Chat

Sapeva che sarebbe successo di nuovo. 19:11, niente.
Lo sguardo spento, ripiegato lungo la segnaletica, cercava di rassicurarlo silenziosamente, mentre senza comprenderne a fondo il motivo si era ormai quasi del tutto rassegnato a farsene una ragione. I riflessi dei lampioni si infrangevano come zolfo incandescente tra le portiere metallizzate e gli angoli scanalati dell’imponente scaleo da cantiere che giaceva ripiegato lungo i sedili posteriori reclinati dell’abitacolo. Quel mosaico di bagliori isterici, proiettato in mezzo alle bruciature di sigaretta sul tettuccio dell’auto, era rimasto probabilmente l’unico labile collegamento psichico tra il suo ecosistema mobile e la realtà circostante. 19:37, niente. Gradualmente anche quell’ultimo superstite gli stava scivolando via, trascinato per i capelli da una suoneria polifonica stile primi anni Duemila, scaricata con un servizio in abbonamento. 19:39, amore quando torni? Noi siamo rientrati adesso, pensavamo di ordinare un paio di pizze. Ti aspettiamo per cena? Riporta a casa lo scaleo e poi ricordati che è venerdì: andiamo al cinema dopo mangiato, alle nove e un quarto ti voglio qui. Sfuggire da sua madre era stata la sua prima grande abilità. Col tempo aveva raggiunto una tale spontaneità, nel tagliare corto, da non aver più bisogno di elaborare ulteriori rassicurazioni; tanto era diventato semplice il meccanismo che gli sembrava quasi fossero i cartelloni pubblicitari spuntati dietro il guardrail dell’autostrada a suggerirgli le battute, a riadattare costantemente il copione, man mano che si intricavano le sue esigenze insieme al livello di difficoltà nell’elaborazione delle menzogne. 19:43, niente. Erano forse proprio queste sue simbiosi immaginarie, tra sé e l’inanimato delle sue scenografie in lenta evoluzione, i suoi unici momenti di svago e soddisfazione. Per il resto sentiva di continuare ad allontanarsi da se stesso. 19:55, niente. Riconosceva a stento il suono della sua stessa voce e in qualche modo si divertiva a immaginarsi rinchiuso in una vibrazione silenziosa, nei minuscoli altoparlanti finalmente distrutti della sua polifonia vocale. A volte ci riusciva, nei tempi morti, pochi istanti prima che il telefono squillasse di nuovo e che la voce metallica gli rimbombasse nell’orecchio gli energici saluti di un adolescente in crisi, sempre pronto a raccontare delle proprie interminabili vicende amorose, cercando di convincerlo a condividere isteria e disperazione, come si conviene in questi casi. 20:01, guarda, hai fatto bene a chiamarmi, lo sai che non ci si può fidare di lei. Lasciala perdere e vieni stasera al centro, piuttosto. C’è una festa, alle nove e mezzo ti passo a prendere e ci andiamo a svagare; a modo mio però, lo sai. Quando ti serve un amico sai dove trovarmi. 20:05, adesso ti saluto, devo andare. Perché lo facesse non lo sapeva nemmeno lui. Forse un buon indizio lo si dovrebbe ricercare nel rumorino elettronico dei segnalatori di direzione, o nelle frequenze trasmesse alla sua radio dalle numerose interferenze delle gallerie. Solo dei suoni, forse troppo simili a certi allarmi che gli si erano radicati dietro i timpani. Gli ricordavano troppo il tono predefinito della sveglia che si era impossessata di lui, e lo costringevano a sopportare l’idea che sarebbe inevitabilmente successo di nuovo. 20:07, nessuna notifica; solo il martirio polifonico, grottesca bestia mutante stavolta con le sembianze del capo, il padrone della pizzeria. 20:08, stasera puoi venire? Manca gente, dai vieni al secondo turno, verso le nove, massimo nove e mezzo. Sicuro, diceva lui, che problema c’è? Ci vediamo più tardi allora, insisteva, e ora però tutti zitti. A ogni sorpasso si dimenticava del suono della freccia e alle 20:19 metteva distrattamente mano al cellulare, ben riposto sul sedile passeggero, tanto per dare una controllata al suo giardino segreto di pallini verdi e freccette blu, che ancora notificava: niente. In silenzio tornava a immergersi nei pensieri, per scegliere la più sbagliata tra le versioni di sé. Sapeva che fare il cameriere non sarebbe bastato a soddisfare le sue ambizioni, e per quanto si sforzasse non riusciva a trovare nessuna valida spiegazione del perché avesse accettato quando gli fu avanzata la proposta, quella volta che trovandosi al telefono con la sua ex fidanzata era diventato un esemplare maschio perfetto di trentenne slavo d’ispirazione bohémienne, alla ricerca di una sistemazione provvisoria misera e inutile di cui servirsi per giustificare la propria esistenza di fronte alla frusta del padre e sostenere le spese per le inconfessabili razioni mensili di stagnole d’oppio di pessima qualità. 20:24, niente. Qualcosa di vero poteva esserci, nella comodità stessa in cui calzavano le cuciture del ricamo, la maschera automodellante sulla sua faccia; o magari nel senso di familiarità che gli pulsava sulla pelle ingiallita dall’alcol delle dita affusolate, mentre strisciando sul sedile lanciavano una nuova rapida scorsa allo schermo. 20:29, niente. Nessuna novità, nessun beep che riportasse il nome tra quelli dell’elenco, nient’altro che non fosse quella stupida suoneria che ritornava col suo carico di frustrazioni politicamente corrette, nervosismi blandi socialmente accettati, la voce tremolante di una delle sue amanti che implorava eccitazione e un pezzo di fascino tutto mistero e pugno d’acciaio che, 20:32, stasera passo da te, fammi sapere quando lui se ne va; anch’io non penso altro che a te, schifosa, mi fai tremare. 20:37, niente ma tremava davvero, anche all’idea di quell’entusiasmante progetto per il futuro, l’opera d’arte estrema e definitiva della sua carriera. Il lampo di genio gli era venuto nel sonno: aveva sognato di riuscire a mettere insieme così tanta corda da formare un cappio con nodo scorsoio a entrambe le estremità, capace di unire la Terra e la Luna nella nevrosi di un insuperabile abbraccio mortale, in cui non si riuscisse a capire chi dei due fosse il boia e chi l’impiccato. La sua convinzione era tanto irremovibile e suggestiva da tenerlo occupato fino alle 20:54, niente, prima che le dita tornassero a distrarsi sul display retroilluminato. Si era anche informato per cambiare il suono delle notifiche, in modo tale da poterne impostare alcuni così caratteristici da non poter essere confusi con i gorgoglii della sua auto, e aveva cercato di disattivare la ricezione chiamate in modo da evitare scocciature senza vedersi costretto a spengere il cellulare. Ma un po’ per sfortuna un po’ per la mancanza cronica di forza di volontà non era riuscito a combinare nulla, e si lasciava divorare ogni volta che gli succedeva di nuovo e che quello sciagurato ritornello polifonico tornava ad ammorbargli i nervi, ogni volta che si sentiva sbattere in faccia dagli auricolari il ronzio sferragliante della compagna, una giovane ragazza poco più che intrigante, decisa a coinvolgerlo in elaborate elucubrazioni mentali sul significato della sua intrepida avventura artistica. 21:04, alle 21:30 a casa tua, ne parliamo aggrappati a un bicchiere di vino ma cosa ne penso davvero te lo devi lasciar sussurrare all’orecchio, e in bocca gli era rimasta solo la voglia di cambiarsi d’abito, scegliere un altro travestimento. L’immagine che gli precipitò addosso fu quella di un misero cameriere alcolizzato, con la prospettiva del lavapiatti a tenerlo da sola ancorato al mondo dei viventi. 21:12, niente, cominciò a farsi delle domande. Mancava una telefonata e magari c’era sotto qualcosa, un piano, una qualche strana congettura, così crudelmente naturale da rivelarsi sempre più imprevedibile. 21:19, niente, e arrivò il tempo di slacciarsi l’orologio, insieme al vestito da onesto lavoratore precario. 21:23, niente, ma in compenso si ritrovò con la maschera da autolesionista: gli saltarono agli occhi i fallimenti della sua vita sociale, le pochezze dei suoi rapporti con gli altri, per non parlare dell’insuccesso personale, l’affermazione mancata sia negli studi che nel lavoro. 21:25, non riuscì a fare a meno di trovare nella sua storia un qualcosa di nascosto ma estremamente divertente, un trionfo voluttuoso di personalissimo feticismo a riempirgli i polmoni d’aria fresca. Alle 21:30, niente, si trovava contemporaneamente a casa dalla famiglia, a lavare i piatti in pizzeria, alla festa con gli amici e nelle camere da letto di due rispettive amanti differenti, e tutto sommato non aveva ancora niente da fare. Accostò la macchina, finalmente giunta a destinazione in nessuna delle sue solite realtà. Tirò giù lo scaleo e lo zaino delle corde, si abbandonò per un’ultima volta al giardino retroilluminato della sua schizofrenia e cominciò ad arrampicarsi, verso la gloria. Finalmente nudo, e solo.
Nel suo niente.

L’ultima intervista

Di corsa, mezzo sudato verso il finestrino abbassato della limousine, ancora non avevo capito perché avevo accettato. Guarda scusami, altri dieci minuti, c’era una giornalista, non ho capito bene comunque faccio veloce, mi chiedevo se gliene interessasse davvero qualcosa e aspettavo che mi tornasse l’appetito della cena saltata poche ore prima. Ha detto dieci minuti, tra undici vado a dormire crollasse il cielo, che non ce la faccio più. Seduto sotto il faro della videocamera continuavo a sudare vergognosamente: sentivo tutta la tensione del palcoscenico scivolare via, grondandomi addosso sotto la camicia. Grazie per la disponibilità, facciamo davvero presto, solo qualche domandina veloce, pochi minuti, continuava a rivoltarmisi nell’orecchio la voce della donna. Era giovane, discretamente carina, non doveva aver avuto troppi problemi a trovare lavoro, magari proprio quello che aveva sempre sognato di fare; c’erano tutti i presupposti per immaginare che avrebbe pure fatto carriera e la camera è dritta davanti a te, se per favore passi un attimo da lei ti mettiamo il microfono e cominciamo. Vuoi un po’ di trucco? Solo quando si accese la luce rossa e sentii di nuovo quella giovane voce metallica inerpicarsi sulla romanzata presentazione della mia vita, mi resi conto che non mi ero neppure degnato di rispondere alla domanda. In fondo avevo le mie buone ragioni, sapevo di potermi concedere il lusso di qualche distrazione, alla fine della venticinquesima replica dello spettacolo. Con quello che ci stavo guadagnando poi, mi meritavo almeno un po’ di pace, un attimo di tregua, un vero e proprio record, sia d’incassi che di critica, il pubblico finalmente ritorna a teatro. E a me che invece importava solo che ritornasse a casa quello schiaffo che m’aveva tirato in faccia prima d’andare via e abbandonarmi per sempre, pensa che idiota che ero. A quarant’anni ancora incapace di rapportarmi seriamente con la gente, mai la persona giusta, distaccato da tutto e da tutti, senza un amico, una moglie, un cast d’eccezione, riunito per l’occasione in una delle produzioni più entusiasmanti sulla scena italiana degli ultimi dieci/quindici anni, intravedevo l’autista appoggiato alla portiera fumare nervosamente una sigaretta, spazientito dalla noia di un’intervista imprevista nell’ora tarda di una giornata di fatica. Forse stava pensando ai figli, forse a un trancio di pizza o un pezzo di pollo surgelato che qualcuno doveva avergli preparato un po’alla buona per quando fosse rientrato. Magari stava semplicemente maledicendo il giorno in cui aveva cominciato a lavorare per me, si chiedeva per quale incomprensibile ragione avesse accettato, con quello che lo pagavo poi. Chissà perché aveva cominciato a fare l’autista, difficile che se lo fosse scelto di sua iniziativa come lavoro; io me l’ero scelto, il giorno in cui nella vecchia casa di campagna vidi mia madre vomitare dalla ringhiera del terrazzo, davanti a quel cane randagio che aveva pensato bene di venire nel nostro giardino a divertirsi con un piccione in putrefazione che gli penzolava dilaniato tra i denti. Mi ricordo come fosse ora il sorrisetto divertito che teneva stampato sul muso, e fu così che mi chiesi per la prima volta se anch’io sarei stato capace di simulare a mio piacimento un’espressione così allegra e spensierata, con quel miscuglio di sapori nauseanti color morte e decomposizione dentro la bocca. Ero pieno di domande, mi chiedevo cosa avrebbe potuto significare quella scena, cosa avrei fatto della mia vita, come sarei riuscito a capire qualcosa di me, quando avrei cominciato a sentire che tutto stava procedendo secondo i piani, quando per la prima volta avrei avuto qualche garanzia dalla vita di essere felice, quando ti sei accorto per la prima volta di voler fare l’attore? E quanto conta secondo te la preparazione nel vostro mestiere? Ancora non si era resa conto che la mia testa ormai aveva spazio soltanto per la depressione dell’appuntamento con l’avvocato, fissato per la mattina seguente. Nessuna voglia di andarci, di averci a che fare, non sopportavo il suo modo di fare così mostruosamente equilibrato, l’indifferenza bestiale della sua professionalità, il tocco magistrale di un regista di fama internazionale: come è stato lavorare con lui? Certo, dieci minuti; è già passata mezz’ora e questa continua, non la ferma più nessuno. Devo andare via, bisogna che m’inventi qualcosa, di sbrigativo, un cenno, un segnale. O qualcosa di più scenico, perché no, un’uscita teatrale, in linea col personaggio, magari dedicata all’autista. Non sarà la migliore pubblicità ma la noia mi distrugge.
Al liceo, dopo una recita di fine anno. Non so quanto conti la preparazione, ma vi consiglio l’accademia.
E il regista è uno stronzo.

Per oggi no

[AVVISO DI SISTEMA. In una fotografia multisensoriale, il riflesso delle parole nelle pupille, lo scorrere delle righe col dito e il rimbombo delle vocali sulle tempie si mescolano assieme a terze parti, fornite insieme al testo: sarà bene ricordare che, per quanto inscindibili dalla compagnia originaria, anche quest’ultime godono dell’indipendenza di una vita autonoma, di un valore specifico di primaria importanza, in quanto elaborati originali dell’autore.
Avviate il lettore e consumate senza freni, nel rispetto dei ritmi stabiliti dal vostro gradimento.]

Uno era seduto.
Davanti a lui un tavolo, un bicchiere, qualcosa da fumare, qualcosa per saziarsi.
Uno era sazio.
Respirava i suoi momenti, era in pace.
Respirava il suo vino, si perdeva nella sua cenere.
Uno era sazio.
Era sazio, quando arrivarono i soldati.
Sazio, costrette le orecchie, affamate le meningi.
Affamate, ma di questo ancora non sapeva.
Uno era sazio, quando vide la galera per la prima volta.
Una cella bianca, a motore, con uno stemma giallo e incomprensibile sul fianco.
Dalla cella scese l’uomo.
Il Primo.
Il primo uomo era un uomo.
Prima di tutto un uomo.
Subito dopo era un problema.
Ma dopo.
Solo dopo.
Malandato: Primo aveva pochi capelli.
Parlava di donne.
Parlava di acciughe.
Ma salmodiava.
Con armonia nuova.
Armonia diversa, tuonante.
Un’armonia che Uno non ricordava.
Non più.
Continuava a salmodiare.
Raccolto nel neroverde di una sedia.
Rinchiuso, riempiva il vuoto della plastica.
Salmodiava e continuava.
Aveva il sangue a cantilena, e questo Uno non se lo ricordava.
Non ricordava l’armonia.
Non esiste più, sepolta nel vortice.
Rinchiusa, ben lontana dall’elastico che riordina le sue ansie.
Ma l’armonia continuava, e Uno non aveva altra scelta.
Poteva solo copiare.
Imitarlo, o almeno provarci.
Rinchiudersi.
Rinchiudersi e scrivere, di un’armonia che Uno non si ricordava.
L’uomo aveva gli occhi vivi.
Frizzanti di luce.
Il più vero come di vetro, congelato da un celeste morbido.
L’altro si strizzava verso la normalità.
Quella di tutti e di sempre.
Provava a cercarla, a farla propria, tradito di corsa dal fastidio della sua armonia.
E adesso Uno sa di non ricordarsela, di non averla mai davvero conosciuta.
Adesso lo sa.
“Vittorio”.
Vittorio.
Vittorio!
Angelo!
Angelo un panino.
Angelo due panini.
Nel mio acciughe.
Nel mio acciughe e nell’altro mortadella.
Non ho mai rubato un panino, in vita mia.
Ma un panino a lei non l’ho mai pagato.
Voglio farlo, adesso.
Ma questo lo avrebbe pensato solo dopo.
Angelo!
Adesso vuole Angelo.
Primo lo cercava, cercava il suo.
Mentre Uno ingozzava i nervi.
Sazio, drogate le orecchie, affannate le meningi.
Angelo!
E adesso lo cercava anche Uno, il suo Angelo.
Angelo, un panino con le acciughe, allora, due con le acciughe e due con la mortadella, Angelo.
Vittorio!
Angelo, Vittorio!
Due panini!
A Primo serviva l’Angelo, anche per un panino. Così almeno gli avevano detto.
A Uno serviva Primo.
Uno, affamato, affannato.
L’uomo, Primo, aveva compagnia.
Era arrivato prima degli altri, ma non era solo.
Uno era molto più solo, rinchiuso nella solitudine di Primo.
Tempo poco, arriva la seconda cella.
Fabrizio vuoi una sigaretta?
Meccanico, ancora, come prima, stemma giallo su un fianco.
Scendono tre uomini.
Scendono due donne.
Pochi capelli.
Angelo!
Altra galera, stesso carceriere.
Il solito Angelo.
Gli uomini e le donne, ancora una volta, non erano soli.
Li avevano con loro, Uno non riesce ad accettarlo.
Affannato, pensa angeli, vede sbirri, qualcosa di simile, qualcosa, forse, oltre l’affanno.
La prima donna esce dal gruppo, si avvicina a Uno, al suo tavolo.
Si avvicina, ancora, sicura, prende un biscotto.
Un biscotto, avanzato.
Insieme al biscotto riceve il suo Angelo.
Lei lo vede, Angelo si scusa con Uno.
Lei la cella, lui un carceriere.
Che la tira via, si scusa.
Gli altri cantano, ancora.
Cantano salmodiando, ancora.
Un lamento, continuo, ancora.
E canta anche Uno, senza voce, perché non è solo.
Gli amici di Uno conversano, non sono presenti a loro stessi.
Non vogliono esserlo, adesso, non serve esserlo.
Gli uomini e le donne si riuniscono al loro tavolo.
Al tavolo che è stato scelto per loro.
Gli amici di Uno parlano.
Gli amici degli uomini e delle donne non esistono.
Gli uomini cantano di topa.
Le donne sono più vere.
Perché piangi?
La prima piange.
Perché piangi? Dillo!, chiede Angelo.
Non piangere, cantano gli uomini.
E tutto svilisce.
Svilisce se stesso, risvegliandosi nella sua tragica normalità, obbligata, infernale.
Tutto come sempre.
Insopportabile.
Normale.
Schiaffandosi contro canti che non gli appartengono.
Che non appartengono a nessuno.
Tutto già visto, come sempre.
Uno si osserva: è presente a se stesso.
Si riconosce presente.
Gli amici di Uno continuano.
E non si ripetono che tutto è normale, se lo ricordano.
Monica! Vittorio!
Angelo.
Prima piange, gli altri si ricordano il proprio ruolo.
Il tirocinio.
I progetti.
La vita.
Uno è presente a se stesso.
Adesso si vede.
L’uomo, Primo: si viene a sapere che è colpa delle suore. Da loro, lui che lavorava, per colpa loro, della loro distanza, della loro imprecisione. Colpa loro se Primo si è fulminato. Si è fulminato le braccia con l’elettricità, le suore, poi la cancrena, poi un niente da fare che lo travolgerà, lo scaraventerà nel mondo dei mostri, obbligato a baciare un aborto senza poterlo mai più abbracciare.
Colpa loro.
Colpa.
La sua vita.
In una colpa.
Adesso non è più normale, non è più tutto normale.
La cella è l’unica, l’unica che adesso trova ad aspettarlo.
Insieme alle corde del suo letto.
E Angelo.
Scossa, cancrena, e vede Angelo, per la prima volta.
Primo è a tavola con gli altri.
Disperazione atavica, dicono.
Una pena che non riesce a controllare.
Una pena, una cantilena, una pena, una cantilena.
Così dicono gli amici degli amici.
E Uno.
Gli uomini continuano a salmodiare, le donne sono più sincere.
Piangono.
Sono diabetiche, dicono, non li possono mangiare.
Dice Angelo.
Uno vede sbirri, ancora.
Mangiano, cantano, bevono, piangono.
Uno è presente a se stesso, non sa più come e perché, non riesce più a chiederselo.
Prima piange.
Il lieto fine, stuprato.
Vorrei un caffè.
Lo voleva perché vedeva Angelo, il suo Angelo.
Hai già preso un panino, per oggi sono finiti i soldi.
Per oggi no, dai.
Adesso si torna.
Mai più di qualche sorso.
Mai più di poche parole.
Vedevo sbirri.
Poche frasi.
Brevi.
Ancora, senza filtro.
Affamato, affannato.
Presente a me stesso.
Ucciso.

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