A pensarci bene c’era un ultimo dettaglio che mi incuriosiva, il tempo giallo. O almeno io da qualche tempo avevo cominciato a chiamarlo così. Quel particolare colore assunto dal cielo d’estate subito dopo un temporale, solitamente verso il tardo pomeriggio. A differenza di quanto si possa immaginare, l’esatta combinazione di tutti i requisiti del tempo giallo, almeno nella formulazione che intendo io, non è per niente facile da ottenere. La mia prima serata di tempo giallo, ormai molti anni fa, fui sorpreso dal mio primo bacio, mentre seduto sul bordo del marciapiede cercavo di non far cadere la schiuma della birra stout dal bicchiere. Le altre furono tutte molto più serene, fino a quel giorno. Il finestrino del treno mi sbatteva in faccia i grossi goccioloni del temporale, e assorto nelle brusche evoluzioni del paesaggio non prestavo attenzione ai rombi ininterrotti dei tuoni, cadenzati come a metronomo dallo sbattere delle porte di separazione tra i vagoni. Impassibile, non riuscivo a giustificare il sudore che mi correva sui fianchi; per quanto intimamente fossi consapevole che doveva essersi persa la sincronizzazione tra ciò che vedevo e la posizione esatta del mio corpo, restai ammutolito nelle barriere insonorizzanti che si spiaccicavano sulle pareti del tunnel insieme alla vernice dei graffiti e i tralicci dell’alta tensione che si mescolavano alle coltivazioni intensive delle pale eoliche. Lentamente la geometria nelle ringhiere dei terrazzi di campagna cominciò a cambiarsi di posto con le linee gialle dei binari, e lo stridio dei freni mi portò di scatto nel sottopassaggio della stazione. Appena uscito, rialzandomi dal mozzicone di sigaretta riconobbi il tempo giallo. Immagino chiaramente cosa possa aver provato quando la panchina nel parchetto della piazza cominciò a rivolgermi la parola con tutta l’aria di un nuovo mozzicone di sigaretta, adesso decisamente più contemplativo. Mi disse che le facciate degli edifici le ricordavano il riflesso delle carrozzerie metallizzate delle auto sull’asfalto umido, il quale le ricordava le grosse ruote delle carrozze sui sampietrini delle vecchie strade ottocentesche, che le ricordavano la luce calda proiettata sul manto lisciato di fresco dei cavalli, che inevitabilmente le ricordava le vecchie pitture a olio studiate a scuola. Mi trovai chirurgicamente d’accordo e fu sufficiente un cenno col capo per rinsaldare l’intesa. Le nostre effusioni diventarono mezzore buone e senza che ce ne fosse bisogno aggiunse che serate come quelle erano troppo imperdibili per viaggiare senza i piedi sui pedali e l’orecchio puntato sulla frizione. Sogghignando. Il mozzicone si spense di rabbia e disgusto, mentre il grande orologio si lasciava degradare senza troppe aspettative all’attesa di un ritorno precoce. Cadenzati a metronomo senza biglietteria, i pesanti passi d’anfibio presero posto sul sedile davanti.
E mai più nessuna panchina fu degnata d’attenzioni.