Nessuna importanza, teschi di voci ravvicinate si alternano lungo i muriccioli della darsena sovietica, inciampando nelle zampe molli dei cani randagi, croci di sapone, tumuli gialli di neon e luci verdi domandano il listino prezzi all’avvocato e riattaccano il telefono per farti salire sulla giostra, le voci rimangono a metà, sortite maldestre dalle gole sudate, ogni qual volta ringrazi Lawrence e la tazza d’arabica per la stimolazione febbrile, e quando meno te l’aspetti lamine d’oro perfetto scolpiscono il naso delle Madonne Ricurve dell’Est, e prima d’allora non ti rendi conto, non vedi le telecamere, fino a quando non incroci il soffio illegale d’una Signora che ti offre bicchieri di plastica e posaceneri col coperchio abbinato alla tappezzeria, e volano voci di sagome spaventose, linee di simmetria che partono dalla testa e se ne vanno a inumidire i piedi sotto tonnellate di grasso animale e denti rovinati dalle fibre delle arance fuori stagione, vedi la cannuccia sul tavolo e una lingua stentata che rincorre gli sbagli sempreverdi lungo le ringhiere gialle delle cancellate delle scuole, ogni mattone si muove, ogni pietra sul selciato della Rambla Nera ti scorre sulle caviglie per darci rapide puntine d’occhiatacce e predominio, in fondo il parco, di là la chiesa, tutto si definisce nella geometria dei Leoni del tribunale, ogni sasso ti rotola addosso insieme ai pezzi di ferro appesi ai commilitoni, che ti seguono con lo sguardo come appestati fuori misura, e solo tempi perduti da ringraziare prima d’essersi ritrovati, e qualcuno insiste a tornare indietro fino a morsicarmi il futuro, affogato nello yoghurt saporito d’una zuppa al prezzemolo, ogni tanto volano le lettere centrali d’un grande palazzo di Stato, e non sarebbe meglio domandarsi quanto una panchina fuori dalla porta di ritorno non dovrebbe ritornare a ingrandirsi, a farti spazio mentre te ne scorrazzi intorno parlando delle inquietudini dei mondi di mezzo, dei lampioni senza interruttori da sconvolgere, con solo qualche altro adesivo in tasca e le sigarette senza filtro che ti mangiano le labbra sotto l’insegna cirillica della stenta, quella clinica, che ti rincorre dal sagomato del cadavere sul tavolo al pezzo di intonaco sfregiato, e poi fin sui cartelli dell’uscita d’emergenza e sulle lampadine spente che non si capisce bene da dove provengano, sempre che si dia per scontato che poi il passo successivo è un altro pezzo di tavolo da fracassare con le ossa dei capelli, ogni arcivescovo si porta dietro il coro più buffo che si possa sentire, dritto davanti al serissimo corteo nuziale di vestitini rosa e fiori sparsi lungo le navate rotonde dell’organo, e poi già arriva l’ora d’uscire dalla macchina fotografica, tanto per tornare a viversi da un’altra parte, con qualche insegna in meno, meno pastelli laminati sottili come spilli da dentista, e gengive che sanguinano al tocco dell’asciugamano quando poi ci ripensi e capisci che già t’andava bene, [quando non è il caso non è il caso, forse sportività significa anche stringere la mano all’imbuto che non si riesce a rovesciare, quando non si riesce a rovesciarti la pupilla sgozzata in conversazioni postume e immagini di frustate sui piedi, pronte a sfidarti di nuovo].