di festa. Io, anche volendo, non avrei potuto farci niente. Mi veniva difficile accettarlo, ma la mia non era proprio una di quelle esigenze che si possano trattenere, o rimandare al primo lavorativo prima del finesettimana. Il tempo mi incuriosiva, trovavo qualcosa di inspiegabilmente attraente nelle scadenza, nell’idea stessa di appuntamento, nella consueta ricerca di un riferimento. Non sapevo e non volevo farne a meno, io per primo, e mi fermavo a osservare gli altri come un tossico al parco che squadra i bambini immaginandoseli accanto a disinfettarsi la siringa. Guardarmi le vene era un altro mio grane passatempo. Le inseguivo lungo il letto del fiume, correvo dietro al loro sangue. Me lo immaginavo scorrere poderoso e inarrestabile, stondando i sassi corrosi dai secoli, lanciando occhiate di sfida agli argini intimoriti. Sette ore, trentanove minuti, cinquanta secondi. Lei è pazzo, mi richiami lunedì che glielo ripeto. Finalmente un fulmine, era tutta la sera che lo stavo aspettando. Cinque ore, dodici minuti, cinquantasette secondi. Questo vuole sapere se c’è posto, ci vuoi parlare te? Ma ditemi voi la gente cosa c’ha nel cervello. Il freddo si faceva più intenso. Due ore, quarantatre minuti, otto secondi. Ho detto di no. I fulmini erano aumentati, stabilizzandosi all’incirca sulla frequenza di uno ogni due minuti. La temperatura intorno ai nove gradi. Un’ora, dieci minuti, quindici secondi. Guardi, ha sbagliato numero. Grondaie e tombini parevano essersi paralizzate in tutto l’isolato. Un sottile strato d’acqua ricopriva le strade. Quarantasei minuti, tredici secondi. Pronto intervento, mi dica. L’acqua stava aumentando, adesso arrivava al livello del marciapiede. Sei gradi, non riuscivo praticamente più a muovere le mani. Il freddo mi arrossava la pelle e cominciavano a screpolarmisi le labbra. Ventidue minuti, dodici secondi. L’utente da Lei richiesto non è al momento raggiungibile. Il livello dell’acqua continuava ad aumentare, provai a riaccendere il riscaldamento ma tenere fra le dita congelate la piccola rotella del termostato mi si era rivelato praticamente impossibile. Undici minuti, cinquantanove secondi. Numero non attivo. I primi fuoristrada militari arrivarono al fiume e cominciarono i lavori per la messa in sicurezza. La temperatura sui quattro gradi e mezzo, non senza qualche difficoltà detti fuoco al cestino del carta. La batteria del cellulare si era scaricata del tutto, abbandonando le mie attenzioni. Di nuovo a rincorrere le vene, la loro voglia di fuggire. Cinque minuti, ventiquattro secondi. Il sogno di libertà. Due minuti, dieci secondi. Le loro occhiate di sfida ai fuoristrada. Un minuto, quarantotto secondi. La porta della camera matrimoniale, pensavo a quanto avesse avuto ragione. Fin dall’inizio, non potevo crederci. Cinquantuno secondi. Non sarei riuscito a dirglielo, ne ero consapevole. Trentanove secondi. Mi vergognavo di me stesso, di non essere capace di ammetterlo. Aveva ragione, da vendere. Quattordici secondi. Il mondo era al completo. Dieci secondi. A noi restava d’inseguire il lunedì. Nove secondi. Solo il rantolo d’un tavolo di vetro. Sette secondi. Mi consolava, cinque. Ci riusciva ancora e mi riempiva di pace, tre. Con la forza di un mare in tempesta, verso il suo sogno di libertà. Due, aveva vinto. Uno.