ubArt?

[insidiato]

E poi capita anche
il mentolo
delle sigarette da qualche
bar nella testa.
dove continua piatta
piatta
e carceriera
la frenesia di una serata silenziosa.
raccapricciante e umida
sotto al davanzale
fuori nel mondo
freddo
della tua prospettiva negli altri.
e capita anche quando
di colpo
una colpa
ti mangia dentro.
e nudo ti alzi e
osservi
tutti che ti guardano
lì fuori
nel mondo delle rette vie
lungimiranti
scintillanti dolcissimo
succo di buona fede
e adeguatezza.
un secondo: tu guardi
e stai a guardare
mentre ti cola
il miele viscido sugli stinchi
e l’unica parola
è sapore di fango
per il tuo quadro che non si
riempie mai
lo guardi e squallido non si riempie e lo vedi
provare disperato a parlarti
a convincere te
disorientato
delle tue introvabili
[canaglie inviperite]
qualità.
che stavolta pure
si rassegnano e
lasciano fare
al rumore di contrazioni
spontanee
delle solite ossa che si fanno aria
nell’aria.
per il sacro che non ti meriti
ma che t’aspetta
a mezz’altezza
equidistante.
senza motivo
ti insegue pure lì
dove non vuoi stare.
nella distanza di un’ambiguità
soffocante
e carceriera.
ma ti insegue
chiuso tra due
fuochi
e te ne fai schifo.
tutto intorno
il dolciume
[appiccica]
sui denti che ti servono.
che ti piacciono ancora
anche a mezz’altezza
dove ti vedi e ti riconosci
mai del tutto
morto per miracolo.
e la testa
è immagine di altri
nella voce di un distacco
che ti vede e si scansa
rivoltando immagini nuove
di te che ti sfotti
da fuori.
fiacco sputo di febbre
disperso
voga sulla gelatina
sfiancante
di parole come di giornale
dette da altri fuori
che ti sparlano dentro.
ma te che ne sai?
è per l’equilibrio, è un problema d’equilibrio
come quando ti sembra uno zoom
quello che ti fanno gli occhi.
o come quando
bambino
non sai dirlo e ci provi
a spiegare che è da
qualche tempo
ormai
che a volte sogni in
due dimensioni, senza
profondità
e te che ne sai, comunque
parli.
prego, ci mancherebbe.
tanto al coperto
a prova di vermi
e coi concerti degli amici da compagnia
quando torna il mentolo
malinconico si disperde lungo il
ghigno
da fotografia ingiallita della tua
[cresciuta storta]
parte di sopra.
eccitante
storta e conturbante se ne va
ah: sì.
per i cazzi suoi.
[si accomodi, faccia pure]
tanto al coperto
annusi fino all’ultimo spiraglio
e l’occhio a mezz’asta diventa
turgido
d’intenzioni migliori di voi.
di nuove prospettive lontane dalle vostre
ma di certo amare, e ancora più
amare e poi attentissime
sottovoce le senti remare
insistenti come forza d’esercito
[te l’aveva detto]
contro la tua stabilità.
pur sempre lei
pur sempre ti tiene
sicuro inchiodato tra una luce e una viscosità
che ti sbrana di un fascino
gelido di sangue.
prima di prendere il peggio da uno dei te.
che in una vita
esasperato insolito stop
ha fatto solo danni mentre voleva
perdutamente
[così, ancora]
essere danneggiato.
[ti prego, ti pago: insidiato]
e come per dispetto ti ritrovi lì
col silenzio isterico che sbraita, affanna
e ti si fa tagliola in gola.
seppur forse
in punta di felicità, isterico
comunque equidistante e
non hai sonno
non hai fame
non hai voglia
non hai crepe
né attaccamenti
e ti piace
lo schifo
di un distacco ancora
mentre il bicchiere
per una nuova prima
volta
gode e ti chiama
mamma.

fumolettoscura

Roço

La senti dentro,
come un richiamo alla nausea, si muove;
implorazione sottomessa, adesso preme.
E tutto il resto dietro, travolto dall’oceano
delle cattive intenzioni.
Ancora vivo, ancora sussurrato, segreto.
Poco più di una confessione.
Un atto di fede.

Non sai se tornerai,
non sai se lo farai,
dicono che ti ucciderai;
ti masticherai e
sotto ai denti,
travolto da nuove ferite,
ti stritolerai.

Ancora una tentazione,
l’incertezza di un momento fermo,
una parola attesa,
che adesso torna a rinchiudersi nella speranza
di una luce rotonda dietro agli occhi,
adesso e solo per te, chiuso in un angolo,
stuprandomi.

Imparerai a volerti,
a sentire le spine piantare radici,
dentro le ossa di un momento vuoto;
una luce accesa dietro agli occhi,
che torna quando non la cerchi
e ti lascia morire il resto dei tuoi giorni,
abbandonandoti alla polvere,
alla tua cenere malaticcia.

Ancora l’attesa,
e una sola la tua sicurezza:
corone inattaccabili, eroiche sul capo,
ti travolgono e stringono,
ancora affamano, e non lo sai,
ti uccidono,
nel vuoto di una realtà mai stata meno credibile,
balorda e tremolante.

Non la vedi ma senti come si diverte
a colare lungo i lineamenti, soddisfatta di sangue,
ancora torna e si scioglie,
e scende fino alla punta del cranio,
fino a farsi vedere, impercettibile.
Ancora la tua uscita,
e calma ti guarda,
lontana e maliziosa, ancora nel terrore.

Salvo dalle tue braccia,
forte della tua forza simulata,
non lo capisci ma ti vedi correre,
adesso sempre più forte,
scappando, abbaiando, urlando,
corri e ti trovi malato,
e debole e stupefatto la senti allontanare,
scappare via.

A fatica scendere,
scorrere nell’abbraccio del tuo corpo,
e lo fai di nuovo, non ci potevi credere,
ma lo fai e lo rifarai, per sentirla correre,
scivolare, ridendo,
addosso a te.

Solo un paio d’ore,
proprio adesso molte di più,
non sai perché ci fai caso,
ma continuerai, fino a vederne altre;
continuerai fino a farti male,
per sentirti ancora rinchiuso,
eroico e destabilizzato;
e ti viene da ridere.

Ridere e scappare, affossarti sul collo e
andare via col freddo nella pelle
che ti morde d’affanno,
e non sai come mai ti mastica le dita
e non vuoi neppure saperlo;
sai che quando lo farai
saprai come fare, come uscire,
sbranandoti di fame e delirio,
stuprandoti.

Qualcosa ti serve,
ti serve adesso per compiacerti,
per sentirti ingrato nella tua personale,
tradita, linfa vitale;
ti serve qualcosa,
qualcosa per continuare a correre
e rincorrerti.
Ancora.

Ci provi senza riuscire,
adesso senza nemmeno volerci provare,
e continui a sentirle,
strette come corone nella tua carne,
le sue labbra,
gonfie di sorrisi maledetti,
di risate infami e meravigliose.

E adesso nient’altro.
Nient’altro, inquieto,
come sempre, nient’altro.
Oltre l’oceano del sangue,
caldo lungo la schiena
come freddo il tuo sudore,
perso e incontrollabile.

Una tempesta addomesticata,
mentre soffochi nella deriva delle tue vene maltrattate
e aggrappate ai suoi denti,
ancora divertiti nella carne,
stretti nella danza,
fermi sulle ferite di una ferocia ammutolita,
in caduta libera attraverso la spirale
di una nausea ordinaria.

Allevia, quello che non riesci a dire;
consola, nel vortice di elastici che risuonano contro loro stessi
in orge festanti di sguaiata depravazione.
Tanto perduto, tutto conquistato,
nei corpi sventrati dei tuoi pochi superstiti,
e ancora ferro,
morbido sotto la lingua,
che non ha tempo per ascoltarti,
nessuna voglia di purificarsi.

E non lo farà,
certo non lo farà;
non per questa tua calma guerra,
né per il rumore pallido delle tue cicatrici,
assordanti nel sogno di un mistero svelato,
di un nodo sciolto sopra la fiamma della
tua realtà.

Quella vera,
a spasso con la prima,
si tiene per braccio e
fortificando ride,
sicura della propria esaltazione;
arde nel braciere inciso sulla tua fronte,
logora ancora per lei.

Se loro mordono,
mordi anche te,
finiscigli i denti e sapranno come ringraziarti.
Sapranno come sdebitarsi,
e allora sarà gioco,
insieme per mano,
a braccetto con i tuoi mostri.

Come fa un bambino
che frenetico insegue il padre
nella sola speranza di una risata più forte,
e scappando si sazia del suono tiepido
di un’espressione complice,
di una smorfia potente ma ancora una volta amica,
alleanza di vita.

E una volta ancora piangi,
nell’isteria di un ultimo,
infuocato,
fremito inorganico,
incatenato alle pareti
di uno stomaco dolorante,
chiuso in trappola dalle tue abitudini
devastanti.

E una volta ancora respiri,
tenendo per mano le pulsazioni
dei tuoi prossimi cinque minuti;
aspettando all’ombra di un’incertezza,
sotto il portone di una dimensione privata,
il riflesso di quel sangue che instancabile
mescola ossigeno e riempie i polmoni.

E una volta ancora danzi,
sul pianto versato del mio vino caldo,
vomitando via l’ultima delle sensatezze
dal riparo dei luccicanti disorientamenti,
in balia dei nervi, nell’abbraccio di una promessa
nascosta e segreta,
in cui torno ad affogare.

E una volta ancora ridi,
violentando l’ultima sopravvissuta ferita,
che ti aspetta, ti riconosce e crolla,
adesso che smette di chiederne il permesso;
d’istinto si libera, intorno alla sua improvvisa frenesia,
primitiva schizofrenica tenerezza,
e parla con voce sincera una fantasia di ribellione.

E una volta ancora cado,
preda della tua giocosa spietatezza;
il sogno antico di una perversione più vicina
ora che mastica rabbia e sovverte.
E ridi mentre rido,
delirando vita,
sconvolti di roço e d’amore.

giuditta klimt

Stanco di tifare rivolta

[Avvia la musica e leggi, se proprio insisti…]

Stanco di tifare rivolta.
Come se provassi a vivere.
Perdere tempo.
Dilatare un tempo infinito in posti sempre più accoglienti.
Voglio avere freddo.
Tanto freddo.
Sempre meglio.

Osare l’impossibile.
Anche quando è impossibile.
Anche se è impossibile.
Impossibile provarci.
Proprio per quello.
Provare.
Osare avere freddo.

Confusione.
E’ il riparo, non scappare.
Non ci provare.
Dammi retta, non scappare.
Agitati, è l’unico riparo.
Credimi.
E’ la tua forza.

Tentazione.
Attento, il riparo si sgretola.
Si sta sgretolando con te dentro.
Ma non scappare.
Non ci provare.
Non è quello che ti serve.
Non c’è niente che ti serva.

Guarda su, continua a guardare su.
Non ci provare, non scappare.
Non è quello che serve.
Mai niente di più, lo sai.
Non c’è niente che ti serva.
Vedi i nervi, vedi le vene.
Strappa i nervi, seduci le vene.

Continua.
Sempre, perché non c’è niente che ti serva.
Agitati, diventa agitazione.
Esalta il riparo ma senza morirci dentro.
Sfugge dall’agitazione, ti tenta.
Ma si sta sgretolando.
E tu ci sei dentro.

Non uscire, non c’è niente che ti serva.
Tu sei vivo.
Devi restarlo, in agitazione.
Perdi tempo.
Perdilo, scaglialo, mangialo, ubriacalo.
Divorati.
Non c’è niente che ti serva.

Non correre.
Non scappare, non farlo.
Domandati perché.
Non serve, lo sai.
Non correre.
Non scappare.
Non serve.

Coltivalo.
Va coltivato, istruito, guidato.
Guidati.
Continua a farlo.
In agitazione.
Odia i nervi, placa le vene.
Ama quel che trovi di più.

Ma non cercare, non correre.
Non ti inseguire, non tifare.
Più ti muovi e più si sgretola.
Fermo, ma in agitazione.
Come sempre, senza tifare.
Come sai fare tu.
Ricordatelo.

Non c’è niente che non ritorni.
Continua perché sai come si fa.
Lo hai imparato.
Ci hai perso sangue.
Stai sanguinando anche adesso.
Ma non ci pensare, non correre, non scappare, ti prego.
Dammi retta.

Hai perso sangue.
Ti sei divorato da solo.
Ma non sgretolarti, non cedere.
Diventa tentazione, cederà il resto.
Provocati, agitati, scalmanati.
Ma non correre.
Non c’è niente che ti serva.

Niente che serva davvero.
Non se le regole sono queste.
Cambia le regole o ti sgretolerai con le carte in mano.
Bruciale.
Agitale.
Ma non correre.
Ti seguiranno.

Ti faranno guerra.
E tu lo vuoi.
Ma sai che non serve.
Ma non importa, non ti piacciono i granai.
Non si sgretolano, non si agitano.
Tanto vale che non esistano.
E non esistono.

Dammi retta, datti retta.
Ascoltati, lo sai.
Guarda su, continua a guardare su.
Mangia i nervi, le vene ti piace guardarle.
Ma non ti serve.
Non cercare quello che ti serve.
Non c’è niente che ti serva.

Dammi retta, ti prego.
Impara il francese, fatti furbo.
Smetti di correre.
Fatti furbo.
Furbo ma da solo.
Da solo, senza correre.
Solo con tutti.

Senza perdere pezzi.
Sgretolando quello che vedi.
Provocandoti.
Uccidendoti.
Guardando su.
Coltivando.
Coltivando l’agitazione.

Continua.
Senza correre, ti prego.
Va meglio.
Quando è qualcosa più di niente.
Più di niente, una tentazione, da solo.
Solo con tutti.
Coltivando l’odio.

pieroriottagliato

Due o tre cose che non so di me


“Due o tre cose che non so di me” (2013), è un cortometraggio sperimentale ideato, scritto e realizzato da A.G., liberamente e sommessamente ispirato alle tecniche espressive e stilistiche del movimento cinematografico della Nouvelle Vague francese. Se ne sconsiglia la visione ai non predisposti a stravolgimenti del profondo sub-retinale, ai frettolosi e più in generale ad un pubblico adulto non accompagnato.