La prima volta che la vidi teneva le gambe incrociate appoggiata di schiena alla ringhiera del giardino di casa. La mia finestra dava sull’altro lato dell’edificio, così dovetti aspettare l’ora dell’aperitivo al bar prima di notarla; a giudicare dai jeans alti in vita e dai giochi di luce che le scorrazzavano in fronte sotto i capelli tagliati cortissimi pensai fosse una delle nuove accompagnatrici della vedova a cui avevo affittato il secondo piano. Non fu poco lo sforzo per tenere a bada le retine, e forse fu proprio lo stridio dei loro denti ad attirarne l’attenzione. A che poteva servire presentarsi quando ci si poteva tenere per mano? E tenersi per mano, quando ci si poteva baciare. E baciarsi, quando si poteva prendere e andare via, verso la prima scacchiera gigante che il mondo c’avrebbe messo sotto ai piedi, fosse anche solo per farci ridere delle facce buffe che quel gioco improvvisato c’avrebbe ispirato. E a che serviva giocare, quando il gioco potevamo essere noi? E come mai tante domande è difficile chiederselo sul momento, così rimandai fino all’incidente. Dopo la sua morte me ne tornai a casa, per la prima volta dopo tanti anni. Non era cambiato quasi niente, se non per l’espansione incontrollata della vedova, che aveva ampliato il suo harem personale al piano inferiore dello stabile, sentendosene pienamente in diritto dopo il rapimento della sua nuova vittima. In quella che era stata la camera da letto aveva sistemato una sala massaggi, con tanto di fanghi rivitalizzanti, armadietti stracolmi di creme benessere di ogni tipo e una quantità ineguagliabile di flaconi d’olio aromatizzato al caramello. Nella cucina aveva allestito una specie di spogliatoio improvvisato, direttamente comunicante col salotto, un esaltante bagno turco interamente piastrellato di arabeschi sfumati dal celeste pastello al blu oceano. La toilette era l’unico spazio rimasto come l’avevo lasciato, abbandonato al suo ultimo giorno di pulizia. Tentai alla buona una sistemazione temporanea, riadattando la vasca da bagno con qualche cuscino e una coperta; trascorrevo notti d’inferno tra le vampe fetide delle tubature otturate, le viscose incrostazioni di calcare e acidi lichenici e i fastidiosi andirivieni delle blatte notturne, anche se a tormentarmi in assoluto di più erano le eco tremolanti dei muggiti saffici di cui la vedova non riusciva a saziarsi mai definitivamente. Nessuna delle sue donne aveva scelto deliberatamente della propria sorte, ma per qualche oscura ossessione non erano più riuscite ad allontanarsi dalla vedova. La sua prima vittima era stata una giovane inerme postina, la seconda e la terza due baby-sitter attirate dalla promessa di un sostanzioso stipendio stampata su un volantino, la quarta una donna delle pulizie, la quinta e la sesta due passanti che avevano forato con la macchina. La settima fu mia madre, attirata nel suo appartamento con la più banale delle scuse subito dopo un’irruzione in casa mia all’ora di cena, che adesso non riusciva più nemmeno a ricordarsi di me. Le successive tre furono il suo vero capolavoro: spacciandosi per vittima di maltrattamenti domestici portò davanti a un tribunale il nome del marito deceduto. Il processo cadde inevitabilmente nel nulla dopo poche udienze, e la vedova se ne tornò a casa con l’avvocato, il giudice e una quindicenne cieca, presa di forza dalle braccia dei genitori che se ne contendevano l’allontanamento in un caso di divorzio nell’aula accanto. L’undicesima, tutto l’amore che abbia avuto in vita, era l’unica arruolata volontariamente. Per quanto insistessi, non riuscii mai a farmene spiegare il motivo, e ogni volta entrassi nell’argomento il volto le si contorceva in espressioni scomposte e riluttanti, come se sopraffatta dal brivido di un piacevole e misterioso fastidio intimo tentasse di convincermi a cambiare discorso. Ma più di ogni altro aspetto di quella vedova mi affascinava l’assoluta tranquillità e trasparenza con cui manifestava il suo indiscusso potere coercitivo. Quella che un tempo era stata casa mia si era adesso trasformata in una sorta di provincia autonoma, in tutto e per tutto indipendente da vicissitudini e organismi esterni, in cui ogni autorità era rimandata soltanto alla capacità attrattiva con cui convinceva giorno dopo giorno le sue lesbiche a vivere in completa dedizione alle sue manipolazioni sessuali. E il tutto si svolgeva con una drammatica quanto disillusa semplicità. La vedova, fatta eccezione per mia madre, era l’unica capace di gestire gli impegni della quotidianità e la sola sufficientemente abile da soddisfare esigenze e necessità di ognuno. Provvedeva personalmente al sostentamento di tutte, cumulando i risparmi che ognuna aveva messo a disposizione, e nonostante l’accondiscendenza generale nessun vincolo esplicito impediva alle altre di uscire, di mantenere interessi personali o frequentare individui esterni alla casa. Nel periodo di lontananza avevo perso ogni forma di controllo sull’edificio, così come ogni rilevanza nei processi decisionali. La vedova, col suo esercito di lesbiche, dominava in casa mia con la stessa brutale indifferenza di una mantide religiosa che squadra il partner prima del rapporto, e non ci volle molto prima che quella stanza da bagno si trasformasse nella vanga della mia quieta e distaccata sepoltura. Nonostante i continui sforzi per ridurre al minimo gli impatti della mia presenza, quel ritorno inaspettato sembrò turbare l’equilibrio naturale stabilizzatosi nel tempo; le presenze maschili non erano più contemplabili e il mio isolamento fu l’unica alternativa sostenibile all’uso della forza. La comunicazione mi arrivò per iscritto, in una lettera tenuta tra i denti e consegnatami per interposta persona dalla ragazzina cieca, la più giovane delle lesbiche, mentre dallo spiraglio della porta socchiusa filtravano i vapori del bagno turco accompagnati dal sapore tiepido degli incensi accesi notte e giorno. Puntualmente a ogni ora di pranzo la ragazzina tornava a farmi visita col suo vassoio di ceramica e le razioni abbondanti del consueto minestrone di cereali accompagnato da qualche fettina di carne e insalata. Provavo un certo fastidio verso quella sua cecità, anche se il vero ostacolo alla conversazione era il costante stato di imbambolata apatia che sembrava risucchiarle in un vortice di ulteriore inespressività il complesso mosaico di muscoli facciali e lineamenti delicati rimasti orfani della profondità dello sguardo. Il tempo trascorso insieme era per entrambi poco meno di un rituale, l’esigenza comune dei rispettivi obblighi professionali che ci costringeva a interminabili spasmi di silenzio e contemplazione a vuoto in compagnia di licheni e scarafaggi, e lo restò saldamente fino al giorno in cui lo sbattere delle sue nocche sul legno cadente della porta mi sorprese ancora svestito. Nelle stanze al piano di sopra le eco tremolanti dei muggiti circondavano la vedova insaziabile con la forza penetrante di un riflusso gastrico incastrato a metà strada in uno scarico otturato, e l’espressione divertita che per la prima volta terrorizzò di contraddizioni l’immagine sputata sulla cornice arrugginita dello specchio fu sufficiente a convincere la fronte scintillante sotto i capelli tagliati cortissimi e i pantaloni alti in vita, convincerla che l’undicesima era finalmente tornata a casa.