Ritorna, nel completo abbandono di sé, ogni primavera di luce a sprecarsi di fatiche inutili per ritrovare il sostegno di mille e mille fiumi, dei miei occhi a planisfero, rotondi come carta da forno immacolata di annunciazione, e sarebbe meglio proibire, con leggi di Stato e carte bollate di altissimi ministeri da sottaceto, a costruirmi recinti intorno alle pupille con tanto di guardiani armati di torce e pistole elettriche con la punta arrotondata conficcata nei cadaveri vivissimi di nuovi e nuovi suicidi sempre freschi, sempre col gambo appeso all’albero di legno della fucina dell’abbandono, nuove carte spese a giocarsi in giochi antichissimi, ripetuti per l’Eterno, in ogni assaggio di primavera ritorna a marcire l’angosciante banalità del continuo ritorno, della mediocrissima reincarnazione, resurrezioni fuori moda, abituate ai colori dei minimarket bengalesi, a pochi centesimi quadrati di cavatappi rubati e zaini ricolmi di tempo risparmiato, ritorna sempre da capo, la forza di un inizio già finito in tempi non sospetti, quando ancora non si parlava, e non se ne parlava davvero, di ricordarsi dei contenitori degli altri come se avessero una qualche continuità col tetrapack del proprio cervello, annodato intorno a slogature di polpacci e caviglie malconce sporche di granelli di sabbia e polverine calcaree sgretolate dalle marmitte calde e dai fermagli slabbrati delle carrozzerie rigate, con soffi di luce che rimbalzano fin dentro l’abitacolo e si sperdono sul tettuccio in cristalli di milioni di rifrazioni sbagliate, a inseguirsi per l’infinito sotto l’ombra sagomata dei cartonati della Natura, che frastagliano l’ultimo ricordo di un tempo possibile solo nel futuro, rendendo omaggio alla devastazione di pochi passi successivi al monastero, là dove verso Rila sorge il sole in forme di aspettative, e ancora non se ne sa niente se non che forse qualcuno ti ci porterà e ti ci farà aspettare il prossimo ritorno alle lavastoviglie, alle ganasce sempiterne degli sbavatori assoluti, pochi assaggi di cortesia perdute nelle mance, e in un colpo solo niente di corporale mantiene più una sua qualche forma d’orgoglio tradito, se non ancora vivido nuovissimo ferro da combattimento, nei cappi appesi ai soffitti delle segretissime Segreterie di Stato, lì dove ogni riflessione cade nei pezzi di vetro incocciati sul pavimento a righine colorate, e per sempre continuerà ad aspettare la nuova primavera, con un sussulto di leggerissimo vomito ambrato, colare lungo i bordi della bocca in perle di rugiada e sudore, raccolto da fialette chirurgiche, specializzati dottori di Comprensione che tutto vedono anche senza nervi ottici saldi e manomessi, bypassarti non è mai stato così soddisfacente, e adesso farlo è un obbligo morale, comandamento sacro e inviolabile a suon di lavagna e unghie gessate per una trentina di giorni almeno, fino a quando poi un altro infermiere a bastonate sul prefabbricato verrà con la gola calda e umida a urlarti nell’occhio che tutto va bene fino a che la sala d’aspetto sarà piena e niente e nessuno, lo dice il sussidiario, niente e nessuno, secondo il sussidiario, dovrebbe poterti convincere a non replicarti nel cerchio, nel pendolo a muro della nuova primavera, seriamente, cosa può esserci di meglio del canto degli uccellini del Natale floreale, e perché non starsene seduto davanti alla fauna cittadina a guardare di segreto tra gli spifferi dei palazzi geometrici tutto quello che di nostalgico e derubato adesso non si riconosce più, ma che ancora deve avere qualche valore, deve avercelo per forza, altrimenti non avrebbe senso tutta la nostra storia, tutta la letteratura, che ci siamo finiti a fare sull’argine di un fiume se non era forse per bere, e chi se lo ricorda più perché ci piaceva, però a tutti piace e gondole di nausea attraversano le tribune degli spettatori, mentre tutti seduti a gambe incrociate dopo l’orario d’ufficio si sperticano lungo i cornicioni per trovare nuove e nuove e nuove forme da modellarsi addosso, sui propri cartonati immensi, fino a che non sarà la gondola stessa, a piacerti, a riempirti di sperma le pupille con le sue nerissime doppie dimensioni, spiaccicate su una carta d’identità scaduta, valida per l’espatrio, ma chi vuole espatriare, e dove, dove dovrebbe andare se non verso il cucinotto, la lampada alogena reclinabile che si può mettere esattamente dove ti pare, e ogni angolo buio si metterà insieme a te sull’argine, dopo l’orario d’ufficio, a pensare alle raccomandate di ritorno e a incrociare le gambe lungo se stesse per lasciarsi riempire, riempire fino all’ultima goccia di spazio disponibile, dalle sacre icone dipinte a mano e sfoglie d’oro, che si riversano lungo le moschee delle strade secondarie, senza fondo ma con un qualche ricordo di quando eri bambino, di cani che ti inseguivano fin sulla porta di casa di qualche parente lontano che nel frattempo sgozzava le galline, e tirava il collo fino a non riuscire a sentirti, e per fortuna c’erano portoni, portoni immensi con maniglie da cassettiera che si blindavano tra te e il cane, e lo lasciavano fuori, libero d’andarsene sull’argine se volesse, che tanto ricomincia l’orario d’ufficio, e se anche non ricominciasse, c’è comunque sempre il cane, e di sicuro è meglio aspettare.