68-bis

Io sapevo di quello fenico, ma poco importa se il tradimento è la via della sussistenza. Lentamente mi scesi di bocca il combustibile e la memoria gusto lime prese possesso delle mucose, lievemente frizzante intorno alle pareti della lingua. Quando ripresi a guardare verso la strada mi resi conto che la storia stava procedendo verso un cambio di direzione. La lasciai perdere e mi infilai in un bar-macelleria affrescato a olio, stile vecchio condominio e nobiltà palermitana. Le file al ristorante si dimenavano come quaglie afrodisiache nel petto degli adolescenti, pochi gorgoglii telefonici a disturbare il flusso delle coscienze disinibite. Ogni mercificazione profumava d’oro colato, sangue di vitello negli occhi di una ricerca d’approvazione. Le teste squadrate dei convenuti correvano a reclamare attenzione dalle compagnie geometriche che riuscivano a ritagliarsi intorno. Dietro di loro, i grossi rasoi d’acciaio tintinnavano sul costato gelido delle carcasse gocciolanti in un coro di silenzi di cristallo, lasciando nell’aria solo uno strano odore di umido e di moquette.

La nebbiolina leggera delle sigarette al mentolo svaporava tra le punte dei compassi come una banda di piccoli mammiferi a inseguire la noce di cocco della mensa universitaria. Ogni pericolo tirato a lucido dalle fotografie subliminali dei passanti se ne stava accucciato nel centro preciso della rigorosità matematica della folla. Le sillabe dei convenevoli si riunivano in bande di giovani disadattati, figure apocalittiche ripiene di battute pungenti che correvano lungo i muriccioli dei canali in cerca di qualche parola a piede libero da torturare un po’ alla meglio, quasi per scherzo, innocentemente. Note di colore affollavano gli arcobaleni nell’aureola degli alcolizzati, e tranquilli e beati s’andava avanti tutti. Camminavamo in fila, ognuno nel microcosmo, ça va sans dire, a passo di sfilata, nel perimetro dell’onorificenza funebre in cui ci riconoscevamo e che tanto ci spaventava. Giocavamo a far finta di conoscersi, e non c’eravamo nemmeno messi d’accordo.

Lentamente, uno dei fari proiettati nella locanda, posizionato all’ultima fretta e furia disponibile, cominciò a surriscaldare più del solito il bordo dei cartonati portanti, e non ci volle molto prima che la notizia facesse il giro degli angoli del locale, sconcertando le voci stridule fino all’ultima delle resistenze. Seguimmo tutti l’incedere incessante della marcia, qualcuno di scatto si lanciò dalle finestre socchiuse e venne raccolto nelle ceste dei portalettere e rispedito nella confezione. Qualcun altro provava a trattenere il respiro per distrarsi dall’odore, e il più delle volte preferiva lasciarsi cadere, ammosciarsi per terra e svenire tra le fiamme, piuttosto che sobbarcarsi la fatica di qualche inutile reclamo.
Ci volle solo un lieve riavvicinamento alla vita, da parte del gracile macellaio, prima di sospendere gli occhi a mezz’asta e incorniciarci dentro la mia figura confusa, e probabilmente anche troppo poco integra rispetto a quella che potesse aspettarsi da un semplice cliente. Domandai la porta del bagno con una lamina di sillabe quasi impercettibile a orecchio nudo, dopodiché trascinai gli occhi lungo la sua lama fino alla punta del coltello, che m’indicava una tromba metallica di scalette a chiocciola che si diramavano dall’angolo della carne di maiale fino al luminosissimo sotterraneo. Uno stretto corridoio bagnato al neon rifletteva nevrosi clandestine di corrente alternata, lungo la ceramica delle piastrelle tirate a lucido. Un tappeto invisibile stuprato da continue cascate di basalto fuso. I miei passi non riuscivano a far rumore, soverchiati di riverenza per l’assoluto silenzio di quella cornice.
Raccolsi una gomma da masticare dal rossetto della manica e tanto mi bastò per prendere le gambe e schiaffarle contro l’oblò della porta scorrevole, che dava fino al sottoscala col vespasiano.

Accanto a me, in equilibrio sul buio, le sagome ingiallite di milioni di incontinenti, veloci ombre innervosite, mi fissavano a scatti i volti di tutti quelli che erano passati di lì prima di me. Mi si stringevano al collo nella morsa di antichi spiriti, insoddisfatti dalle generazioni concepite. Vidi tra di loro piccole assi di legno sgraffiarsi a vicenda con le punte sporgenti dei chiodi, fino a consumarsi a sangue negli urti inevitabili con le pesanti superfici di marmo battuto. Mi rimase della cenere sul ginocchio, corsi a leccarmela e uno di quegli uomini mi si piantò davanti, senza presentarsi né chiedere spiegazioni. Ansimava, con gli occhi spalancati, e mentre gli altri lo spintonavano una delle assi mi si strusciò lungo il solco di una vecchia cicatrice. La fronte di quell’uomo era l’unica parte di sé che avesse conservato la memoria di una vaga sfocatura di colore. Tirò fuori la fiocina da dietro la lingua e mi conficcò vari gradi di veleno dritti nell’interno coscia, a peso di piombo. Sotto a cosa si ripara il carcerato quando viene il terremoto, capitano? Che fine fanno le matricole? Gli tirai una mano sulla faccia, senza precisione, senza riuscire più a vederlo. Sotto a cosa mi metto, brigadiere? Come risciacqui gengivali in lontananza finalmente riuscivano a riemergere i primi suoni, simili a martellate d’ovatta sulla pelle d’un tamburo tribale, e nessuno chiedeva in cambio una mezza sigaretta o uno spicciolo per fare festa, per potermi osservare, impiccato all’interruttore, mentre affogavo. Mi abbassai sulle ginocchia, sfilando lentamente i pantaloni. Tutti gli occhi addosso, e in pochi possono sapere quanti, a rubarti a gratis le soddisfazioni di una pisciata isolata. Veleggiavano intorno con pupille affilate, nelle loro orbite celestiali, sventrando i grossi nervi del muro come la corteccia di una quercia secolare. Senza controllo, ogni tanto alzavo lo sguardo verso il soffitto e mi sentivo libero. Veniva quasi da domandarsi come mai girasse in entrambi i sensi, il vortice dello scarico. Non avrei saputo descrivere fino a che punto esatto di collisione potesse confermarsi quella verità, e tra le unghie bagnate di mousse delle schiere profanate dei pisciatori, chiamati a raccolta da incastramenti superiori, realizzai una mezza spiegazione solo quando già non riuscivo più a vedere altro sotto le caviglie se non il cadavere rigonfio dei pantaloni sfribrati, lasciati liberi a marcire sul pavimento, bagnati della più divertita desolazione. Un brivido gelato lungo l’interno coscia sinistro, mentre li tiravo su. Strinsi la mano alla piccola porticina del sottoscala, chiusa a chiave dall’esterno, e cambiai direzione.

Risollevai l’oblò dal suo paradiso di distrazioni e con qualche sforzo navigai fino a raggiungere nuovamente la tromba delle scale. Continuai a scendere seguendo i pendii traballanti degli scalini metallici, dai quali esalavano lontane eco, come di confusi mazzi di chiavi violentati dal pollice del guardiano, a ogni rintocco di suola. Il piano al di sotto del sotterraneo; nuovamente i piedi si saldavano nell’asciutto, l’aria viziata e in un lato del piccolo bunker squadrata la figura rifinita di quella che dalla cicatrice sul collo riconobbi come la moglie del macellaio. Stava in piedi dietro alla robusta vetrata di un casottino, improvvisato biglietteria, e dal piccolo forellino rotondo posto all’altezza del mento mi chiese di svuotare almeno una delle tasche di famiglia, e poi di procedere verso delle striscioline di plastica trasparente raccolte in una specie di macabra tendina. Di là dal muro ritrovai Georg il sasso, imbustato dentro una sacchetta di quelle per i prelievi del sangue e riposto accuratamente dentro una cassaforte lasciata col coperchio socchiuso. Lo presi per mano, lo rinfilai nella tasca e imboccando nuovamente la tendina mi riportai verso le scale a chiocciola e continuai a scenderle, un piano ancora, verso l’uscita.

Le chiazze neroverdi delle venature rimbombavano trombe da bersaglieri sulle pareti febbricitanti, sbattute sulla porta a colpi di ferro, nell’incedere continuo delle controfigure. L’odore di bruciato del cartone portante riempiva la clessidra di fumate di un denso nero appiccicoso, e i cardinali da capo col copione in mano si rituffavano sotto chiave nella salamoia di una nuova votazione. Guardia, dimmi, quando viene il terremoto? La marcia della tonnara vomitava il passo anfetaminico della prima sbronza cruenta, sputi sanguinolenti filtravano addosso agli osservatori come piovuti dalla picca di un’implacabile falange romana. Il fracasso di un primo incendio doveva aver confuso la psiconautica militare, e restava una fronte sfocata a insidiarmi sotto tempia le sue contraddizioni al silicone. Quando viene il terremoto?

Il mondo all’esterno s’era fatto giallo e umido; le nuvole riflettevano i primi raggi del sole, sortiti in ritardo dal mosaico delle nubi per rischiarare gli ultimi traffici del tramonto. Fuori da quella baracca infernale, affrescata alla palermitana, un Cristo irredentista versava fialette d’orina infetta nella gola dei mendicanti, e cercava poi di convincerli a sputarmi in faccia. Fortunatamente, bagnato fino al cavallo dei jeans fuori dalla macelleria, dovevo pur contare qualcosa più di lui, e nessuno s’azzardò a dargli retta. Qualcuno tra i più orgogliosi continuò ad osservarmi ancora per qualche momento, poi anche loro realizzarono, e fu calma piatta fino al sopraggiungere della stanchezza. Mi strinsi la tasca in una risata e c’addormentammo entrambi sul primo sedile macchiato di sperma della carrozza per le biciclette d’un treno in demolizione, al deposito della stazione centrale. Nel bel mezzo della demolizione.

26 febbraio

Quando per la prima volta conobbi mio figlio, l’eco di una vecchia marcia militare ungherese filtrava dallo spiraglio di una lontana finestra lasciata socchiusa dalle temperature roventi dell’estate. Sonorità incerte mi si stuzzicavano in mente, a contorno del turbinio violento di esplosioni confuse, responsabilità, rabbia e sensi di colpa. In mezzo agli occhi, stampata la fotografia di un quattordicenne perfettamente normale, quasi patetico, altrettanto confuso. Lo presi per mano e cominciammo a camminare, diffidando l’uno dell’altro come due estranei stritolati in una conversazione obbligata a casa di un amico comune. Le note determinate della marcia per la prima volta intimorite dal silenzio impetuoso delle ultime ore di luce. Ci volle qualche altra ora prima che entrambi ci rendessimo conto che nessuno dei due avrebbe mai avuto intenzione di introdursi all’altro. E per il momento ci andava bene così. Non potevo fare a meno di fissarlo, di stupirmi di quanto non avesse assolutamente niente di particolare, nascosto da qualche parte sotto il maglione di lana, o i jeans sabbiati tenuti alti in vita dal quarto buco della cintura. Come da rituale, mi venne in mente soltanto d’andare a prendere un caffè e così fu, tanto per ossequiare la tradizione della mano stretta intorno alla sua. Me lo trascinai dietro fino al primo bar con i tavolini all’esterno, tra un’occhiata e l’altra della sigaretta che mi si consumava nervosa tra le dita. Accavallai le gambe sulla sua faccia annoiata, appoggiandomi saldamente allo schienale della fresca sedia di metallo. Il caffè aveva l’aria d’esser stato partorito di fretta, come quell’oscura controfigura che mi si parava a ostacolo tra la vita reale e il suo successivo momento di noia mortale. Il liquido viscoso nella tazzina si increspava con la geometria sinuosa d’un metronomo fedele, e mi sputava in faccia vibrazioni convinte di fumo e umidità. Notai che la sua fronte sembrava arricciarsi ogni volta che la mente mi trasportava verso l’idea di sua madre, e ancora non ero sicuro di quanto fosse consapevole che non avevo alcun sospetto di chi potesse essere quella donna. Le sue espressioni predeterminate mi prosciugavano fino all’ultimo istinto violento, rassicurandomi di frustrazioni, paranoie. Sembrava proprio che qualcuno l’avesse messo a conoscenza del copione, che avesse imparato le battute e che ne seguisse l’evoluzione con il distacco professionale di un commediografo navigato. Non ero sicuro di quanto si sentisse protagonista e quanto spettatore, della sua stessa vita. Mi fece tornare alla mente il gioco a cui ricorrevo da ragazzo per ristabilire i nervi subito dopo gli attacchi di panico. Da che mi possa ricordare, era tutta la vita che soffrivo di quelle crisi, e l’unico modo per riuscire a placare le mie isterie adolescenziali era un gioco. Convincersi, intimamente, con tutta la dedizione che incatena un artista alla più promettente delle sue opere, di vivere ogni singolo istante della propria vita come il protagonista del libro dai cui se ne potrebbe trarre ispirazione. Come un personaggio fedele rimettersi alle dita paterne dello scrittore, rassicurato dalla sua buona volontà, libero dal morso pressante del senso di responsabilità, del libero arbitrio e di tutti i suoi seguaci. Rimettersi, completamente, nell’attesa di cosa succederà dopo, di quale sarà la prossima assurdità partorita da una mente illuminata, capace di catapultarti in un vortice scombinato di sfortune talmente atroci e grottesche da non potersi sospettare di essere vere. In quel momento, appoggiato al fresco schienale della sedia metallica del bar, rivedevo incarnate fino all’ultima delle mie contraddittorie simultaneità. Entrambe le nostre tazzine avevano tutta l’aria d’essere possedute da un impercettibile demone musicale, come fosse talmente forte e persistente da riuscire a manifestarsi soltanto sotto forma di un soffocante silenzio assoluto. Il soffio tenue di vapore che sprigionava dalla ceramica bollente della tazzina sembrava rievocare l’umore di un detenuto sulla via dell’evasione, e mi lasciava preda di un certo irripetibile senso di inferiorità. Dall’altra parte del tavolo, altre due rètine impazzite seguivano stordite quello stesso soffio di vapore, le oscillazioni che disegnava in aria sublimandosi, e le stesse dita ustionate a stritolare la ceramica, irridevano in vampe nervose di urlante sottomissione. Chissà chi poteva essere quella donna, quella che tanto si dimenava per deformargli la fronte, ogni qual volta mi azzardassi a sfiorarla col pensiero. Di certo avrebbe avuto un aspetto almeno più umano dei nostri, magari di una calorosa vitalità, sanguinosamente ferita dalla violenza domestica d’un secondo binario, fatto di depressioni e fotografie; niente di originale in realtà, ma credo proprio che sarebbe potuta essere lei. O magari la commessa della tabaccheria, quella che ogni volta insieme al resto mi faceva trovare sul bancone l’accendino di quel colore osceno che compravo soltanto io e che l’aveva fatta innamorare. O forse di meglio, la bella cameriera del bar, che con le dita affusolate da poco più che ventenne veniva a portarmi il conto. Un bastardo foglio di carta, niente di più d’uno sputo d’inchiostro, che mi si avvinghiava intorno al collo. Ora che, di nuovo, di caffè non si sapeva più quanti pagarne, e nessuno di quelli aveva di certo l’aria del protagonista.

Periferia est

Era da molto tempo che non si registravano temperature così basse come quell’inverno.
L’asfalto dei viali piegato dalla brina luccicava al sole gelido del tardo pomeriggio, sfogando decenni di manie di protagonismo represse dai tubi di scappamento dei vecchi autobus di linea. Nell’aria si percepiva un profondo senso di silenzio. Il freddo aveva rimesso tutti a un’isterica repulsione contemplativa, che si librava sui tetti innevati, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali del quartiere. Negli appartamenti l’insolito carico di umori contrapposti e vibrazioni contraddittorie dava vita ad atroci litigi domestici, in cui cattiverie e crudeltà verbali per una volta si sostituivano al classico tepore della violenza fisica. Ad ogni modo, fuori casa i rapporti interpersonali si erano ammorbiditi; il tasso di disoccupazione era pressoché totale nella zona e sembrava che grazie al ghiaccio si fosse finalmente trovato un pretesto valido per giustificare a se stessi e agli altri quel profondo stato di marginalità sociale. Automobili impraticabili, strade bloccate e mezzi di comunicazione fuori servizio erano stati sufficienti per rassicurare i toni delle conversazioni nei luoghi di ritrovo, in cui solitamente si consumavano sensi di colpa, complessi d’inferiorità e interi cataloghi di nevrosi assortite. Il timore di sentirsi rinfacciare le proprie inutilità era diventato una vera e propria ossessione di massa, una paranoia collettiva sempre più faticosa da mitigare, e la temperatura rigida di quell’anno arrivò con la tempestività di un’operazione chirurgica ad arginare l’imminente crisi di nervi. La mancanza di lavoro era superata solo dalle feroci instabilità della noia e dai risvolti inquietanti dell’apatia che ne conseguiva. Pur di riempire in qualche modo il tempo morto, ci si dava ad ogni tipo di attività, più o meno immaginaria. Una casalinga del terzo isolato aveva allestito in cucina un vero e proprio bancone da pub e trascorreva pomeriggi interi a servire superalcolici ai due figli di sette e dieci anni, evocando l’immagine di una locandiera di mezz’età stressata dal maltempo. Un ventiduenne del secondo isolato da qualche mese girovagava tra gli edifici segnando appunti confusi e sconnessi su una cartelletta da funzionario del catasto, mentre a suo padre era venuta in mente la parola carcerato, e da una quarantina di giorni ormai non usciva di casa. Un anziano dell’unico grande condominio del primo isolato, ex pilota dell’aeronautica militare, si era costruito una guardiola rudimentale accanto all’ingresso dell’edificio per potersi improvvisare portiere e togliersi il cappello in segno di saluto al ritorno delle due signore del quarto e sedicesimo piano che ogni mattina alle sei tornavano nel nido coniugale dopo aver passato la notte a prostituirsi. Per loro sfortuna non conoscevano né l’ex dirigente delle poste del secondo isolato divenuto puttaniere, né la sua anziana moglie che per rimanere vicina al consorte si era immaginata una discreta abilità nel gestire il traffico delle schiave sessuali, così restavano entrambe ogni sera a incendiare copertoni senza nessuna effettiva produttività. Il più originale era stato senza dubbio un vedovo del terzo isolato, che aveva allestito un’intera bisca clandestina nel sotterraneo di un casinò di lusso inserito all’interno del suo forno a microonde; restava giorni interi col sigaro in bocca a fissarne il piatto di vetro roteare a vuoto, come simboleggiasse l’attività incessante di un ipotetico registratore di cassa tra le mani di un giovanotto suo dipendente, tenuto a libro paga soprattutto perché mantenesse il silenzio sulle attività illegali che si svolgevano sotto i suoi piedi. In buona sostanza, tutti avevano bisogno di qualcosa da fare ma nessuno si sentiva propriamente a suo agio nel coinvolgere gli altri in un qualche progetto più concreto. E la situazione stava cominciando a precipitare. Il giorno in cui il ventiduenne del catasto convinse la vecchia zitella del commissariato a indagare sul forno a microonde, fu probabilmente soltanto merito dei comuni effetti del freddo se si riuscì in qualche modo a placare gli animi e superare le diffidenze, scongiurando il pronto intervento degli inquilini dei condomini F e G del quarto isolato, trasformatisi improvvisamente in due eserciti sull’orlo di uno scontro nucleare per il predominio. Per ritrovare un temporaneo senso di comunità dovettero aspettare fino a quando, in seguito a un imbarazzante caso di omonimia, una vecchia fabbrica di ceramiche assunse per errore un cittadino della periferia, forse l’unico che fino a quel momento non si era trastullato con nessun impiego immaginario. Nessuno si ricordava più da quanti anni nel registro nazionale dell’impiego non risultassero nome e cognome di almeno uno tra tutti gli abitanti della periferia est, praticamente una città a sé, distante svariate decine di chilometri dalla metropoli. Recuperati orgoglio e autostima, nei primi tempi si organizzarono feste di paese in grande stile e allegria, per festeggiare l’avvenimento; i vari capifamiglia ballavano e si alcolizzavano nella palestra dell’antica scuola abbandonata, ipotizzando un periodo di celebrazioni ufficiali che concedesse a tutti loro una tregua dalle rispettive occupazioni di fantasia. Messi da parte gli antichi rancori, spremevano al massimo tutto l’entusiasmo ricavabile da un CD rigato di Muddy Waters e un paio di amplificatori da chitarra di provenienza incerta. Comprensibilmente, l’euforia iniziale svanì nel giro di poche settimane, lasciando il posto a conseguenze ben più irritanti. Giorno dopo giorno, l’operaio ancora fresco di nomina percepiva un crescente isolamento intorno a sé; evitato dagli altri, che nel frattempo avevano ricominciato a temere possibili confronti esistenziali e soprattutto spiacevoli dimostrazioni della loro inferiorità economica, ancora non sapeva di essersi reso il protagonista involontario della più violenta delle grottesche crisi di convivenza che si fosse mai registrata nella periferia. Sempre più segretamente spaventati dal giudizio delle proprie mogli, non ci volle molto prima che per tacito accordo tra i disoccupati si cominciasse a cancellare gradualmente ogni testimonianza della sua stessa esistenza. L’operaio, forse il più stupido tra i maschi adulti, non aveva famiglia e viveva da solo in un bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, collezionando le etichette delle bottiglie di birra che trovava per strada. Nel momento in cui arrampicandosi fino alla sua cassetta della posta trovò la lettera in cui lo si bandiva da tutte le adunate pubbliche e dai pochi luoghi di ritrovo rimasti in attività, poco lontano si sorteggiava a sorte chi dovesse andare una seconda volta fino al quarto isolato ad avvisarlo della volontà unanime che non si facesse più rivedere per strada in orario di luce. E subito prima che il secondo messo portasse a termine la nuova comunicazione, in assemblea era già stato suggerito di invitarlo, con le buone o con le cattive, a non uscire proprio mai più di casa; senza prevedere che qualche giorno dopo sarebbe stata definitivamente dichiarata l’apertura della vera e propria caccia all’uomo. Incatenato all’armadio del bilocale, l’operaio rimuginava sulla sua passione per le bottiglie di birra che l’aveva costretto a violare il coprifuoco imposto dalla comunità, mentre nel reparto cucina a pochi metri da lui un ex impiegato di banca sulla quarantina, con tre figli licenziato per improduttività, lasciava cadere distrattamente la cenere della sigaretta nel cerchio del bicchierino di liquore aromatizzato, versato poco prima per ingannare il tempo del suo turno di sorveglianza. Al discount dall’altro lato della strada, il turno a cui si pensava era quello della presidenza a rotazione del consiglio straordinario di gestione che si era ufficializzato all’ultima riunione dei capifamiglia nella palestra della scuola, allo scopo di garantire e mantenere la prigionia dell’operaio, le cui incombenze organizzative toccava presiedere al cinquantasettenne con quattro figli del trilocale al sesto piano del grande condominio unico del primo isolato. Spingendo il carrello tra gli scaffali di cibo in scatola rimasti all’abbandono dopo il fallimento dell’attività, s’interrogava sulle responsabilità del nuovo incarico; scervellandosi sulle direttive da impartire, realizzò l’importanza della struttura gerarchica e ne stabilì dettagliatamente le varie diramazioni. Per prima cosa regolamentò il servizio di sorveglianza dell’operaio prigioniero, formando un nucleo operativo di trentadue effettivi, divisi in quattro squadre da otto alternate in tre turni giornalieri. Subito dopo toccò al servizio sostentamento, che si procurava cibo e consulenza psicologica per il detenuto, poi al servizio igiene e pulizia fino al settore qualità-della-vita, che si occupava di assicurare i servizi minimi fondamentali di soddisfacimento alimentare, intellettuale e sessuale. Continuò con il servizio manutenzione, che si occupava dei lavori di riparazione in casa, quello di intrattenimento, di applicazione artistica, qualche corso di cucina e di meditazione, mentre venivano implementate le forze di controllo con l’ausilio di impianti di videosorveglianza installati da tecnici qualificati e istituiti reparti specializzati di polizia investigativa. Quando si dimostrò più difficile del previsto debellare l’ossessione dell’operaio verso le bottiglie di birra trovate in strada, fu inaugurato un ulteriore livello organizzativo: si crearono laboratori per gruppi di ricerca e sperimentazione che sviluppassero sistemi sempre più creativi e funzionali per far sì che l’operaio fosse cancellato dai ricordi della società civile, che gli fosse impossibile qualsiasi interazione con l’esterno ma che al tempo stesso potesse disporre di tutto ciò di cui necessitava. Tagliato fuori dal mondo con un sistema ideato per riprodurre artificialmente il sistema propulsivo delle valvole a nido di rondine nei vasi sanguigni, l’operaio viveva impassibile la furia di laboriosità che si era scatenata intorno a lui, accettando anche se con un po’ d’amarezza lo stile di vita tutto sommato privilegiato che gli era stato riservato. In breve tempo, quasi tutta la periferia aveva trovato un’occupazione in uno dei quattro livelli [manovalanza, sicurezza, servizi, ricerca], e per la prima volta in assoluto stavano tutti cooperando per un unico grande obiettivo universale, di cui tuttavia in pochi ricordavano ancora l’esistenza. Grazie al gioco di squadra dei capifamiglia, l’assemblea di gestione otteneva risultati sempre più entusiasmanti. I più illuminati compresero presto che se l’operaio avesse perso, a causa della detenzione, il posto di lavoro da operaio, sarebbe venuta meno l’esigenza iniziale che stava indirizzando e motivando l’intera nuova struttura sociale; venne così istituito un ultimo livello organizzativo, composto da un gruppo scelto di abili comunicatori e piazzisti reclutati tra ex venditori, impiegati delle assicurazioni e fanatici religiosi, affinché elaborassero e mettessero in pratica un manipolatorio piano di convincimento a lungo termine nei confronti della fabbrica di ceramiche. Sbalorditi dalle potenzialità della forza di volontà umana, misero in campo tra le più fantasiose delle menzogne, facendo sì che dopo mesi di lontananza dal posto di lavoro l’operaio non venisse ancora formalmente licenziato. Tutto adesso quadrava, ogni ingranaggio contribuiva quotidianamente al meccanismo con pari dignità sociale, e l’operaio era rimasto l’unico concretamente disoccupato, rinchiuso nel bilocale a godere segretamente delle servizievoli e premurose attenzioni dei lavoratori. Ognuno si sentiva utile e accettato. I livelli delle nevrosi e dei comportamenti antisociali rientrarono sotto i livelli di guardia, ogni attività era pianificata in modo tale da richiedere la collaborazione di un livello organizzativo superiore e chiunque si avventurasse in percorsi autoformativi non autorizzati dal consiglio di gestione veniva severamente punito dal settore sicurezza. Si stipularono nuove leggi e organismi giuridici capaci di farle rispettare. Vennero aperte scuole che tramandassero alle nuove generazioni i frutti delle recenti esperienze, si organizzarono ospedali, tribunali, carceri, e una volta che la struttura sociale fu finalmente completa di ogni sua appendice pratica, si ripristinarono le feste alcoliche nella palestra della vecchia scuola abbandonata.
Era da molto tempo, nella periferia est, che non si registrava un inverno freddo, interminabile ed emozionante come quello. Poi con la primavera cominciarono a sciogliersi gli ultimi strati di nevischio sui tetti, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali, e nella sua camera da letto nel bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, l’operaio fumava una pipa di radica affacciato alla finestra in compagnia di una rivoltella e un vecchio CD rigato di Muddy Waters. Sognando le etichette delle bottiglie di birra lungo la strada, e il panico che avrebbe seguito la sua morte.

Il segreto

In genere se si chiede a qualcuno di fare una stima delle sue ore di sonno la risposta sarà: mah, più o meno otto, come tutti. In realtà si dice che quasi tutti tra questi non dormano meno di dieci ore. E secondo alcuni è proprio questa la ragione per cui così pochi si ricordano i sogni che fanno. Colpito da certe indiscrezioni, in un primo periodo vendetti la fiducia alla sveglia, in un secondo alla droga. Poi alla pizzica salentina, passando per l’alcolismo, e infine alla depressione. Nessuna di queste funzionò. Sulla sveglia m’avevano truffato l’opinione pubblica e l’educazione; sulla droga gli amici più fidati, sulla pizzica la disperazione; sull’alcolismo l’idea che si erano fatti gli altri di me, sulla depressione l’idea che m’ero fatto io degli altri. Poi quando mi accorsi che stavo cominciando a sperimentarle tutte insieme, decisi di sedermi intorno a un tavolo e risolvere la questione più civilmente: il risultato fu strabiliante. Dopo tanto penare, finalmente avevo trovato la soluzione. Il mio entusiasmo era palpabile, chiunque mi frequentasse in quei giorni notava nelle mie espressioni un qualcosa di diverso dal solito, come un senso di freschezza, di sollievo, come se per miracolo fossi alla fine riuscito a fare pace col mondo. O almeno a lasciarmi convincere sui possibili vantaggi del mostrarmi superiore di fronte a tutte le bassezze e i tiri mancini che prontamente quest’ultimo continuava a rifilarmi da anni. Mi sentivo talmente eccitato che per paura di dimenticare il frutto di tutte le disperate ricerche del passato misi tutto per iscritto su un foglietto ripiegato quattro volte e rinchiuso nel portafoglio, nella tasca dietro dei pantaloni buoni. Per la prima volta riuscii a godere veramente di quelle stramaledette tarantelle da terroni. Uscivo di casa con lo sguardo fiero sotto al sole e la mano sempre ben salda sulla fessura all’altezza della natica destra; e con il segreto di quella meravigliosa rivelazione blindato stretto al suo posto, me ne scorrazzavo lungo i viali alberati. A braccetto con l’autunno mi divertivo sovrappensiero a scalciare affettuosamente le foglie rossastre che mi stringevano l’occhio sulla via di casa, dove tornavo d’inverno per mettermi al riparo dalle frizzantezze dei primi vagiti di grecale, insieme a quell’espressione inebetita che a stento riuscivo a nascondere dentro sciarpe di lana e girocolli prominenti; ma poco importava, e col sorriso scolpito e qualche pacca sulla spalla ai bambini degli altri era già primavera. Il rifiorire della vegetazione per la prima volta nella sua storia si sorprendeva di questo inedito senso di gelosia che la brillante magnificenza della mia sagoma ispirava rabbiosamente. E poi era di nuovo estate e tanto ero contento e spensierato che all’obitorio dovettero chiamare il falegname per sradicarmi il sorriso a colpi di punteruolo e far finalmente riposare i denti abbronzati della salma. Nonostante i numerosi sforzi, non riuscirono comunque mai a distogliermi la mano dalla tasca dei pantaloni. Al cimitero feci amicizia con tutti i vicini e nel giro di poco tempo diventai uno dei più acclamati e rispettati del terzo piano mansardato. Sciaguratamente oltre al corridoio mio e alla mansarda non si riusciva a sentirmi, quando alla sera intrattenevo gli animi dei più spiritosi con certi miei intermezzi di cabaret sperimentale antinoia, di cui così tanto si sentiva il bisogno nella mortale monotonia di certe serate autunnali. Quasi rassegnato al piccolo numero dei miei interlocutori, all’improvviso venni a sapere con molto piacere che confidando sul passaparola grazie al quale si tenevano aggiornate sulle novità della vita sepolcrale un gruppo di ex parrucchiere e pensionate inacidite, amiche in vita e ora sepolte sparpagliate da un capo all’altro dell’edificio, stavo rapidamente diventando una vera e propria celebrità nel campo santo. Mi tornavano indietro notizie di alcune salme talmente incuriosite dalle voci che giravano sul mio conto da spingersi in impensabili stratagemmi e bizzarrie inaudite per tentare con ogni mezzo di convincere i familiari a farsi spostare di loculo fino al terzo piano mansardato. C’era uno che aveva cercato d’apparire in sogno ai congiunti e tra un numero vincente e l’altro sibilava strane richieste, con la promessa di riservare il numerone finale e decisivo al giorno in cui, di grazia, gli fossero venuti incontro in quella cortesia. Altri s’erano sforzati di svitare i rispettivi coperchi con la forza della meditazione spirituale, ottenendo comunque sempre al massimo qualche sonora fuoriuscita di fuochi fatui, verdognoli e di breve durata, sommersi da grosse risate e dall’ilarità generale dei seppelliti a muro. Qualcuno dei più disgraziati s’era limitato a sporadici gesti di stizza e frustrazione, che non potendo sfociare in nessun tipo di violenza fisica si erano poi quasi sempre trasformati in raptus di invidia, rabbia, nevrosi e repulsione nei confronti della mia stessa persona. Ce n’erano altri che quasi per vendetta si inventavano pettegolezzi infamanti sulla mia vita passata, mentre addirittura qualcuno metteva in dubbio la mia stessa esistenza, architettando teorie sempre più convincenti per mettere in guardia quanti più cadaveri possibile a non farsi abbindolare dalle dicerie che circolavano sempre più insistentemente nei lunghi corridoi piastrellati. Nonostante la frenesia generale dei condomini e le incredulità degli scettici, tanto forte e spietato era il morso della noia che ben presto il divertimento riuscì a imporsi sul resto e trascinare alle stelle la mia popolarità: abbandonai il cabaret, applicandomi in scritture di scena sempre più complesse, fino a inventarmi vere e proprie performance teatrali. Ogni sera mi schiarivo la voce, per quanto mi fosse possibile a settimane buone di distanza dalla sepoltura, intonando canti e declamazioni solenni, storie di grandi amori e gesta eroiche del passato, incoraggiato dal pubblico fedele, ormai affezionato alle trame sempre più originali e avvincenti. Tanto quanto fu sincera ed esaltante quella smodata approvazione nei miei confronti, tanto mi commosse quel giorno in cui, rientrando nel loculo a tarda sera dopo il lavoro, trovai finalmente riuniti tutti quanti i cari defunti del cimitero, che si apprestavano a terminare gli ultimi preparativi per la festa a sorpresa che ormai all’unanimità avevano deciso di organizzare in mio onore: mi ricordo ancora benissimo che non riuscii a trattenermi, nonostante l’avanzato stato di decomposizione, dal correre ad abbracciare uno per uno i miei premurosi amici, divincolandomi qua e là attraverso gli stretti viottoli tra una lapide e l’altra, col cranio sfregiato da lacrime di gioia e vermi solitari. Una delle parrucchiere, che avevano contribuito alla mia fama, mi prese per un braccio e appena voltato mi accorsi che stava indicando un enorme palco fatto di tubi da cantiere e lastre di parquet inchiodate a un basamento di finto marmo roseo, trasportato e allestito per l’occasione. Sbalordito dall’imponenza della struttura, adornata con tanto di microfoni, altoparlanti e giochi di fumo, il fascio di luce proiettato sopra la grande X di nastro isolante al centro del piano rialzato mi fece capire che tutto era pronto per l’inizio dello spettacolo. Incoraggiato da strette di mano e sguardi compiaciuti, mi inoltrai tra la folla. Per un istante, mentre il pubblico prendeva posto in sala, restai immobile davanti alle scalette metalliche che dalle quinte conducevano alla gloria, quasi ipnotizzato, fissando la postazione che mi era stata riservata. Al segnale dell’ex dentista del paese, improvvisato assistente di studio, si spensero le luci; mi lasciai alle spalle le ultime timidezze e con passo sicuro andai incontro al destino, abbandonandomi al maestoso applauso del grande teatro gremito. Erano appena arrivati anche i giornalisti e le televisioni, locali e nazionali, per la diretta. Tra la folla si faceva segno di fare silenzio e prestare attenzione. Lo spettacolo fu finalmente un successo senza precedenti, e in tutta fretta mi portai nei camerini per togliere il trucco e gli abiti di scena, dato che una delle donne sedute in prima fila mi aveva lanciato, in un bigliettino messo giù di pugno in fretta e furia, le sue irresistibili profferte amorose; ammaliato da quel suo portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, avevo accettato. Ancora nudo corsi nel bagno, per espletare le esigenze fisiologiche sovrastimolate dalla forte tensione della prestazione artistica e, appena appoggiata la mano destra al muro in segno di liberazione, sentii bussare tre volte alla porta del camerino, come da segnale concordato, e poi la porta spalancarsi. Da dietro gli arabeschi colorati del séparée di tela intravidi la donna entrare e ne fui felice, ignaro com’ero del piccolo intoppo con cui avrei dovuto fare i conti di lì a poco: non riuscivo più a smettere di pisciare. Il liquido scorreva inappagabile e, dopo aver riempito l’elegante tazza di ceramica, cominciò a fluire inarrestabile lungo le mattonelle celesti del pavimento. Sforzandomi di mantenere la calma, provai a fare appello a tutta la tenacia possibile affinché mi concedesse la tranquillità per terminare, nonostante il feroce richiamo che sprigionava esasperato dalla giovane carne della ragazza, incendiata sul fuoco del grande letto delle modelle, a distanza di pochi metri. Continuavo a pisciare, non c’era niente da fare. Improvvisamente nuda e spazientita, la donna troncò a metà il séparée spazzandolo via contro il muro portante; mi si scaraventò addosso ma il getto non si arrendeva, così sopraffatto dall’eccitazione lasciai che provasse a risolvere lei, e appena riaperti gli occhi l’unico risultato che mi ritrovai davanti fu l’immagine di una povera donna tenuta per i capelli, morti soffocati. Terrorizzato lasciai cadere il cadavere sul pavimento, afferrai al volo una vestaglia e scappai dalla porta di servizio, correndo lungo la biglietteria in preda al panico. Una volta in strada feci cenno al primo taxi libero e mi lasciai trasportare lungo i viali bagnati dalla pioggia leggera, mentre dai finestrini imploravo pietà inginocchiandomi davanti agli schizzi impazziti delle sirene sulle ambulanze, che mi traforavano le pupille a colpi di riflessi azzurrastri, puntualmente amplificati dal pastello morbido delle vetrine umide degli ultimi negozi in chiusura, in quella folle notte come tante d’inizio inverno nella metropoli. Sopraffatto dagli eventi, non prestai attenzione al tassista, che aveva ormai rinunciato a fare domande e distrattamente mi stava accompagnando verso casa sua. Abitava in una villetta vecchio stile della prima periferia, su due piani deliziosamente arredati dalla cura amorevole e dal gusto retrò della padrona di casa, una donnetta rifinita ma gentile, che senza troppe esitazioni aveva accolto fin dall’inizio le mie tacite richieste di ospitalità. Dopo avermi preparato una cena frugale e offerto una sigaretta, mi guidò fino alla camera da letto, che a quanto diceva lei si era appena liberata. Ci sedemmo a fumare insieme per un momento, poi mi indicò la strada per il bagno in caso di necessità, diede un’ultima rassettata ai guanciali e se ne tornò davanti al televisore. Improvvisamente sereno e tranquillizzato, mi soffermai a osservare la stanza, togliendomi la vestaglia: alle pareti erano appese alcune fotografie in bianco e nero di scorci rurali e paesaggi di campagna; al lampadario, sulla ringhiera del letto e intorno alle maniglie di porta e finestra erano annodati fiocchi colorati, che si mescolavano ai toni arcobaleno della grande moquette colorata stesa sul pavimento. Quasi ogni componente della piccola stanza quadrata era di legno, eccezion fatta per quelle contraddistinte dai fiocchi, e dalle crepe che si erano formate fin sopra la cornice della grossa specchiera a parete nascosta dietro la porta si intuiva che l’ambiente doveva esser stato dipinto di quel potente rosso sangue ormai molti anni prima. Appoggiai la vestaglia sul letto con grande naturalezza, adesso incuriosito dal senso di familiarità che mi ispirava profondamente quel posto, e cercai nell’armadio qualche vestito di ricambio: c’erano soltanto abiti da donna, in fila a scalare secondo le tonalità di colore; in uno scomparto quelli per la casa e le mises da ufficio, nell’altro i costosi completi da sera. Tutti straordinariamente eleganti, magnetici. Un po’ per curiosità e un po’ per divertimento, me ne infilai uno e cominciai a improvvisare goffi passi di danza alla stregua di un’isterica dama di compagnia ottocentesca. Quando poi, poche ore dopo,mi rialzai dal letto ancora con gli abiti indosso, non riuscii a fare a meno di bloccarmi per un attimo, con un sussulto di vanità rinfrancato nell’orgoglio dall’immagine nella specchiera: un portamento a metà strada tra l’aristocratico e il ribelle, che per la prima volta mi sorprendeva così tanto intimamente. Al piano di sotto, la donnetta rifinita mi fece trovare la colazione già nel piatto. Appena finito di mangiare mi dette un bacio sulla testa, qualche spicciolo per le spese della giornata e con sguardo materno mi augurò buona fortuna e buon divertimento per lo spettacolo a teatro di quella sera: ormai erano mesi che non parlavo d’altro e finalmente era arrivato il momento. Mai come quel giorno furono interminabili le ore trascorse a lavoro, poi all’università e china sui libri, illuminati di verde dal vetro delle lampade della biblioteca; giunto il momento presi posto a sedere in prima fila, staccando il cartoncino che ricordava a tutti la mia tempestiva prenotazione. Lo vidi salire sul palco e cominciai a applaudire più forte che potevo, tanto che mi sembrava d’essere tornata una bambina, al primo concerto del cantante preferito. Restai come ipnotizzata per tutto il tempo, e non riesco a descrivere l’emozione quando a un certo punto realizzai che si era accorto di me, proprio lui, così vicino, mi stava guardando, e più passava il tempo più mi fissava. Euforia, panico e ancora euforia, poi decisi di agire, di scrivergli un biglietto. Lo lanciai sul palco e dopo neanche dieci minuti dalla fine dello spettacolo eccomi lì, tutta eccitata e trepidante, in piedi davanti al camerino.
Una mano sulla porta, come da accordo bussava tre volte; l’altra, come sempre, ben salda sulla fessura della tasca destra dei pantaloni, a blindare il portafoglio. E il suo insaziabile segreto.

Chat

Sapeva che sarebbe successo di nuovo. 19:11, niente.
Lo sguardo spento, ripiegato lungo la segnaletica, cercava di rassicurarlo silenziosamente, mentre senza comprenderne a fondo il motivo si era ormai quasi del tutto rassegnato a farsene una ragione. I riflessi dei lampioni si infrangevano come zolfo incandescente tra le portiere metallizzate e gli angoli scanalati dell’imponente scaleo da cantiere che giaceva ripiegato lungo i sedili posteriori reclinati dell’abitacolo. Quel mosaico di bagliori isterici, proiettato in mezzo alle bruciature di sigaretta sul tettuccio dell’auto, era rimasto probabilmente l’unico labile collegamento psichico tra il suo ecosistema mobile e la realtà circostante. 19:37, niente. Gradualmente anche quell’ultimo superstite gli stava scivolando via, trascinato per i capelli da una suoneria polifonica stile primi anni Duemila, scaricata con un servizio in abbonamento. 19:39, amore quando torni? Noi siamo rientrati adesso, pensavamo di ordinare un paio di pizze. Ti aspettiamo per cena? Riporta a casa lo scaleo e poi ricordati che è venerdì: andiamo al cinema dopo mangiato, alle nove e un quarto ti voglio qui. Sfuggire da sua madre era stata la sua prima grande abilità. Col tempo aveva raggiunto una tale spontaneità, nel tagliare corto, da non aver più bisogno di elaborare ulteriori rassicurazioni; tanto era diventato semplice il meccanismo che gli sembrava quasi fossero i cartelloni pubblicitari spuntati dietro il guardrail dell’autostrada a suggerirgli le battute, a riadattare costantemente il copione, man mano che si intricavano le sue esigenze insieme al livello di difficoltà nell’elaborazione delle menzogne. 19:43, niente. Erano forse proprio queste sue simbiosi immaginarie, tra sé e l’inanimato delle sue scenografie in lenta evoluzione, i suoi unici momenti di svago e soddisfazione. Per il resto sentiva di continuare ad allontanarsi da se stesso. 19:55, niente. Riconosceva a stento il suono della sua stessa voce e in qualche modo si divertiva a immaginarsi rinchiuso in una vibrazione silenziosa, nei minuscoli altoparlanti finalmente distrutti della sua polifonia vocale. A volte ci riusciva, nei tempi morti, pochi istanti prima che il telefono squillasse di nuovo e che la voce metallica gli rimbombasse nell’orecchio gli energici saluti di un adolescente in crisi, sempre pronto a raccontare delle proprie interminabili vicende amorose, cercando di convincerlo a condividere isteria e disperazione, come si conviene in questi casi. 20:01, guarda, hai fatto bene a chiamarmi, lo sai che non ci si può fidare di lei. Lasciala perdere e vieni stasera al centro, piuttosto. C’è una festa, alle nove e mezzo ti passo a prendere e ci andiamo a svagare; a modo mio però, lo sai. Quando ti serve un amico sai dove trovarmi. 20:05, adesso ti saluto, devo andare. Perché lo facesse non lo sapeva nemmeno lui. Forse un buon indizio lo si dovrebbe ricercare nel rumorino elettronico dei segnalatori di direzione, o nelle frequenze trasmesse alla sua radio dalle numerose interferenze delle gallerie. Solo dei suoni, forse troppo simili a certi allarmi che gli si erano radicati dietro i timpani. Gli ricordavano troppo il tono predefinito della sveglia che si era impossessata di lui, e lo costringevano a sopportare l’idea che sarebbe inevitabilmente successo di nuovo. 20:07, nessuna notifica; solo il martirio polifonico, grottesca bestia mutante stavolta con le sembianze del capo, il padrone della pizzeria. 20:08, stasera puoi venire? Manca gente, dai vieni al secondo turno, verso le nove, massimo nove e mezzo. Sicuro, diceva lui, che problema c’è? Ci vediamo più tardi allora, insisteva, e ora però tutti zitti. A ogni sorpasso si dimenticava del suono della freccia e alle 20:19 metteva distrattamente mano al cellulare, ben riposto sul sedile passeggero, tanto per dare una controllata al suo giardino segreto di pallini verdi e freccette blu, che ancora notificava: niente. In silenzio tornava a immergersi nei pensieri, per scegliere la più sbagliata tra le versioni di sé. Sapeva che fare il cameriere non sarebbe bastato a soddisfare le sue ambizioni, e per quanto si sforzasse non riusciva a trovare nessuna valida spiegazione del perché avesse accettato quando gli fu avanzata la proposta, quella volta che trovandosi al telefono con la sua ex fidanzata era diventato un esemplare maschio perfetto di trentenne slavo d’ispirazione bohémienne, alla ricerca di una sistemazione provvisoria misera e inutile di cui servirsi per giustificare la propria esistenza di fronte alla frusta del padre e sostenere le spese per le inconfessabili razioni mensili di stagnole d’oppio di pessima qualità. 20:24, niente. Qualcosa di vero poteva esserci, nella comodità stessa in cui calzavano le cuciture del ricamo, la maschera automodellante sulla sua faccia; o magari nel senso di familiarità che gli pulsava sulla pelle ingiallita dall’alcol delle dita affusolate, mentre strisciando sul sedile lanciavano una nuova rapida scorsa allo schermo. 20:29, niente. Nessuna novità, nessun beep che riportasse il nome tra quelli dell’elenco, nient’altro che non fosse quella stupida suoneria che ritornava col suo carico di frustrazioni politicamente corrette, nervosismi blandi socialmente accettati, la voce tremolante di una delle sue amanti che implorava eccitazione e un pezzo di fascino tutto mistero e pugno d’acciaio che, 20:32, stasera passo da te, fammi sapere quando lui se ne va; anch’io non penso altro che a te, schifosa, mi fai tremare. 20:37, niente ma tremava davvero, anche all’idea di quell’entusiasmante progetto per il futuro, l’opera d’arte estrema e definitiva della sua carriera. Il lampo di genio gli era venuto nel sonno: aveva sognato di riuscire a mettere insieme così tanta corda da formare un cappio con nodo scorsoio a entrambe le estremità, capace di unire la Terra e la Luna nella nevrosi di un insuperabile abbraccio mortale, in cui non si riuscisse a capire chi dei due fosse il boia e chi l’impiccato. La sua convinzione era tanto irremovibile e suggestiva da tenerlo occupato fino alle 20:54, niente, prima che le dita tornassero a distrarsi sul display retroilluminato. Si era anche informato per cambiare il suono delle notifiche, in modo tale da poterne impostare alcuni così caratteristici da non poter essere confusi con i gorgoglii della sua auto, e aveva cercato di disattivare la ricezione chiamate in modo da evitare scocciature senza vedersi costretto a spengere il cellulare. Ma un po’ per sfortuna un po’ per la mancanza cronica di forza di volontà non era riuscito a combinare nulla, e si lasciava divorare ogni volta che gli succedeva di nuovo e che quello sciagurato ritornello polifonico tornava ad ammorbargli i nervi, ogni volta che si sentiva sbattere in faccia dagli auricolari il ronzio sferragliante della compagna, una giovane ragazza poco più che intrigante, decisa a coinvolgerlo in elaborate elucubrazioni mentali sul significato della sua intrepida avventura artistica. 21:04, alle 21:30 a casa tua, ne parliamo aggrappati a un bicchiere di vino ma cosa ne penso davvero te lo devi lasciar sussurrare all’orecchio, e in bocca gli era rimasta solo la voglia di cambiarsi d’abito, scegliere un altro travestimento. L’immagine che gli precipitò addosso fu quella di un misero cameriere alcolizzato, con la prospettiva del lavapiatti a tenerlo da sola ancorato al mondo dei viventi. 21:12, niente, cominciò a farsi delle domande. Mancava una telefonata e magari c’era sotto qualcosa, un piano, una qualche strana congettura, così crudelmente naturale da rivelarsi sempre più imprevedibile. 21:19, niente, e arrivò il tempo di slacciarsi l’orologio, insieme al vestito da onesto lavoratore precario. 21:23, niente, ma in compenso si ritrovò con la maschera da autolesionista: gli saltarono agli occhi i fallimenti della sua vita sociale, le pochezze dei suoi rapporti con gli altri, per non parlare dell’insuccesso personale, l’affermazione mancata sia negli studi che nel lavoro. 21:25, non riuscì a fare a meno di trovare nella sua storia un qualcosa di nascosto ma estremamente divertente, un trionfo voluttuoso di personalissimo feticismo a riempirgli i polmoni d’aria fresca. Alle 21:30, niente, si trovava contemporaneamente a casa dalla famiglia, a lavare i piatti in pizzeria, alla festa con gli amici e nelle camere da letto di due rispettive amanti differenti, e tutto sommato non aveva ancora niente da fare. Accostò la macchina, finalmente giunta a destinazione in nessuna delle sue solite realtà. Tirò giù lo scaleo e lo zaino delle corde, si abbandonò per un’ultima volta al giardino retroilluminato della sua schizofrenia e cominciò ad arrampicarsi, verso la gloria. Finalmente nudo, e solo.
Nel suo niente.

L’ultima intervista

Di corsa, mezzo sudato verso il finestrino abbassato della limousine, ancora non avevo capito perché avevo accettato. Guarda scusami, altri dieci minuti, c’era una giornalista, non ho capito bene comunque faccio veloce, mi chiedevo se gliene interessasse davvero qualcosa e aspettavo che mi tornasse l’appetito della cena saltata poche ore prima. Ha detto dieci minuti, tra undici vado a dormire crollasse il cielo, che non ce la faccio più. Seduto sotto il faro della videocamera continuavo a sudare vergognosamente: sentivo tutta la tensione del palcoscenico scivolare via, grondandomi addosso sotto la camicia. Grazie per la disponibilità, facciamo davvero presto, solo qualche domandina veloce, pochi minuti, continuava a rivoltarmisi nell’orecchio la voce della donna. Era giovane, discretamente carina, non doveva aver avuto troppi problemi a trovare lavoro, magari proprio quello che aveva sempre sognato di fare; c’erano tutti i presupposti per immaginare che avrebbe pure fatto carriera e la camera è dritta davanti a te, se per favore passi un attimo da lei ti mettiamo il microfono e cominciamo. Vuoi un po’ di trucco? Solo quando si accese la luce rossa e sentii di nuovo quella giovane voce metallica inerpicarsi sulla romanzata presentazione della mia vita, mi resi conto che non mi ero neppure degnato di rispondere alla domanda. In fondo avevo le mie buone ragioni, sapevo di potermi concedere il lusso di qualche distrazione, alla fine della venticinquesima replica dello spettacolo. Con quello che ci stavo guadagnando poi, mi meritavo almeno un po’ di pace, un attimo di tregua, un vero e proprio record, sia d’incassi che di critica, il pubblico finalmente ritorna a teatro. E a me che invece importava solo che ritornasse a casa quello schiaffo che m’aveva tirato in faccia prima d’andare via e abbandonarmi per sempre, pensa che idiota che ero. A quarant’anni ancora incapace di rapportarmi seriamente con la gente, mai la persona giusta, distaccato da tutto e da tutti, senza un amico, una moglie, un cast d’eccezione, riunito per l’occasione in una delle produzioni più entusiasmanti sulla scena italiana degli ultimi dieci/quindici anni, intravedevo l’autista appoggiato alla portiera fumare nervosamente una sigaretta, spazientito dalla noia di un’intervista imprevista nell’ora tarda di una giornata di fatica. Forse stava pensando ai figli, forse a un trancio di pizza o un pezzo di pollo surgelato che qualcuno doveva avergli preparato un po’alla buona per quando fosse rientrato. Magari stava semplicemente maledicendo il giorno in cui aveva cominciato a lavorare per me, si chiedeva per quale incomprensibile ragione avesse accettato, con quello che lo pagavo poi. Chissà perché aveva cominciato a fare l’autista, difficile che se lo fosse scelto di sua iniziativa come lavoro; io me l’ero scelto, il giorno in cui nella vecchia casa di campagna vidi mia madre vomitare dalla ringhiera del terrazzo, davanti a quel cane randagio che aveva pensato bene di venire nel nostro giardino a divertirsi con un piccione in putrefazione che gli penzolava dilaniato tra i denti. Mi ricordo come fosse ora il sorrisetto divertito che teneva stampato sul muso, e fu così che mi chiesi per la prima volta se anch’io sarei stato capace di simulare a mio piacimento un’espressione così allegra e spensierata, con quel miscuglio di sapori nauseanti color morte e decomposizione dentro la bocca. Ero pieno di domande, mi chiedevo cosa avrebbe potuto significare quella scena, cosa avrei fatto della mia vita, come sarei riuscito a capire qualcosa di me, quando avrei cominciato a sentire che tutto stava procedendo secondo i piani, quando per la prima volta avrei avuto qualche garanzia dalla vita di essere felice, quando ti sei accorto per la prima volta di voler fare l’attore? E quanto conta secondo te la preparazione nel vostro mestiere? Ancora non si era resa conto che la mia testa ormai aveva spazio soltanto per la depressione dell’appuntamento con l’avvocato, fissato per la mattina seguente. Nessuna voglia di andarci, di averci a che fare, non sopportavo il suo modo di fare così mostruosamente equilibrato, l’indifferenza bestiale della sua professionalità, il tocco magistrale di un regista di fama internazionale: come è stato lavorare con lui? Certo, dieci minuti; è già passata mezz’ora e questa continua, non la ferma più nessuno. Devo andare via, bisogna che m’inventi qualcosa, di sbrigativo, un cenno, un segnale. O qualcosa di più scenico, perché no, un’uscita teatrale, in linea col personaggio, magari dedicata all’autista. Non sarà la migliore pubblicità ma la noia mi distrugge.
Al liceo, dopo una recita di fine anno. Non so quanto conti la preparazione, ma vi consiglio l’accademia.
E il regista è uno stronzo.

Olio di linea

A pensarci bene c’era un ultimo dettaglio che mi incuriosiva, il tempo giallo. O almeno io da qualche tempo avevo cominciato a chiamarlo così. Quel particolare colore assunto dal cielo d’estate subito dopo un temporale, solitamente verso il tardo pomeriggio. A differenza di quanto si possa immaginare, l’esatta combinazione di tutti i requisiti del tempo giallo, almeno nella formulazione che intendo io, non è per niente facile da ottenere. La mia prima serata di tempo giallo, ormai molti anni fa, fui sorpreso dal mio primo bacio, mentre seduto sul bordo del marciapiede cercavo di non far cadere la schiuma della birra stout dal bicchiere. Le altre furono tutte molto più serene, fino a quel giorno. Il finestrino del treno mi sbatteva in faccia i grossi goccioloni del temporale, e assorto nelle brusche evoluzioni del paesaggio non prestavo attenzione ai rombi ininterrotti dei tuoni, cadenzati come a metronomo dallo sbattere delle porte di separazione tra i vagoni. Impassibile, non riuscivo a giustificare il sudore che mi correva sui fianchi; per quanto intimamente fossi consapevole che doveva essersi persa la sincronizzazione tra ciò che vedevo e la posizione esatta del mio corpo, restai ammutolito nelle barriere insonorizzanti che si spiaccicavano sulle pareti del tunnel insieme alla vernice dei graffiti e i tralicci dell’alta tensione che si mescolavano alle coltivazioni intensive delle pale eoliche. Lentamente la geometria nelle ringhiere dei terrazzi di campagna cominciò a cambiarsi di posto con le linee gialle dei binari, e lo stridio dei freni mi portò di scatto nel sottopassaggio della stazione. Appena uscito, rialzandomi dal mozzicone di sigaretta riconobbi il tempo giallo. Immagino chiaramente cosa possa aver provato quando la panchina nel parchetto della piazza cominciò a rivolgermi la parola con tutta l’aria di un nuovo mozzicone di sigaretta, adesso decisamente più contemplativo. Mi disse che le facciate degli edifici le ricordavano il riflesso delle carrozzerie metallizzate delle auto sull’asfalto umido, il quale le ricordava le grosse ruote delle carrozze sui sampietrini delle vecchie strade ottocentesche, che le ricordavano la luce calda proiettata sul manto lisciato di fresco dei cavalli, che inevitabilmente le ricordava le vecchie pitture a olio studiate a scuola. Mi trovai chirurgicamente d’accordo e fu sufficiente un cenno col capo per rinsaldare l’intesa. Le nostre effusioni diventarono mezzore buone e senza che ce ne fosse bisogno aggiunse che serate come quelle erano troppo imperdibili per viaggiare senza i piedi sui pedali e l’orecchio puntato sulla frizione. Sogghignando. Il mozzicone si spense di rabbia e disgusto, mentre il grande orologio si lasciava degradare senza troppe aspettative all’attesa di un ritorno precoce. Cadenzati a metronomo senza biglietteria, i pesanti passi d’anfibio presero posto sul sedile davanti.
E mai più nessuna panchina fu degnata d’attenzioni.

Completo

La ringrazio comunque, arrivederci.
Dalla finestra filtrava un soffio gelido, mentre i bagliori delle due grosse lampade al neon si riflettevano nella pioggia debole della notte primaverile, illuminandone grottescamente le improvvisate di celebrità subito prima che si schiantassero sul tavolo di vetro del terrazzo e se n’andassero a sgretolare in metallici ticchettii da orologiaio. Non riuscivo a togliere gli occhi dagli appunti sul foglietto che frenetico mi rimbalzava da una mano all’altra, sulla scrivania. Avevo dovuto scartare quasi tutte le voci dell’elenco, messo insieme in tutta fretta in una mattinata di ritardi, e adesso cominciavo a temere seriamente di non farcela in tempo. Mi restavano ancora diciotto ore, e continuai col numero successivo. Buonasera, vorrei prenotare se possibile.. /siamo completi, mi dispiace. Neanche il tempo di concludere la frase, la situazione stava cominciando a seccarmi. Ancora una volta me ne tornai a fissare la pioggia. Sedici ore e mezzo, nuovo giro. Per domani, se possibile, saremmo in due. /Solo un attimo, dunque vediamo, no mi dispiace, non c’è più posto, arrivederci. Per la prima volta mi domandai per quale ragione avessi sistemato il tavolo di vetro proprio sul terrazzo. Il ticchettio delle gocce d’acqua si faceva sempre più insistente, come a volermi mettere fretta. Quattordici ore e quaranta minuti, tentai di nuovo. Niente da fare, mi dispiace, magari però lunedì se le va bene lo stesso potremmo metterci d’accordo per… Più di tutti mi davano fastidio quelli che non si facevano più di troppi problemi a mostrarsi palesemente più preoccupati di mantenere un cliente che dispiaciuti per la mia sventura. Stavo cominciando a rivalutare quello spiffero di vento, il brivido di freddo che mi elettrizzava la punta delle dita. Mi alzai per spengere il riscaldamento e restai per un po’ a domandarmi quanto fosse credibile la facciata d’eternità che quella pioggia mi continuava a sbattere addosso, fottendosene delle mie sensibilità. Dodici ore e ventitre minuti, ancora. Ma le sembra l’ora di telefonare? E comunque no, tutto pieno. Non lo sa che è festa domani? Mi sembrava decisamente insolito, a pensarci bene. Tutta quella pioggia, in primavera. Continuava senza freni, come se fosse fuggita di casa si fosse ritrovata immersa in un vortice di sensazioni e quotidianità violente talmente indiscutibile da intimorirla, e impedirle di tornare indietro. O forse di era soltanto dimenticata anche lei di osservare i giorni di festa. Io, anche volendo, non avrei potuto farci niente. Mi veniva difficile accettarlo, ma la mia non era proprio una di quelle esigenze che si possano trattenere, o rimandare al primo lavorativo prima del finesettimana. Il tempo mi incuriosiva, trovavo qualcosa di inspiegabilmente attraente nelle scadenza, nell’idea stessa di appuntamento, nella consueta ricerca di un riferimento. Non sapevo e non volevo farne a meno, io per primo, e mi fermavo a osservare gli altri come un tossico al parco che squadra i bambini immaginandoseli accanto a disinfettarsi la siringa. Guardarmi le vene era un altro mio grane passatempo. Le inseguivo lungo il letto del fiume, correvo dietro al loro sangue. Me lo immaginavo scorrere poderoso e inarrestabile, stondando i sassi corrosi dai secoli, lanciando occhiate di sfida agli argini intimoriti. Sette ore, trentanove minuti, cinquanta secondi. Lei è pazzo, mi richiami lunedì che glielo ripeto. Finalmente un fulmine, era tutta la sera che lo stavo aspettando. Cinque ore, dodici minuti, cinquantasette secondi. Questo vuole sapere se c’è posto, ci vuoi parlare te? Ma ditemi voi la gente cosa c’ha nel cervello. Il freddo si faceva più intenso. Due ore, quarantatre minuti, otto secondi. Ho detto di no. I fulmini erano aumentati, stabilizzandosi all’incirca sulla frequenza di uno ogni due minuti. La temperatura intorno ai nove gradi. Un’ora, dieci minuti, quindici secondi. Guardi, ha sbagliato numero. Grondaie e tombini parevano essersi paralizzate in tutto l’isolato. Un sottile strato d’acqua ricopriva le strade. Quarantasei minuti, tredici secondi. Pronto intervento, mi dica. L’acqua stava aumentando, adesso arrivava al livello del marciapiede. Sei gradi, non riuscivo praticamente più a muovere le mani. Il freddo mi arrossava la pelle e cominciavano a screpolarmisi le labbra. Ventidue minuti, dodici secondi. L’utente da Lei richiesto non è al momento raggiungibile. Il livello dell’acqua continuava ad aumentare, provai a riaccendere il riscaldamento ma tenere fra le dita congelate la piccola rotella del termostato mi si era rivelato praticamente impossibile. Undici minuti, cinquantanove secondi. Numero non attivo. I primi fuoristrada militari arrivarono al fiume e cominciarono i lavori per la messa in sicurezza. La temperatura sui quattro gradi e mezzo, non senza qualche difficoltà detti fuoco al cestino del carta. La batteria del cellulare si era scaricata del tutto, abbandonando le mie attenzioni. Di nuovo a rincorrere le vene, la loro voglia di fuggire. Cinque minuti, ventiquattro secondi. Il sogno di libertà. Due minuti, dieci secondi. Le loro occhiate di sfida ai fuoristrada. Un minuto, quarantotto secondi. La porta della camera matrimoniale, pensavo a quanto avesse avuto ragione. Fin dall’inizio, non potevo crederci. Cinquantuno secondi. Non sarei riuscito a dirglielo, ne ero consapevole. Trentanove secondi. Mi vergognavo di me stesso, di non essere capace di ammetterlo. Aveva ragione, da vendere. Quattordici secondi. Il mondo era al completo. Dieci secondi. A noi restava d’inseguire il lunedì. Nove secondi. Solo il rantolo d’un tavolo di vetro. Sette secondi. Mi consolava, cinque. Ci riusciva ancora e mi riempiva di pace, tre. Con la forza di un mare in tempesta, verso il suo sogno di libertà. Due, aveva vinto. Uno.

Imprevisto

Recentemente mi è capitato tra le mani un vecchio biglietto del treno, riportante il seguente messaggio. Quando devi prendere una decisione ci sono due possibilità: prenderla o fare finta di niente. Se fai finta di niente ci sono due possibilità: passare il resto dei tuoi giorni in preda ai sensi di colpa oppure inventarsi una menzogna talmente convincente da modificare radicalmente il ricordo del tuo passato. Se inventi la menzogna ci sono due possibilità: fare finta di niente e godersi intimamente il ricordo pulito delle proprie giustificazioni oppure sfruttare la situazione facendone motivo di orgoglio. Se vai in giro a vantartene ci sono due possibilità: essere capaci di ricordarsi e ricostruire in ogni momento le vite parallele costruite sulle tue menzogne oppure limitarsi a sfruttare i benefici immediati che ne conseguono. Se ti limiti ai benefici immediati ci sono due possibilità: riportare un nuovo successo che possa confermare e dare credibilità al primo oppure accettare l’insuccesso e far crollare il castello di carte. Se crolla il castello di carte ci sono due possibilità: cogliere i vantaggi dall’errore e imparare la lezione oppure precipitare vittima dei sensi di colpa. Se precipiti, allora ci sono due possibilità: accumulare fino all’ultima goccia delle tensioni nervose che ti tengono per i capelli oppure cercare di convivere con il dolore. Se cerchi di convivere con il dolore ci sono due possibilità: fortificarsi d’animo e diventare una persona migliore oppure rendersi conto delle proprie assolute debolezze di fronte a tali stringenti sofferenze. Se accetti il senso d’impotenza, allora ci sono nuovamente due possibilità per uscirne: ricominciare da zero con uno scatto improvviso verso la dignità o rivendicare il diritto all’oblio e inventarsi una nuova menzogna. Se inventi una nuova menzogna devi decidere come riuscire a combinarle nel modo meno ridicolo possibile agli occhi di chi continua ad avere qualcosa a che fare con te, e se devi prendere una decisione allora ci sono due possibilità: fare finta di niente oppure per una volta impegnarsi a prenderla. Se ti impegni a prenderla ma non sei sicuro di riuscire a sostenerla ci sono due possibilità: alcolizzarsi o cercare di tenere duro. Se cerchi di tenere duro allora ci sono due possibilità: lasciarti finalmente andare a ruota libera oppure cercare continuamente di tenere a mente i buoni principi che ti sei ripromesso. Se decidi di ricordare i principi ma hai paura di dimenticarli ci sono due possibilità: appenderti per il collo finché morte non sopraggiunga o scriverti gli appunti principali su un vecchio biglietto del treno spiegazzato. Se decidi di metterli per iscritto sul biglietto del treno, allora ci sono altre due possibilità: tenere sempre presente che l’hai scritto soltanto per esorcizzare le tue paure più nascoste oppure fare finta di niente e sperare di aver finalmente trovato una soluzione al problema. Se sei arrivato fin qui e speri di aver trovato la soluzione, allora di possibilità ce n’è solo una: sei un coglione.

Avanti un altro

Guarda fratello, te lo dico, se fai sempre così sei fottuto nella vita. Mi spiego meglio: non importa se sai aprire una bottiglia di vino a centrocinquanta orari in autostrada, con un cavatappi rotto, tenendo le traiettorie con le ginocchia, la sigaretta in bocca e il telefono all’orecchio. Non importa se ti fanno ridere i sistemi automatizzati che scuotono gli alberi per la raccolta delle olive, o se senza una vera e propria ragione porti annodata al collo la stessa rondella di ferro da chissà quanti anni. Non importa se vuoi fermare la latinizzazione della lingua araba, se ti ricordi a memoria il codice fiscale o la scadenza della carta d’identità, né se puoi scalare la catena degli ottomila metri con tre bicchieri di bianco frizzante. Non importa se ti senti sollevato quando il controllore si mette a fare le parole crociate, né se ti sembra ingiusto che ci sembri giusto adattarci. Non importa se credi nella costituzionalità dell’impianto genetico o nell’istintività dei fenomeni culturali, o se quando ne senti parlare cominci a immaginare come sarebbe una vita da professionista. Non importa cosa pensi del lavoro, dei nuclei familiari, dell’importanza della provocazione, dell’ipocrisia dei legami degli altri, dell’azzurro del cielo o dell’amore. Non importa se credi nelle ricorrenze, cosa pensi della giornata della memoria, se fai caso alle date di scadenza quando fai la spesa, se porti l’orologio o se la sveglia la metti per alzarti o per ricordarti di andare a dormire. Non importa se sei mai riuscito a distinguere il momento del vino dal momento dell’oppio, o se alla fine sei diventato te stesso un unico grande periodo del prozac. Non importa quanto sei soddisfatto delle coazioni a ripetere, delle ripetizioni di matematica, dei conti fatti senza l’oste, o dell’osteria da dove ti hanno licenziato ieri sera. Non importa se hai bisogno degli altri o del loro annientamento, o quanto affascinante ti risuoni in testa l’autodistruzione. Non importa delle tue crisi, delle astinenze, delle ricadute, delle felicità, dello stato di quiete o di tempesta, del cerchio alla testa, della testa di cazzo, del malumore della razionalità, del rigore smisurato della libertà, della liberazione delle parole, delle parole dette nei momenti sbagliati, di quelle che poi non ti sei mai sentito di dire. Non importa di cosa sei nella vita, delle prospettive, delle illusioni, dei salti nella realtà, dei programmi e di come il giorno dopo ti prendi impreparato a chiederti in preda a quale forma di delirio esattamente ti sia venuta in mente un’atrocità del genere. Non importa della sensibilità, delle belle discussioni sulla naturalezza del rapporto tra scenografia e tossicodipendenza, di tutti quelli che mai capiranno che ritenevi più intelligente cancellare i sentimentalismi per scuoterne i cartonati. Non importa se non capisci quello che ti dico, né se capisci quello che ti scrivi in testa da solo. Non importa quanto ti senti soffocare, o se poi a casa cerchi di urlare davanti allo specchio, per farti sentire da qualcuno. L’unica cosa che importa è che la spugna va strizzata prima di darla sui tavoli. E non mi servi.

Clessidra 48

Tornare a lavoro, ogni mattina poco dopo le prime luci dell’alba, stava diventando sempre più snervante. Da qualche tempo ci si era messo anche il mio assistente, un giovane apprendista appena laureato, a farmi innervosire. Per qualche ragione sconosciuta aveva preso il brutto vizio di rimettere al suo posto nell’archivio la teca delle formiche, la sera prima di uscire. Tutti lo sapevano, nel laboratorio, che non sopportavo che si toccasse la grande clessidra di vetro del trentottesimo esperimento. Fin dall’inizio mi ero reso conto che quella sarebbe stata la volta buona per capirci qualcosa, e in mezzo all’incalcolabile quantità di fallimenti stava diventando il mio principale motivo d’orgoglio e ormai praticamente l’unico stimolo per continuare con le ricerche. I risultati da parecchio tempo si mostravano sempre meno convincenti: quasi per farsi coraggio ci eravamo imposti degli obiettivi, messi per iscritto in un elenco numerato, concordato tra noi della facoltà, e fino a quel momento ne avevamo raggiunti poco meno di cinquanta su un totale di qualche centinaio. La teca racchiudeva contemporaneamente due ecosistemi distinti: nella zona inferiore della clessidra viveva un’intera colonia di formiche rosse, che ero riuscito solo dopo molto tempo e molta pazienza a far sì che si formasse in modo autonomo e il più spontaneamente possibile. Per quanto possa sembrare di poco conto, posso assicurare che non è per niente facile riuscire a convincere esemplari di formiche rosse perfettamente di diverse provenienze a convivere pacificamente all’interno della stessa colonia. Nella parte superiore, che grazie a specifiche attrezzature meccaniche godeva di gravità invertita, un’intera colonia di api affollava un alveare appositamente creato con materiale plastico e piastrelle metalliche attraversate da un flusso continuo di elettrostimolazioni artificiali. Al centro della clessidra, lo stretto passaggio tra un ecosistema e l’altro era il frutto di un vero e proprio colpo di genio: attraverso quell’unica via di fuga, gli esemplari animali che in qualche modo si trovavano ai margini delle rispettive strutture sociali, rifiutati dagli altri oppure riconosciuti come devianze o motivi di indebolimento per l’ordinamento naturale dell’ecosistema, riuscivano a trasferirsi dall’altra parte. Il risultato era comunque sempre lo stesso: non provvedendo dall’esterno a nessun tipo di alimentazione, i ribelli finivano per essere divorati dalla ferocia dei nuovi coinquilini. In mezzo alle formiche si potevano notare continui accanimenti verso i cadaveri in decomposizione delle api fuggitive, e così viceversa dall’altro lato. In più di tre anni di sperimentazione, mai si registrarono tentativi di ribellione generalizzata, o movimenti bellici comunitari di una delle due specie, riunita contro l’altra. Nel laboratorio, solo la vasca dei guardiani del reparto adibito a museo delle scienze naturali aveva dato risultati altrettanto soddisfacenti. In quel caso, risalente all’inizio della mia carriera, molti anni prima e ormai divenuto un pezzo di storia nel campo della ricerca sul comportamento animale in situazioni di criticità ambientale, avevo avuto l’intuizione di inserire il personale di servizio del laboratorio in un’apposita automobile impermeabilizzata e ossigenata, e poi immergere il tutto in un’enorme vasca trasparente, ricavata tra il primo e il secondo piano dell’edificio. Applicai loro degli elettrodi sul petto e alle radici del collo, assicurandoli riguardo alla rapidità e alla non invasività della sperimentazione; successivamente chiesi loro di osservarmi con la massima attenzione e di ripetere ad alta voce il cognome del rispettivo collega al cenno della mia mano, inviando in corrispondenza di intervalli regolari prestabiliti stimolazioni elettriche di sempre maggiore intensità. Dopo ore e ore ininterrotte di esperimento, quando i livelli di ossigeno cominciarono a diminuire drasticamente, mentii ai due guardiani, comunicando loro che il vero scopo della ricerca sarebbe stato in realtà osservare le reazioni anatomiche dei corpi stimolati elettricamente in assenza di ossigeno nell’istante della morte biologica. A quel punto i guardiani si scagliarono l’uno contro l’altro, rinfacciandosi reciprocamente colpe e responsabilità tra le più fantasiose, con giustificazioni palesemente paranoiche e schizofreniche. E nessuno dei due ebbe nemmeno la tentazione di provare ad aprire le portiere dell’auto, per mettersi in salvo. Morirono entrambi, lasciandoci in dono una delle più rivoluzionarie scoperte della scienza moderna. Quel giorno non feci neppure in tempo a farmi venire la forza di rimproverare il mio assistente, per aver spostato la clessidra con i cadaveri delle formiche e delle api, che subito mi venne incontro il direttore. Finalmente, dottore, congratulazioni. Stavolta ce l’ha fatta, ha raggiunto l’obiettivo Quarantotto, il paradigma dell’infinito; la riproduzione continua dei livelli di esasperazione individuale nel rispetto dei limiti dell’equilibrio sociale, e tutto dentro una semplice clessidra. Stavolta è il Quarantotto. E lei entrerà nella storia. Un veloce cenno col capo per gentilezza, poi sullo sfondo la spia rossa del monitor. Foglio e penna subito alla mano, solo qualche breve istante per pregustare l’osservazione di una nuova, disperata, fuga verso la libertà. Poi di colpo, mi scivolò di mano la cartella dei grafici. E contemporaneamente l’occhio cadde sul segno, quasi irriconoscibile nel vetro, della prima crepa.

Jeu d’enfant

Da grande stavolta voglio che ti chiami Elena. Voglio che tu faccia soffrire tutti quei rifiuti umani nati grossomodo insieme a te, almeno quanto m’hai fatto soffrire a me nelle tue reincarnazioni precedenti. Quelle di quando il rifiuto umano ero io e tutte le guerre e tutti gli eserciti me li tenevo conficcati in gola, tra una lacrima d’orgasmo e una di vendetta, ridevo con la mano sulla bocca per non svegliarmi. Da grande voglio che t’innamori del piano B, del piano terra, del fai piano che di là ci sono i miei, magari giusto se ti ci puoi soffiare il naso dopo aver litigato anche del piano piano crollerete tutti davanti a me [e non dimenticare di lasciar stare il pianoforte con annessi e connessi, che non sono mai riuscito a trovare uno che lo suonasse e in grazia del suo Dio personale fosse anche simpatico. Anzi, sempre degli incalcolabili sventragonadisti col fegato sotto chiave]. Ma nessun altro piano, mai per nessuna ragione. Te lo dico così, da solo ma davanti a tutti come sempre, e solo perché in carne non riesco a parlarti come si deve. Proprio per quella storia della gola di prima, non ti offendere. Da grande voglio che ti dimentichi tutto quello che ti ho scritto, ma che sia disposta a dare fuoco alla casa dove vivi pur di non perdere coscienza di quella bambina vestita di candido che si rigira la notte e ti trascina via le coperte quasi con la stessa cattiveria che c’avrebbe messo facendotelo di proposito. Da grande voglio che se ti capita vada anche tu a dormire insieme al cane, ai piedi di una piazza disgraziatamente singola di letto, per di più occupata da tutti e due i ladroni messi a croce, e che comunque sia pronta a inchiodare la testa di tua madre a un fondo di bottiglia se per pietà non t’insegna a usare la frusta con gli occhi chiusi e i denti all’aria. Da grande voglio che i capelli impari a farteli da sola e che non ti dia sofferenza chiamare al telefono la parrucchiera di famiglia e augurare l’incidente stradale a tutto l’albero genealogico. Voglio che impari a fare il caffè, anche solo per potertelo bere tutto insieme dentro la scodella delle tagliatelle prima di andare a dormire, la mattina alle dieci dopo la nottata al pronto soccorso. Da grande voglio che il tuo primo tatuaggio sia grande quantomeno come la rabbia di tutti i preti del mondo quando scade l’abbonamento annuale a zoosex.com, e deve ricordarti che non si gode facendo il peccato ma che facendo il peccato si gode. E poi magari sul secondo ci scrivi che l’infamia è il negativo dell’ignoranza, e che l’unico legame che conta è quello con chi si chiede quale sia l’unico legame che conta. Da grande vorrei che tu non morissi, che non crescessi, che non nascessi nemmeno. Da grande voglio che tu stringa la mano a chi ci si è stretto il nodo, e che tu stringessi il nodo a chi le mani se le è lavate lisciandosi il filo della cravatta occasionissima dell’asta giudiziaria. Da grande voglio che impari a nuotare in mezzo all’alfabeto, con gli occhi a mezz’asta distratti dalla ricerca erogena d’uno scultore solitario. E che poi ti faccia crescere i muscoli per restarci aggrappata, mentre giù scorre la lava sulla bava delle mandibole puntate che ti chiamano ma non sanno pregustare. Da grande voglio che ti butti in mezzo al Viale Europa dentro un cavallo di Troia metallizzato per fissare le facce misto nylon di quelli che ti fissano con la puzza di terrore, è finito il petrolio! sotto alla cintura e i capelli tristezza, stile anni ’40 ma senza bombardamenti. Da grande voglio che fumi, che bevi, che ti droghi, che ti buchi le orecchie e che poi chiudi il libro perché s’è anche già sentita; che ti piaci anche quando sei nuda, che fai del male senza motivo, che bestemmi quando va via l’acqua calda; che ti trovi un lavoro con calma, dopo un po’ che non l’avevi mai fatto e solo perché era un’altra spunta da mettere sulla lista; che non ti venga proprio bene cucinare, che la doccia quando ti pare a te e i maglioni c’hanno tutti almeno uno strappo; che sbatti il telefono in terra, che urli da sola in macchina, che a sedic’anni ti piace la danza ma il rosa t’ha sempre fatto schifo; che vomitare alla fine serve, e dopo un po’magari ti c’affezioni anche a risalutar la cena, che magari in fondo scrivere è l’unica cosa che ti piace; che dire quello che si pensa è giusto, pensare quello che si vuole va bene, ma se poi non ti fa né ridere né scopare anche col cazzo che me ne frega; che la vendetta è bella anche se fa male e che se il treno non ferma io piscio sul sedile; che sia prima o dopo l’erezione, l’affinità elettiva che disturba i progetti rapisce la quiete svela i conti in sospeso sia orfana di futuro se, come e quando ti pare a te; che dei froci, dei negri, degli zingari quel che ti fa schifo è che in buona parte siano stupidi esattamente come tutti gli altri; che ti diano la nausea il buonsenso, l’opportunità, il moralismo, le reprimende, i paternalismi, gli elenchi telefonici, gli elenchi di parole superflue nelle descrizioni, quelli che ti dicono che gli altri sono stupidi, però quando ti serve lo fai anche te e il primo che viene a rinfacciare, protestare, sindacare, piagnucolare, intristire, ammosciare, infastidire, sempre se, come e quando ti pare a te, la prossima volta non avrà una prossima volta e la sua unica prossima volta te la sei già masticata un bel po’di secoli fa; che ti diverta ascoltare contemporaneamente il tango argentino, il nipote dei vicini che gioca con la palla da tennis e il coro dei tuoi meravigliosi ospiti interni raccontarsi barzellette scabrose in cui guarda caso sei sempre te a passare da cretina; che come sempre ti domandi quanto si devono maledettamente divertire con le matite quelli che sanno disegnare davvero bene, a crearsi tutte quelle situazioni sessualmente incredibili, quegli spiragli così intrigantemente entusiasmanti di libertà assoluta, e voglio che tu lo faccia giusto prima di ricordarti che in realtà l’hai sempre saputo fare anche te, come a suo modo per prima ti disse la maestra alle elementari commentando il tuo primo foglio protocollo; che ti diverti a rubare i cartelli pubblicitari alle gelaterie dei paesini sperduti dove ti sei lasciata trascinare a corpo morto da quei pochi coraggiosi che si sono azzardati a infilare le loro vene in mezzo ai denti infuocati delle tue, e che poi subito dopo al mare preferisca morire piuttosto che andare via, anche se lo sai perfettamente che ti stanno spiando da mezzora. Voglio che ti dimentichi come non si muore dal ridere. Da grande voglio che tu sia felice, forse proprio perché non nascerai mai. [Da grande voglio che tu sia come uno di me, tanto a quel punto quegli altri se lo saranno già impiccato, qualche secolo prima che tu cominciassi a respirare. Godendo].

Tendenzialmente

La vita non ha senso. Lo sai chi è quella lì che è entrata? Praticamente era in classe con me quando andavo al liceo, tutt’altro che simpatica, in famiglia tutti mi conoscevano come quello che non faceva un cazzo e prendeva sempre un voto in più della diligente figlia boccoluta prediletta. Ero il nemico di tutto il parentado, credo che m’abbiano odiato in pochi a quei livelli. Una delle poche soddisfazioni della scuola è stata vederla battagliare in quel modo così penoso, mi sono fatto certe risate incredibili. Ce l’avevo anche i tre anni delle medie, un giorno mi ricordo venne a correre con me, quando io ancora andavo a correre. Si fermò quasi subito, su una balla di fieno, al tempo probabilmente mi piaceva anche, anzi forse è stato anche per lei che mi sono iscritto al classico al tempo. Non sono mai riuscito ad appassionarmi seriamente a qualcuno che fosse tra quelli che più disprezzavo; non potevo fare a meno di diventarne dipendente, non sapevo non innamorarmene. Lei, t’assicuro, era l’ultima persona che mi aspettavo di trovare qui. Comunque penso d’essermi convinto, mi sa che ci verrò a lavorare davvero. Avere un padrone amichevole è una fortuna che non ci si può permettere di mandare a morire male insieme a tutto il resto. Poi va bene, non sarà proprio il mio migliore amico, diciamo che ci siamo conosciuti nel modo sbagliato ma nell’occasione migliore. Come ti pare, ma è già una fortuna. Non sarà forse proprio l’esempio di lucidità che ricerco nel prossimo, però è simpatico, accogliente. Ha un po’ l’aria da fesso, ma insomma, non è che si può stare sempre a odiare tutti, voglio dire. Alla fine qualcosa bisognerà pur accettare dalla vita, magari anche volentieri, magari cogliendone i lati positivi, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento. In più i soldi mi servono per il viaggio in Palestina, chissà se magari questa volta ci riesco a andare davvero. Anzi, se vuoi venire anche te penso non ci siano problemi. Sarebbero due settimane, pensaci, che sono occasioni rare. Poi non lo so se t’interessa, insomma, però non mi dire che preferisci l’India, perché non mi riesce proprio di capire come possano essere paragonabili. Proprio a livello di esperienze, dico. Per carità, in India ci sono i poveri e disgraziatissimi sparpagliati ovunque, anche quello ti segna d’accordo, però la Palestina è la Palestina, non ti pare? Non so se conosci bene la storia, tutta la questione, la libertà violentata di quelle terre, di quel popolo, dal dopoguerra in poi. D’accordo, magari non t’appassiona troppo come argomento di discussione, cambiamo discorso. Anche se un po’ in realtà continuo a pensarci, pazienza. Insomma, anche se non te ne interessa, anzi sembra proprio che non ti interessi assolutamente niente di quello che interessa a me, e forse non ti interessa proprio nulla nella vita in realtà, alla fine mi sei simpatica. A volte mi conquisti con certe espressioni, per come ti vengono spontanee quelle traiettorie sulle guance quando ti vedo scollegata. Insomma, vada come vada a volte effettivamente bisogna accettare qualcosa nella vita, bisognerà mettersi l’anima in pace e coglierne i lati positivi, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento, quantitativi di potenziale caotico intrigante. Non so se rendo l’idea insomma, alla fine non sono proprio capacissimo di esprimerli come vorrei. Certi concetti dico. A volte mi manca un po’ il lato comunicativo, me ne rendo conto. Anzi, spesso mi monta proprio una rabbia cane, un senso di frustrazione insopportabile, quando mi sento andare a sbattere contro il muro di gomma dei miei limiti naturali. Vorrei trovare la forza di volontà per superarli, non poche volte mi metto davanti a un tavolo e cerco di raccogliere tutte le energie disponibili con la fermissima convinzione di rivolgerle tutte insieme verso l’obiettivo, contro il nemico, ma non è sempre facile. Comunque pazienza, anche se per la verità non ci sono mai riuscito, alla fine comunque alla gente sto simpatico. Tendenzialmente sono apprezzato, quantomeno mi sopportano insomma. Quasi tutti, almeno nella maggior parte dei casi. Poi insomma, non sarò proprio il migliore amico possibile ma nemmeno il peggiore, voglio dire, a volte bisogna anche accontentarsi un minimo. Accettare qualcosa nella vita, mettersi l’anima in pace e cogliere i lati positivi dalle situazioni che ci troviamo davanti, tutte le circostanze collegate di possibile divertimento. Il quantitativo di potenziale caotico intrigante, qualcosa che t’appassiona, insomma. Anzi, qualcosa che ti fa decisamente ridere, sghignazzare scompostamente senza pudore in mezzo alla strada. O almeno qualcosa di simile. La vita non ha senso. Però è simpatica.
Tendenzialmente.

Post-it

E comunque è il mio lavoro. Datemi retta, vi troverete bene: l’ho già fatto molte altre volte.
Solo un momento, mi rigiro prima di cadere di sotto, eccomi. Stavo dicendo, prendete questi strani affari scuri, sembrano fagioli di plastilina ma vi aiuteranno. Insomma, come vi stavo dicendo signori, se non sbaglio sono un grande esperto del settore, e adesso qui tutti riuniti mi ascoltate, e fate bene senz’altro. Arrivo subito da voi, aspettate un istante soltanto che mi segno un paio d’appunti. Sapete, non vorrei correre il rischio di dimenticare tra qualche ora. La mattina è sempre il momento più pesante della mia giornata, ogni volta mi pare di risvegliarmi da un coma malizioso che puntualmente ogni diciotto ore mi riporta a quindic’anni e mi fa ricominciare tutto da capo. [Vogliate perdonarmi signori, sono un tipo un po’ particolare, ma alla fine ci si abitua a tutti questi fogliettini sparsi per l’ufficio. Sono un po’ la mia memoria esterna, sapete, senza di loro sarei perduto probabilmente. Ne prendo uno qualsiasi, vogliate approfittare: “la differenza tra me e lei? Io sotto la doccia fischietto vecchi ritornelli della tradizione popolare, lei ascolta Lady Gaga dal dolby nuovo della filodiffusione”. Niente male, mi pareva opportuno ricordarmelo]. Bene, come vi dicevo sono qui per aiutarvi e se vi rimetterete ai miei consigli, se li seguirete con puntualità e attenzione, riuscirete a risolvere buona parte dei vostri problemi; scaccerete i vostri demoni e la vostra stabilità psicofisica ne trarrà un giovamento sostanziale. In pochi giorni vi sentirete nuovi, freschi come lo eravate un tempo, molto più giovanili e con tutta la voglia di scherzare di quando da bambini giocavate con le automobiline in miniatura sul plastico del trenino elettrico. [Soltanto un momento ancora, questa è una citazione: “la vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”. Davvero bel film quello, nulla di eccezionale d’accordo, ma una buona fotografia e degli indimenticabili sprazzi di genialità qua e là nel copione]. Comunque prima lezione: voi bastate a voi stessi. Scolpitevelo in quelle vostre stramaledette teste super cariche di stress lavorativo, e non dimenticatelo mai. Se vi può tornare utile approfittate anche voi dei post-it, lasciateli sparsi nelle vostre stanze, e ogni tanto tirateci un’occhiata. [Questo, per esempio: “Avv. Claudio Maria Biffoli, studio legale via XXIV Aprile n.12, 333/4970870”]. L’importante è che riusciate ad affidarvi a loro, alla loro inesauribile saggezza, però sempre senza diventarne dipendenti, senza farla diventare un’ossessione. All’inizio non ci si crede, ma restarci invischiati è più facile di quanto si pensi. Seconda lezione: dove lasciate un vuoto, qualcuno correrà a riempirlo. Ci sarà sempre qualcuno pronto a fare la sua mossa, fateci attenzione, ma sempre ricordando che nella buona parte dei casi colui che cercherà di farvi del male sarà sufficientemente idiota e prevedibile da tirarsi la zappa sui piedi da solo. Trovate il punto di equilibrio tra queste due inconsolabili verità. Magari segnatevi su un quadernetto le vostre mappe concettuali, una per ogni tormenta del vostro cervello, con annessi e connessi ben specificati e rigorosamente ordinati. Mettere nero su bianco ogni rapporto di forza, la schiera delle possibili mosse avversarie, vi assicurerà vantaggi non indifferenti: la fantasia di un romanziere, la verità di un matematico di mezz’età e la tenacia di uno scacchista psichiatrizzato. Tutte qualità imprescindibili per un buon manager. Ricordatevi che il vostro compito è combattere, la vostra casa la giungla, il vostro ossigeno sta nei polmoni del nemico e che il nemico siete voi. Un momento ancora, mi segno pure questa. Come vi stavo dicendo, regolamentarsi è importante, ma ricordatevi sempre di portare rispetto alla forza motrice di questo mondo: onorate il caos molto più di qualsiasi padre o madre, e siate il bastone della vostra vecchiaia soltanto. Vi aiuterà a ricordarvi che da soli siete molti di più che mischiati con chiunque altro. [Scusate per la citazione cinematografica di prima, vorrei ricordarvi che in realtà non sono molto esperto, ma sono ben contento di lasciarmi trascinare dai giusti stimoli che volendo si riescono a trovare quasi dovunque]. Terza lezione: il primo campo di battaglia è il linguaggio. Ognuno di noi, dalla prima parola spiccicata dal fondo fetido della culla, è cresciuto ignorando la potenza distruttrice e rivoluzionaria del linguaggio. Siamo stati educati a darla per scontata, a ritenerci padroni della comunicazione una volta apprese quelle poche regole convenzionali della grammatica, imparate al tempo della scuola. In realtà il linguaggio va conquistato, bisogna riappropriarsi delle parole continuamente, giorno dopo giorno. Ma non fraintendetemi, non parlo dei significati: quelli potete lasciarli all’abbandono volendo. L’importante è affilare ogni mattina le corde vocali, le unghie sulla tastiera, in modo che quello che ne possa venir fuori sia petrolio bollente versato negli occhi e nelle orecchie di chi si azzarda a sfiorarvi anche solo col pensiero. [Casualmente proprio sotto la lampada avevo attaccato questo, quando si dice il colpo di fortuna: “la vostra lingua è così, una bellissima troia che succhia sangue da pochi signorotti imbottiti di soldi per rifarsi le tette ogni due settimane, ma che comunque non si accontenta mai e brama i cazzi di tutti, anche dei più miserabili: anzi, è forse proprio con i più disgraziati di tutti che riesce a godere veramente e forse, anche se non lo ammetterebbe mai, in fondo dev’essere proprio per loro che tiene il diavolo nella sesta del reggiseno. Per farli impazzire e essere sicura che, vada come vada, non resterà mai da sola sotto le coperte d’un letto freddo”]. Quarta e ultima lezione, per oggi: trattate bene quei fagioli di plastilina e qualsiasi cosa succeda, non importa quanto pesce abbiate mangiato, non cercate di dormire dopo aver bevuto il caffè nella tazza dei cereali. Segnatevelo.

Coppa C

Attività cerebrale col sapore di stufa al quarzo sui calzettoni color perlage ripiegati nella polvere, indice sinistro sospeso sulla F, a ruota l’invidia dell’altro sospesa sulla J, Cellini forte e libertango. Sai, il problema è che parlare con te a volte è come interagire con una scatola di viagra purissimo, anche se per le definizioni migliori ancora devi aspettare il prossimo cartello di divieto. Ragiona, aspetta che ti sbatta addosso l’orecchio di quando non possiamo, e come a vederti cadere nuda svenuta mi sembra d’esser solo a suonare le ghignate maledette nascoste in mezzo al tabacco. Dritte a succhiarmi via le pupille, come sempre solo un attimo prima di farsi scoprire. Ho la paura del fumo, parlami, se qualcuno parla c’è luce, te la ricordi questa? Io credo che faresti meglio a disinfettarti la prossima volta, ma non te ne faccio adesso una colpa, con tutte queste immagini da scolpire sulla lapide che mi rincorrono per la strada. Mi pare comunque d’aver ricominciato a esser capace di accoltellare la gente. Me ne sono accorto stanotte, pensa te che per la paura di dimenticarlo m’era quasi presa voglia di scrivertelo per messaggio; non è facile, c’ho messo tanto a ricordarmi come si fa ad essere sempre stati quindicenni aggrappati alla moquette. Ogni tanto qualcosa mi sfugge via: vorrei riuscire a non simulare, non capisco perché non sono mai riuscito fino in fondo a registrarmi quando parlo da solo. Al momento giusto mi sono sempre interrotto, mi sembrava di forzare la mano, di perdere naturalezza. Eppure una volta ci riuscivo, anche senza rassicurazioni, ma tutto insieme non si può pretendere e lascio correre per stavolta. Non ti preoccupare per me, so badare a me stesso anche se il problema è che non mi riguardo, non c’entro niente poi alla fine, e so che anche questo domani me lo ricorderò, magari insieme a due baffi ingellettati da piantarti sulla faccia tanto per farsi una risata insieme alla tazza di caffè. Non te l’ho detto ma ne ho comprata una ancora più grande, da potercisi lavare i capelli dentro, con quel caffè. Sta arrivando il controllo, ti devo lasciare. Come sempre ti prego di fare attenzione al filo quando richiudi il barattolo nell’armadietto del bagno, non vorrei dover esser costretto a stare altri tre quarti senza sentirti. Per domani mi sono preparato un bagno caldo di prospettive erogene da sostituire a quelle vecchie, credo di non poterti più dire niente se ti viene voglia di offendermi. Ma tranquilla, me lo ricordo bene che quel matto che pensa al futuro, e magari crede pure di organizzarselo, merita d’essere legato al primo palo sulla sinistra e preso a secchiate di catene in faccia. Mi manca soltanto il passaggio in cui puoi riuscire a convincere uno qualsiasi dei centimetri quadrati del collo a ubriacarsi della saliva altrui a tal punto da togliere il senso alle definizioni di realtà, e cominciare a far la parte del ricordo nelle scacchiere degli altri, invisibile una volta di meno. Il pugno, proprio quello chiuso nella tasca, che cerca l’interruttore nell’idea che s’è fatto di quel lampione colorato all’inglese; tutto tranquillo mentre cavalca spavaldo un capo ufficio marketing da soma, che per ricambiare l’indifferenza insiste sognando, e già si vede con la polaroid al polso andare a reclamare un sorso di biada dalle unghie conficcate nella carne dentro la tasca dei miei pantaloni, così perdutamente assorti nel segreto della X sulla mappa degli interruttori timidi che non funzionano. Eppure quel filo trattalo bene, facci un altro nodo sul fondo del barattolo, quando senti il bavaglione a quadretti col bambino legato al collo che comincia a battere i cucchiai sulle macchie incrostate della tovaglia. Non ci sono più i vizi che mi ricordavo, sai? Solo qualche giorno fa ci facevo caso, a una tipa amante degli animali nel corridoio che dava da mangiare ai pesci qualche forchettata del vomito accumulato nella lettiera del gatto, senza prima nemmeno passarlo qualche minuto dal microonde. Credo che al posto suo avrei saputo come divertirmi, almeno un po’ di più, ma nessuna delle espressioni disegnate dalle mani davano d’intendere che ne avesse neppure la voglia, di provarcisi a immaginare in una discussione al limite della buona educazione col capo pesce seduto sul tostapane, trattenendo a sforzo la corpulenza tipica mediterranea dei quarantasette prosperosi denti coppa C in fila per due col resto di mancia, a prendere il sole alle spalle di due guance compassate grondanti sudore e sfiancamento. Alla faccia di chi ci vuole male e degli intricatissimi muscoli facciali, che magari nel frattempo ti guardano e tutti seriosi si domandano sotto a cosa si può riparare un carcerato quando arriva il terremoto. Il futuro era ieri, e mi faceva tanto ridere. Resta il fatto che qui il perlage effervescente sotto la lingua non è affatto male, anche se a volte con te mi sembra di parlare con una scatola di viagra.
Tagliato male.