Avanti un altro

Guarda fratello, te lo dico, se fai sempre così sei fottuto nella vita. Mi spiego meglio: non importa se sai aprire una bottiglia di vino a centrocinquanta orari in autostrada, con un cavatappi rotto, tenendo le traiettorie con le ginocchia, la sigaretta in bocca e il telefono all’orecchio. Non importa se ti fanno ridere i sistemi automatizzati che scuotono gli alberi per la raccolta delle olive, o se senza una vera e propria ragione porti annodata al collo la stessa rondella di ferro da chissà quanti anni. Non importa se vuoi fermare la latinizzazione della lingua araba, se ti ricordi a memoria il codice fiscale o la scadenza della carta d’identità, né se puoi scalare la catena degli ottomila metri con tre bicchieri di bianco frizzante. Non importa se ti senti sollevato quando il controllore si mette a fare le parole crociate, né se ti sembra ingiusto che ci sembri giusto adattarci. Non importa se credi nella costituzionalità dell’impianto genetico o nell’istintività dei fenomeni culturali, o se quando ne senti parlare cominci a immaginare come sarebbe una vita da professionista. Non importa cosa pensi del lavoro, dei nuclei familiari, dell’importanza della provocazione, dell’ipocrisia dei legami degli altri, dell’azzurro del cielo o dell’amore. Non importa se credi nelle ricorrenze, cosa pensi della giornata della memoria, se fai caso alle date di scadenza quando fai la spesa, se porti l’orologio o se la sveglia la metti per alzarti o per ricordarti di andare a dormire. Non importa se sei mai riuscito a distinguere il momento del vino dal momento dell’oppio, o se alla fine sei diventato te stesso un unico grande periodo del prozac. Non importa quanto sei soddisfatto delle coazioni a ripetere, delle ripetizioni di matematica, dei conti fatti senza l’oste, o dell’osteria da dove ti hanno licenziato ieri sera. Non importa se hai bisogno degli altri o del loro annientamento, o quanto affascinante ti risuoni in testa l’autodistruzione. Non importa delle tue crisi, delle astinenze, delle ricadute, delle felicità, dello stato di quiete o di tempesta, del cerchio alla testa, della testa di cazzo, del malumore della razionalità, del rigore smisurato della libertà, della liberazione delle parole, delle parole dette nei momenti sbagliati, di quelle che poi non ti sei mai sentito di dire. Non importa di cosa sei nella vita, delle prospettive, delle illusioni, dei salti nella realtà, dei programmi e di come il giorno dopo ti prendi impreparato a chiederti in preda a quale forma di delirio esattamente ti sia venuta in mente un’atrocità del genere. Non importa della sensibilità, delle belle discussioni sulla naturalezza del rapporto tra scenografia e tossicodipendenza, di tutti quelli che mai capiranno che ritenevi più intelligente cancellare i sentimentalismi per scuoterne i cartonati. Non importa se non capisci quello che ti dico, né se capisci quello che ti scrivi in testa da solo. Non importa quanto ti senti soffocare, o se poi a casa cerchi di urlare davanti allo specchio, per farti sentire da qualcuno. L’unica cosa che importa è che la spugna va strizzata prima di darla sui tavoli. E non mi servi.

Tendenzialmente

La vita non ha senso. Lo sai chi è quella lì che è entrata? Praticamente era in classe con me quando andavo al liceo, tutt’altro che simpatica, in famiglia tutti mi conoscevano come quello che non faceva un cazzo e prendeva sempre un voto in più della diligente figlia boccoluta prediletta. Ero il nemico di tutto il parentado, credo che m’abbiano odiato in pochi a quei livelli. Una delle poche soddisfazioni della scuola è stata vederla battagliare in quel modo così penoso, mi sono fatto certe risate incredibili. Ce l’avevo anche i tre anni delle medie, un giorno mi ricordo venne a correre con me, quando io ancora andavo a correre. Si fermò quasi subito, su una balla di fieno, al tempo probabilmente mi piaceva anche, anzi forse è stato anche per lei che mi sono iscritto al classico al tempo. Non sono mai riuscito ad appassionarmi seriamente a qualcuno che fosse tra quelli che più disprezzavo; non potevo fare a meno di diventarne dipendente, non sapevo non innamorarmene. Lei, t’assicuro, era l’ultima persona che mi aspettavo di trovare qui. Comunque penso d’essermi convinto, mi sa che ci verrò a lavorare davvero. Avere un padrone amichevole è una fortuna che non ci si può permettere di mandare a morire male insieme a tutto il resto. Poi va bene, non sarà proprio il mio migliore amico, diciamo che ci siamo conosciuti nel modo sbagliato ma nell’occasione migliore. Come ti pare, ma è già una fortuna. Non sarà forse proprio l’esempio di lucidità che ricerco nel prossimo, però è simpatico, accogliente. Ha un po’ l’aria da fesso, ma insomma, non è che si può stare sempre a odiare tutti, voglio dire. Alla fine qualcosa bisognerà pur accettare dalla vita, magari anche volentieri, magari cogliendone i lati positivi, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento. In più i soldi mi servono per il viaggio in Palestina, chissà se magari questa volta ci riesco a andare davvero. Anzi, se vuoi venire anche te penso non ci siano problemi. Sarebbero due settimane, pensaci, che sono occasioni rare. Poi non lo so se t’interessa, insomma, però non mi dire che preferisci l’India, perché non mi riesce proprio di capire come possano essere paragonabili. Proprio a livello di esperienze, dico. Per carità, in India ci sono i poveri e disgraziatissimi sparpagliati ovunque, anche quello ti segna d’accordo, però la Palestina è la Palestina, non ti pare? Non so se conosci bene la storia, tutta la questione, la libertà violentata di quelle terre, di quel popolo, dal dopoguerra in poi. D’accordo, magari non t’appassiona troppo come argomento di discussione, cambiamo discorso. Anche se un po’ in realtà continuo a pensarci, pazienza. Insomma, anche se non te ne interessa, anzi sembra proprio che non ti interessi assolutamente niente di quello che interessa a me, e forse non ti interessa proprio nulla nella vita in realtà, alla fine mi sei simpatica. A volte mi conquisti con certe espressioni, per come ti vengono spontanee quelle traiettorie sulle guance quando ti vedo scollegata. Insomma, vada come vada a volte effettivamente bisogna accettare qualcosa nella vita, bisognerà mettersi l’anima in pace e coglierne i lati positivi, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento, quantitativi di potenziale caotico intrigante. Non so se rendo l’idea insomma, alla fine non sono proprio capacissimo di esprimerli come vorrei. Certi concetti dico. A volte mi manca un po’ il lato comunicativo, me ne rendo conto. Anzi, spesso mi monta proprio una rabbia cane, un senso di frustrazione insopportabile, quando mi sento andare a sbattere contro il muro di gomma dei miei limiti naturali. Vorrei trovare la forza di volontà per superarli, non poche volte mi metto davanti a un tavolo e cerco di raccogliere tutte le energie disponibili con la fermissima convinzione di rivolgerle tutte insieme verso l’obiettivo, contro il nemico, ma non è sempre facile. Comunque pazienza, anche se per la verità non ci sono mai riuscito, alla fine comunque alla gente sto simpatico. Tendenzialmente sono apprezzato, quantomeno mi sopportano insomma. Quasi tutti, almeno nella maggior parte dei casi. Poi insomma, non sarò proprio il migliore amico possibile ma nemmeno il peggiore, voglio dire, a volte bisogna anche accontentarsi un minimo. Accettare qualcosa nella vita, mettersi l’anima in pace e cogliere i lati positivi dalle situazioni che ci troviamo davanti, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento. Il quantitativo di potenziale caotico intrigante, qualcosa che t’appassiona, insomma. Anzi, qualcosa che ti fa decisamente ridere, sghignazzare scompostamente senza pudore in mezzo alla strada. O almeno qualcosa di simile. La vita non ha senso. Però è simpatica.
Tendenzialmente.

poiquandopuoi

Ma perché mi scrivi se sono qui?
Tutto appiccicato poi. E comunque ci vuole tempo, non dipende da me. Vedi di darti una calmata che sei ridicolo quando ti fai prendere dagli spasmi, e mi metti pure ansia tra l’altro. Come quando mi cammini intorno quando siamo a tavola: è una cosa che non sopporto, lo sai, eppure me lo fai sempre. Non lo so se lo fai apposta, e t’assicuro che mi viene quasi voglia di pensarlo. Non è possibile, come quando entri in camera e accendi la luce grande, che poi una delle due lampadine è pure fulminata da non so quanto tempo ormai e quell’altra fa una luce biancastra gelida che sembra d’essere in un mattatoio. Mi fa impazzire, sempre per non parlare di quando sposti la roba che butto sul letto sugli scaffali della libreria, sopra i libri o peggio ancora davanti. Ma come fai a non capire che dà fastidio, che poi non si capisce più che libri ci sono in mezzo a quella montagna di casino, no? Non lo capisci? A me non sembra difficile. E quella trovata della polvere di caffè nell’affare per la fonduta per profumare l’aria, così difficile da sopportare per te? Anche se lo so che non ti interessa io ho bisogno di un clima favorevole, e soprattutto delle luci giuste per scrivere. Ti ricordi? Te l’avevo già spiegato, quella raccolta di possibili finali tragici alternativi a tutte le vicissitudini in corso della mia vita, tutte le disgrazie che potrebbero succedere in quello che faccio, così un po’ per superstizione un po’ per divertimento, ma penso possa venir fuori qualcosa d’interessante, tipo quella rubrica che tengo sul blog, dove non so se te lo ricordi ma ho preso l’impegno di commentare i temi forti dell’attualità con due articoli contrapposti, che partono dallo stesso argomento ma arrivano a conclusioni praticamente opposte, studiate però in modo da non rappresentare due filoni di pensiero contrapposti ma da poter essere incomprensibilmente accettati entrambi e allo stesso tempo dallo stesso lettore. Non so se mi spiego, ma tanto a te interessa il giusto, vero? Te c’hai ancora la mitologia del lavoro, te lo dico io, un vero e proprio feticismo, te ne rendi conto? Non ci riesci mica a uscire da quel tranello mentale in cui t’hanno invischiato, anzi te ne vai tutto contento la mattina in giro, vero? A guadagnarti con il lavoro quella miseria che ti permette soltanto di campare fino alla mattina dopo per tornare a lavoro, e così via in un circolo della morte infinito, ma te figurati se questioni qualcosa, se vai a sindacare, tutta roba da intellettuali impazziti, magari pure snob per te, parassiti coi soldi di famiglia. Gente fuori dal mondo, per te, e io non sono certo di meglio, giusto? Vivo fra le nuvole, riesco solo a stressarti, a prendermela con te senza ragione, no? Sono la tiranna io, giusto? Ma mi ascolti o no? Non è così? Amore? Oh! Cazzo stai facendo, sei pazzo?

Mah

“Oh aspetta, l’hai visto quello lì?”
“Cosa? Chi, quello col cane?”
“M’abitava accanto, è un tipo assurdo. C’ha una storia incredibile…”
“Guarda, m’hai fatto venire in mente. Ieri fuori dalla facoltà, ero sul gradino dalla parte di là della strada. Guardavo un tipo davanti al portone che se la rideva con un gruppetto di gente amica sua e poi sento ridacchiare uno seduto accanto a me. Allora per due secondi netti mi sono detto: ma è possibile che tutti c’abbiano da ridere. [Poi senti, gli dico, non è che ti puoi mettere a ridere così a caso, senza collegamenti con il discorso e senza preoccuparti che gli altri prima o dopo capiscano il perché di tutta st’allegria, perché poi ti pigliano per matto. Che ti ridi te?, gli ho detto. E questo mi fa: nulla, pensavo a una cosa. E che pensavi? Mah, una storia di due tipi vicino a casa mia, ma via lascia perdere. No, come lascia perdere, ora me lo dici, gli faccio, sennò mi lasci così, nel dubbio. Mah niente, praticamente lì dalle parti mie, un tipo ha sparato a un altro, tempo fa, per questioni… vabbè dai, niente.
Ma come niente, parla! Mah nulla via, è roba vecchia, e non ne voglio parlare via. Dai, ora non mi puoi lasciare così a metà: chi ha sparato, perché gli ha sparato? Mah guarda, te l’ho detto, è una storia particolare, questo qui è una bravissima persona eh, poi è roba di parecchio tempo fa.
Ma che è successo, si può sapere? Via, non mi fa parlare, poi senti non mi piace che si sappiano ste cose, mi fa. Guarda io non so nulla, so solo che riguarda sti due tizi, non so mica chi sono, non è che possa andare in giro a ridire le cose, via, che è successo? Praticamente a questo qui gli facevano dei dispetti, continuamente, e lui poi se l’è presa. Ma dispetti di che tipo? Guarda gli facevano un po’ di tutto, gli andavano a tirare la roba, poi gli spengevano la luce mentre mangiava. Aspetta, che vuol dire gli spengevano la luce: ora che s’ammazza uno perché ti fa i dispetti?] Poi questo s’è rimesso a ridere, abbassando il mento e tirando su le sopracciglia, mezzo nevrastenico come a volersi mordere la lingua.
Lì mi si sono cominciate a accendere le lampadine. [Eh lo so, ma si fa presto a dire, era una situazione strana, mi dice].
Allora riparto, stavolta più frenato: [via, spiegami, io non so nulla eh, se mi dici le cose a metà, come faccio a sapere]. Cercavo d’essere prudente, qualcosa m’aveva fatto scattare l’allarme, e ora mi interessava tutto ancora di più, in realtà. [Praticamente questo qui, mi fa, aveva perso la pazienza e gli ha sparato. Va bene, ma perché? Che gli avevano fatto, ancora non ho capito. Se la rideva e continuava: guarda lui e il su fratello, lo si tormentava guarda, una volta s’era montati sull’albero delle pere e gli si faceva, gli facevano la guerra delle pere, gliele tiravano in casa, di tutto guarda, gli si faceva di tutto, cioè, lui e il su fratello insomma. Ho capito, e poi insomma? E poi nulla, questo perse la pazienza e gli sparò, ma aveva ragione eh, io sono dell’idea che non gli dovevano andare a rompere i coglioni, almeno io la penso così, insomma, poi questo è una bravissima persona, non gli dovevano andare a rompere i coglioni. Poi è una storia strana, non è che sia il caso, voglio dire, poi non mi fa piacere che si sappia, ecco, vabbè].
A questo più volte gli era scappato il ‘noi’, il ‘ci’, cioè lui c’entrava direttamente, e parlava del su fratello, e non ho capito poi se al su fratello gli avevano sparato o se era stato lui a sparare, perché da quel che diceva non si capiva, voglio dire, continuava a dire che lo sparatore era una bravissima persona, che aveva ragione secondo lui e che non gli dovevano rompere i coglioni, che c’avevano a pensare prima, e lo diceva con una sicurezza e una velocità tutta sua, come se non ci credesse più di tanto alla brutalità che stava dicendo, ma più come se si sentisse in dovere quasi come per spirito di corpo, per senso d’appartenenza, di proteggere il nome di qualcuno, anche magari facendo propria la giustificazione di un qualcosa che aveva fatto questo qualcun altro. Fatto sta che questo sta a due metri da un omicidio e io non sapevo nulla, e me l’ha detto ridendo, isterico ma ridendo, e lì per lì m’è venuto da pensare se questo qui si trovasse a dover raccontare cazzate in un tribunale quanto pochissimo ci metterebbero a scoprirlo, visto che in due discorsi già m’aveva fatto capire che c’entrava il su fratello, e quanti modi c’aveva per non farmi capire nulla di chi erano questi due tipi, bastava che mi dicesse: guarda, m’è venuta in mente questa storia, che m’ha raccontato quel tizio al bar, di questi due, amici suoi, vai a sapere dove abitano e chi sono, e dice che uno ha sparato a quell’altro, e via. Non so, non ti fa strano?
Io ci sono rimasto un botto di tempo a pensare, sia per sta cosa dello sparatore che non si capisce chi è, poi per il fatto che questo ci rideva e per di più non era riuscito a sviare per due secondi, tanto che era preso dalla questione e dalla velocità senza filtro del filo diretto tra la bocca e il cervello.
Poi, seduto dall’altra parte, c’era un altro tipo amico mio, che mi sentiva fumare e se ne strafotteva, stava lì con la testa buttata fra le ginocchia e non ha sentito nulla, cioè dopo quei cinque minuti assurdi, finita la sigaretta questo s’è rialzato e non aveva capito nulla, e ancora non sa nulla, e di certo a me me ne frega anche il giusto di andarglielo a dire, insomma, però il punto è che comunque nessuno di chi lo conosce sa sta storia, e io la so per caso solo perché lì per lì avevo voglia di ragionare, tanto per distrarmi un po’, e l’avevo fatto venire a sedere accanto a me per una volta, perché sto qui è uno che quando attacca bottone non la smette mai e di solito c’è da stare attentissimi a mettercisi a discorrere, e avevo voluto sapere a tutti i costi perché s’era messo a ridere. Poi vabbè, te non lo conosci questo qui, quindi insomma magari te ne freghi, però ecco, m’ha fatto strano. Tanto di più perché uno aveva sparato a quell’altro perché gli lanciava le pere in casa e gli spengeva la luce a tavola mentre mangiava. Che ti devo dire, m’ha fatto strano, un po’, ecco.”

“E poi?”
“Poi nulla, ci siamo alzati e siamo tornati dentro, che avevano messo pure il tavolino col vino e le valdostane.”
“C’avete fatto proprio l’aperitivo?”
“Eh sì, tra l’altro dovevi venire eh, tutto improvvisato ma c’era da ridere. Ma poi il tizio col cane che aveva fatto?”
“Nulla, tifa la Juventus tra l’altro, ne parlavo ieri con una che c’era rimasta male perché gli aveva visto tirare una palla di ferro grossa come un’arancia addosso al cane, come per farlo giocare e tra un po’ lo schianta, pare un giorno abbia ammazzato la moglie a martellate in casa sua a Livorno, va sempre a giro tutto storto col cane, lo conoscono tutti ma non parla mai con nessuno.”
“Mah, la gente è strana”
“Guarda, lascia stare…”
“Mah”.

peramah b-n

Malabitùdini: Sete nel mondo

Ogni tanto capita di leggere anche cose interessanti.
Per esempio, ogni uomo espelle in media cinquantatre litri di sperma nel corso della vita, grazie a un totale di settemiladuecento eiaculazioni, di cui duemila solo di masturbazione. Ora, essendo un calcolo medio, sarebbe curioso conoscerne gli estremi statistici, vale a dire per esempio i quattro maggiori produttori. E visto che i quattro minori saranno stabili verso lo zero, i quattro maggiori quantomeno sui cento, ma considerando tutta la quantità di preti e simili, che teoricamente non dovrebbero avere niente a che fare con gettiti di sorta, può darsi benissimo che i maggiori arrivino anche a quote intorno ai 300/400 litri, o forse anche di più.

Ad ogni modo, già la cifra media di per se è significativa: basti pensare che sarebbe sufficiente a riempire una mezza vasca da bagno, oppure a farsi una doccia ininterrotta di tre minuti e mezzo. Facendo i conti, se con 7200 eiaculazioni totali si produce un quantitativo di 53 litri, sappiamo che 14,72 di quei litri sono da soli il risultato delle 2000 eiaculazioni a testa dovute all’autoerotismo.
Potrebbe sembrare un numero riduttivo e non universalmente rappresentativo della frequenza masturbatoria, ma rimettiamoci fedelmente ai numeri e limitiamoci alle statistiche scientificamente dimostrate: sorge comunque spontaneo come il presentimento di un grande spreco.

Facciamo qualche conto.
Riconoscendo come ormai sia diventata abitudine comune e generalizzata l’atto del pulirsi, dopo l’autoinflizione del gesto erotico, con dei fazzolettini di carta usa e getta, e considerando che in media un’eiaculazione si attesta intorno ai 7,5ml di prodotto seminale fuoriuscito, si potrebbe arrivare a dire che ogni getto spermatico medio equivale circa alla capacità assorbente di un singolo fazzoletto usa e getta, quattro veli standard in pura cellulosa 100%, peso medio di 20g/mq, che vale a dire circa 1g a fazzoletto.
Mettendo in croce qualche numero, per asciugare tutti i 14,72 litri di semenze dovute a una vita di masturbazioni occorrono più correttamente 1962,6 fazzoletti, poco più di 245 comuni pacchetti da 8.
Circa duemila fazzoletti totali a testa, in media.

Ma continuiamo: sapendo che un fazzoletto equivale a 0,0441mq, che 1kg di cellulosa è pari a 0,0036mᶟ di legno estraibile da un albero e che da un comune pino di medie dimensioni e altezza 15m si ricava 1mᶟ di legno, basta fare ancora qualche calcolo ulteriore per capire che, se mille fazzoletti, arrotondando, fanno 1kg di cellulosa, da ogni albero si possono produrre un totale di 277.777,7 fazzoletti.
Molti meno di quanto si potrebbe pensare, in realtà.
Ora, essendo precisamente 1962,6 il fabbisogno di fazzoletti pro capite medio nella vita per assorbire fino all’ultima prova del divertimento intimo di ognuno, non ci vuole molto a capire che ciascuno di noi consuma 0,007 alberi solo per asciugarsi gli attributi dopo la consueta passeggiatina sui siti sporchi di internet.

Potrebbe sembrare accettabile, ma se calcoliamo tutti i maschi in età fertile, facciamo tra i 15 e i 64 anni, nella nostra Italia, rinomata patria di allupati, si ottengono 19.596.708 masturbatori ufficiali, per un totale ben presto calcolabile di 137.176,5 pini di 15m, equivalenti a un enorme albero di circa 9 chilometri, più alto del monte Everest, oppure a una quantità di deforestazione pari a 50 volte l’intero patrimonio arboreo del Parco Nazionale dell’Abruzzo, il più antico parco del paese e ben noto a livello internazionale per il ruolo svolto nella conservazione di alcune tra le specie faunistiche locali più importanti, quali il lupo, il camoscio d’Abruzzo e l’orso bruno marsicano.
Quindi sì, oltre al grande spreco di semenza, si può dire senza tema di smentite che la masturbazione rappresenta altresì una grave minaccia per l’ambiente, ritagliandosi un ruolo di prim’ordine tra i principali nemici della Natura, amata casa madre della nostra umanità.

Ma pensiamo per un momento a come potremmo sfruttare per il meglio le infinite potenzialità di una risorsa di così vitale importanza, magari prendendo ispirazione dalla già battuta strada della semeterapia e delle sue rivoluzionarie applicazioni in campo gastroalimentare.
Considerando che ogni eiaculazione (7,5ml) contiene mediamente intorno alle 10 calorie, e ponendoci come obiettivo di qualità per il dignitoso mantenimento delle funzioni vitali un fabbisogno energetico giornaliero minimo di 500Kcal per ogni essere umano, non ci vuole molto per capire che se anche la sola popolazione maschile, compresa nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, della ricca e feconda Unione Europea (vale a dire 166 milioni e 387.695 persone) fornissero sperma al terzo mondo, invece di distruggere 1.164.715,865 alberi totali, con i loro ben 2.449.226.870,4 -duemiliardi449milionie226mila870,4- litri di sperma estrapolato in solitudine, si sfamerebbe un totale di addirittura 6.531.271,6 persone.

Sei milioni e mezzo di persone, praticamente il numero di ebrei uccisi dai nazisti, che invece, a 70 anni dalla fine della guerra, continuano a morire nella loro shoah silenziosa, al riparo da occhi, orecchie e coscienze dei tanto avanzati e ingordi popoli europei; il tutto mentre 3,1 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno per disfunzioni legate a fame e malnutrizione, per di più insieme a 1.164.713,865 alberi, solo perché nei salotti del primo mondo turbocapitalista globalizzato, dopo la miseria di qualche filmino stuzzicante, non c’è spazio per nessun occhio di riguardo né per l’ombra di un singolo rimorso nel fare i nostri porci comodi e poi gettare via tutto con disprezzo e noncuranza nei fazzolettini, schiavi delle nostre, squallide, cattive abitudini.

Dalla parte giusta

Ci sono cose di cui non parla mai nessuno.
Per esempio, esistono persone con un profilo migliore.

Una volta avevo un’amica, una vecchia conoscenza dei banchi di scuola, che aveva trovato lavoro come casellante all’autostrada. Un lavoro tranquillo, senza troppe responsabilità, pagato ragionevolmente e soprattutto l’unico impiego più o meno fisso che era stata in grado di trovare in anni di ricerche, grazie alla buona parola messa da amici di amici presso le persone giuste. Così, senza fare troppe storie, si presentò negli uffici appositi per ritirare la divisa e prese posto nella sua cabina, all’uscita dell’autostrada. Dopo qualche giorno, però, dovette cominciare a fare i conti con un serio problema, un tarlo nel cervello ben difficile da estirpare.
Ora, come tutti sanno il casellante dell’autostrada ha una posizione standard da tenere durante il servizio in postazione: seduto davanti a monitor e pulsantiera, allunga il braccio attraverso la finestrella situata alla propria sinistra, per ritirare il biglietto insieme al denaro del pedaggio e consegnare l’eventuale resto all’automobilista in coda dietro la sbarra.
Senz’altro a molti questo potrebbe sembrar affare di poco conto, fatto sta che proprio a causa di questa situazione, la ragazza cominciò ad accusare una forte contraddizione con se stessa: fin da quando era piccola aveva vissuto nella più totale e assoluta convinzione di avere un profilo migliore, in particolar modo quello destro. In ogni fotografia dell’adolescenza, in ogni filmino del compleanno in famiglia, in ogni autoscatto delle vacanze con il fidanzato, mai la si era vista consegnare un lato sinistro a favore di camera. Non si era mai riuscita a spiegare esattamente per quale motivo, forse per la piega dei capelli e per la forma che le dava al viso, sta di fatto che quel lato della sua faccia non lo aveva mai potuto sopportare. Nessuno, tra familiari, amici e parrucchieri, era riuscito a toglierle quel problema dalla testa, e lei si era ormai rassegnata a ricorrere a strategie del tutto particolari, come ad esempio camminare sempre accostata al muro del marciapiede sinistro della strada, non salire mai sul sedile del passeggero davanti, e tanti altri piccoli accorgimenti simili.

Quando alla fine realizzò che anche lei si sarebbe trovata inevitabilmente costretta a sottostare alla posizione standard del casellante dell’autostrada, esibendo giocoforza il profilo sinistro per gran parte della giornata e lasciando così stampata nei ricordi dei viaggiatori quell’immagine laterale del suo viso, venne puntualmente travolta da un vortice di gravi frustrazioni e molteplici imbarazzi. Giorno dopo giorno cresceva in lei uno strano senso di inadeguatezza, il quale presto la portò a non sostenere più il peso di quel disagio continuo. Non poche volte si trovava a dover affrontare tanti piccoli istintivi nemici, impercettibili scatti del corpo, movimenti fisici spontanei, tra cui un leggero affossamento verso sinistra del bacino accompagnato dalla duplice torsione combinata del collo e del mento in direzione dell’interlocutore, in modo tale da annullare il più possibile gli effetti nefasti del profilo sbagliato, favorendo una più neutra, seppur innaturale, espressione frontale; ma la strategia nel giro di poco ebbe a rivelarsi controproducente, in quanto la posizione scomoda e legnosa del corpo non tardava ad assumere proporzioni di ridicolezza pari o addirittura superiori a quelle del semplice profilo sinistro di per sé.
Dapprima, pur di dare una svolta alla situazione, provò a cambiare pettinatura, a truccarsi in maniera diversa; poi tentò più drasticamente di studiare un modo per ruotare direttamente l’intero tavolo della postazione. Ancora niente sembrava poterla aiutare, pertanto, per uscire dall’impasse, provò anche a rivolgersi a uno psicologo, che la seguiva instancabilmente perfino durante i turni di lavoro, ma l’unico risultato di ogni suo sforzo era sempre e solo un progressivo e inesorabile crollo di autostima, a livelli decisamente preoccupanti. Tanto preoccupanti da convincerla a cercare un nuovo lavoro, e successivamente, in seguito a ogni ulteriore fallimento, a rivolgersi sciaguratamente alla professionalità di un chirurgo estetico, dal quale si presentò con la richiesta disperata di farle assomigliare, una volta e per tutte, il profilo sinistro a quello destro.

Il medico, senza troppe preoccupazioni, non mancò di stilarle un preventivo, fortunatamente troppo salato per le sue tasche; così la mia amica si rassegnò, fino al giorno in cui, durante un momento di desolazione notturna, fu colta da un’illuminazione improvvisa, un’idea pazza e decisiva per risolvere il problema direttamente alla radice. Decise di simulare una sua conversione spirituale all’Islam, di rimediare da qualche parte un velo integrale, una sorta di burqa o la prima cosa simile che avesse trovato, e di fingere, durante le ore lavorative, la necessità di portare tale indumento per motivi incontestabilmente religiosi. La prospettiva le piaceva, magari avrebbe sofferto un po’ di caldo nei periodi estivi, però almeno aveva la sicurezza di poter finalmente lavorare, durante quelle ore che adesso le parevano supplizi interminabili e angosciose mortificazioni, con serenità e spensieratezza, al riparo da tutti quegli sguardi severi che la tormentavano insopportabilmente.
Superate le prime momentanee ritrosie, comunicò la novità ai suoi superiori, i quali seppur infastiditi non avevano nessun pretesto a disposizione per allontanarla, né potevano rischiare pubbliche accuse di discriminazione o fastidi del genere, cosicché la mia amica poté cominciare a intraprendere una nuova routine quotidiana: la mattina si alzava e, dopo essersi sistemata e aver fatto colazione, infilava il burqa, per toglierlo solo una volta tornata a casa, dopo il lavoro. E così via per settimane: il velo le piaceva, le dava una forza nuova, la faceva sentire finalmente sicura di sé, determinata, e gradualmente ci si appassionò sempre di più, provando addirittura a tenerlo per più tempo, anche fuori dall’orario lavorativo, fino al giorno in cui decise definitivamente di cominciare a indossarlo con regolarità, tutto il giorno, senza interruzioni. Imparò a conviverci, a svolgere tutte quelle piccole azioni della quotidianità, senza rinunciare a niente: si allenò perfino a mangiare gli spaghetti, infilando la forchetta attraverso la fessura per gli occhi. Sempre più affascinata da quell’indumento, decise di cominciare a frequentare il gruppo di fedeli musulmani che glielo avevano venduto, dopo esser venuta a sapere che si riunivano settimanalmente in città, a casa di uno dei membri, per le preghiere e le altre forme di socialità tradizionali. In mezzo a loro sentiva addosso meno problemi, si vedeva accettata in pieno, senza critiche o pettegolezzi, e finalmente adesso sapeva di mostrare agli altri il suo profilo migliore, di essere dalla parte giusta.

Per molto tempo continuò a frequentare quel gruppo, dopo il lavoro: era sempre più presente in ogni attività, e un giorno fu invitata a partecipare a una manifestazione pubblica sotto al Comune, per richiedere che fosse loro riconosciuto ufficialmente un vero e proprio luogo di culto e poter così evitare di doversi continuare a ghettizzare in un garage privato. Lei si sentì fin da subito molto coinvolta e, quasi per sdebitarsi con quelle persone che erano state capaci di farla sentire così bene risolvendole col burqa quel brutto problema del senso di inadeguatezza, presa da moto istintivo si lanciò sui giornalisti presenti, non distanti dal gruppo di locali razzisti contestatori, e con tutta la passione e la foga del momento si aprì con la massima sincerità ai loro microfoni e alle loro telecamere, raccontando per filo e per segno tutto quello che le era successo da quando li aveva conosciuti. Convinta di testimoniare l’accoglienza e la disponibilità di quel gruppo di persone perbene, l’insolita storia consegnata alla stampa finì presto invece per ritorcersi drammaticamente contro la sua stessa protagonista: una volta uscita pubblicamente diventò molto conosciuta in città e, quando la voce arrivò alle orecchie dei dirigenti dell’autostrada finalmente regalò loro un appiglio burocraticamente valido per togliersi dai piedi la casellante islamica. Si dichiararono offesi dalla truffa subita, dall’inganno iniziale del velo che veniva tolto dopo il lavoro e della finta conversione, e a nulla valsero le repliche nel momento in cui le comunicarono, a mezzo stampa e di fronte a tutta la città, il licenziamento definitivo e irrevocabile.
La sera stessa la mia amica, disperata per aver perso il lavoro e avvilita dalla pubblica umiliazione subita, si andò a ubriacare, tanto grande era il suo dispiacere e, sopraffatta da uno scatto di rabbia improvvisa, di colpo prese la macchina e si lasciò andare lungo la sua amata autostrada a tutta velocità, fino a perdere il controllo della vettura nel tentativo di strapparsi di dosso quel vestito che alla fine dei giochi l’aveva condannata a rimetterci lo stipendio che le serviva per campare, restando fatalmente coinvolta nello schianto fulminante contro la monovolume di una famigliola felice, con tre bambini piccoli a bordo, di ritorno dalla settimana bianca.

Da allora ho capito che è meglio diffidare delle persone con un profilo migliore.

caselloautostrada2 bn