Continuava diritto, non era nuovo per lui. Il mento di tre quarti rifletteva pallido nello specchio convesso, disperso tra sfumature ingrandite e lo sguardo disperso nella chiara luce dei quattro fari al neon. La voce della radio resisteva tra le pale innervosite del ventilatore, da cui sprigionava un ronzio sordo come il pomeriggio di metà luglio. Dietro lo specchio, pochi barattoli, e lui seduto di fronte ai segni rossastri dei gomiti disegnati sulle cosce nude. Si respirava aria gonfia e appesantita di monotonia, non c’era da sottrarsi alle intemperie della noia. Ogni passo spiccato verso il mare era frutto di terze possibilità, mai concretizzate nel lusso di un’immaginazione vaga. Soffrire era rimasto privilegio di pochi benefattori, e quel che più induceva in tentazione era la fila di turisti davanti alla cassa del bar, che sembrava messa lì apposta per riempire di schiaffi le facce dei disperati e poi supplicarli di scappare con le tasche piene verso tutti i finalmente di una mezzora successiva nella latitanza latinoamericana. Arrivò il giorno del bagno nudi nel mare: sembravano le due o le tre di notte, se non fosse per la luce della radio e i fiotti di bambini dissanguati che scorrazzavano sotto il cielo asfaltato. Pochi spiccioli nella mano, un soffio di vento e la sabbia che li divora, che viene a leccare la punta della mano con le sue grosse fusa al sapore di nylon e lamiera. Una carrozzeria che accumula gradi centigradi per il solo gusto di tenersi compagnia. Ogni memoria è il richiamo di una foresta incendiata, diventa il segno di un incubo recente, di quelli che tengono sveglie le persone migliori per una quarantina di minuti, agonizzanti, sotto il riflesso dell’occhio assassino che dal quadro sopra il letto ritorna ogni volta a morsicarti il collo, per poi uccidersi nel ventilatore. Ogni passo di felicità diventa panico e disorientamento, la fatica una dolorosa abitudine, la nausea il compagno di viaggio dall’uscita del carcere fino alla prima macchina rubata intorno a un cassonetto vuoto. La forza di un castello di carte che si agguanta alla radice delle unghie e ci sbatte la punta del naso, alternando leccatine veloci e risate spaventose. Ogni ringhiera resta ferma. Ogni ringhiera resta sufficiente per se stessa, e chiama qualcuno. Svuota qualcuno. Un cane senza ombra né affetto, alza le virtù e ci mette la parola fine, come segno di compassione. Continua dritta nella corrente misteriosa delle segnaletiche, gli spasmi di tamponamenti mancati, le angosce del ritratto in salamoia di un passato scomparso.