Vidi salire la valigia dell’architetto fino a scomparire sui tetti innevati della prima estate d’amianto, l’ombra di Dio trafitta dal cranio della polvere suonava l’armonica a bocca soltanto per noi soldati del futuro, sugli scalini si appoggiava alle ringhiere l’insegna luminosa di una tabaccheria in orario prolungato fino a dopo le redenzioni di un sonnambulo, ogni particolare sedeva al suo posto come in un mosaico di lasciate speranze e consigli provvisori, niente di quello che potevate sentire allora vi sarebbe rimasto da qualche parte nella tasca, insieme a me, un prete in vestaglia e sigaro ammezzato vagava sotto i lampioni sparlando del Verbo e dell’oscurità, quasi non si sentiva altro che la montagna dei suoi rifiuti umani accorrere fino a stringergli le ginocchia in un muro del pianto genovese che mi lasciava in bocca come un senso di latte e miele e germogli di sale marino essiccato, l’imbuto restava sospeso, non c’era collegamento diretto, non abbastanza veloce, all’infinito lo sbattere di un rumore, contro i veli appassiti delle testuggini, mentre arriva la Madonna vestita di candido e salmonella a cambiarmi il secchio sotto la grattugia per il cranio, qualcosa di meglio mi promette che dovrà arrivare, mi guarda con un sussulto di improvvisazione e rimanda tutto a dopo l’intervallo, quando un signore di poco più di un’eternità da masticare si alzerà sulle spalle e togliendosi il cappello finalmente ci lascerà entrare, con tanto di mostrine e sacchi neri intorno al collo, dritti fino al bancone del bar, a ordinare camomilla per tutti e doppie dosi di caffè misto alla frutta che nessuno era riuscito a trovare giù nella bassa campagna, intorno alle pareti limacciose del fiume libero, quando ancora si portavano gli occhiali alla moda di Parigi e tutti si accontentavano di avere un quadro elettrico da saper gestire e tornare a casa sporchi di fango e con la tanica della camicia macchiata fino all’orlo della disperazione, le famiglie li guardavano allora, e li vedevano brutti come di una bruttezza segnata a inchiostro di verità nelle cornici di un siero sintetizzato in fretta e furia sulla riva di un mare bianchissimo e con la febbre a novanta che portava nuovi amici dentro i saccappelo dei traditori e delle donne di pubblicità, rossetti da grande schermo che sfilavano su vestiti inadeguati e grasse risate, intorno alla corte ripetuta di qualche grasso paramilitare vestito da Gabibbo che portasse ancora sicurezza e gelido tepore domestico nelle corti della Francia più rassegnata, e quando ancora poteva sembrare che bastasse non se ne usciva mai, e ancora di nuovo una volta ancora serviva replicarsi, anche senza faccia bianca e inchiostro da progettatore genetico spalmato intorno agli occhi, bastava lanciare eserciti di grida scomposte per tagliare tutto in un misto nylon di specialissima rassicurazione, e quasi tutto sembrava come prima, e ancora si era sereni, perché alla fine migliori, perché alla fine i migliori della fogna, e la fogna serviva per guardare giusto mezzo centimetro liquido più lontano della miseria delle scarpe da montagna ricucite che mi nascondevano il cadavere dal fiume, giusto che se ne accollasse finalmente una qualche responsabilità, non viveva nessuna delle restanti, nessun parametro, questa è la via, il salvacondotto per un prossimo coinvolgimento maggiore, due libertà che si scontrano, si danno morsi sul collo come fossero cani finalmente lasciati umani a gioire del guinzaglio pendolante dalla ringhiera di un grosso palazzo di mezzo piano sotto la terra, lasciato a marcire nei relitti di bottiglie di vetro e mozziconi di sigarette in autocombustuione che facevano perdere l’orientamento fin sopra la tastiera del divano senza uno dei tre cuscini, quello dove dormivi, pensando al terzo, al figlio forse più importante che ti ascoltava da sotto il terrazzo come orda di eserciti in pensione che si fanno le parole crociate di ritorno dalla Guerra Santa, e i denti che si staccano dalle gengive e finiscono sul collo, via dalle bocche umide dei vecchi tabagisti e fanno la tracheotomia alla sussistenza nevrotica, tintinnano il clitoride della Zita fino a stuzzicarle la radice del cranio con punte di trapano a manovella e segatori finlandesi di montagna che si abbracciano a fine giornata vestiti da sarcofagi dissacrati, spolverati da bande di sciacalli in tenuta antisommossa, grasse risate e vestiti inadeguati, e poi ancora ritorna l’ombra, spolverata via, dal cranio, di qualcosa che ancora non esiste se non nella tua testa, nella tua, nella testa, solo dove l’hai lasciato solo, ancora ti fissa, continua a farlo perché tu le vuoi che si abbracciano, che si abbracciano per te, per una pace nuova e tempestiva dopo le punte affilate dei coltelli a spalancarti alfabeti in costruzione di ponteggi di vetro e camicie da notte rosso umide, dietro cancelli aperti e auto in fuga nelle sirene della notte, che seguono per la loro grassa strada con lo stereo a tutto volume e i volumi incorniciati da un color rosso simmetrico come il punto nero che esplode sul volto ogni volta che si sente parlare di persone che non dovrebbero parlare se non quando il maestro le mette in punizione per aver fatto troppi, veramente troppi, davvero esageratamente troppi compiti a casa, senza che nessuna nonna morisse d’invidia a pensare al corso di laurea d’un affogato, strette intorno a nuove palme da quarto piano a fissare passanti albanesi con le dentiere bianche e i vestiti brizzolati dalle rughe della strada, quando ancora una strada non era niente di meno che una feritoia nel mondo verticale, un supporto alle esigenze di un disegnatore quattordicenne ricoperto d’ovatta e gommapiuma, e a forza di movimenti nuovi i tendini continuavano a replicare al mondo a microfoni spenti e con l’autoradio rubata, soli dove solo qualche altro curioso ricercatore d’interruttori li ha lasciati a implorare perdono dai passanti, dalle catene divelte della sera tarda, dalle limousine interminabili dei vecchi amici seminati lungo le rotaie a forza di fischi e botte d’asfalto, lungo i corridoi delle visioni del futuro, tutto quello che inevitabilmente dovrà succedere adesso per non succedere mai, e quando ti vedi, ti vergogni.