Era da molto tempo che non si registravano temperature così basse come quell’inverno.
L’asfalto dei viali piegato dalla brina luccicava al sole gelido del tardo pomeriggio, sfogando decenni di manie di protagonismo represse dai tubi di scappamento dei vecchi autobus di linea. Nell’aria si percepiva un profondo senso di silenzio. Il freddo aveva rimesso tutti a un’isterica repulsione contemplativa, che si librava sui tetti innevati, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali del quartiere. Negli appartamenti l’insolito carico di umori contrapposti e vibrazioni contraddittorie dava vita ad atroci litigi domestici, in cui cattiverie e crudeltà verbali per una volta si sostituivano al classico tepore della violenza fisica. Ad ogni modo, fuori casa i rapporti interpersonali si erano ammorbiditi; il tasso di disoccupazione era pressoché totale nella zona e sembrava che grazie al ghiaccio si fosse finalmente trovato un pretesto valido per giustificare a se stessi e agli altri quel profondo stato di marginalità sociale. Automobili impraticabili, strade bloccate e mezzi di comunicazione fuori servizio erano stati sufficienti per rassicurare i toni delle conversazioni nei luoghi di ritrovo, in cui solitamente si consumavano sensi di colpa, complessi d’inferiorità e interi cataloghi di nevrosi assortite. Il timore di sentirsi rinfacciare le proprie inutilità era diventato una vera e propria ossessione di massa, una paranoia collettiva sempre più faticosa da mitigare, e la temperatura rigida di quell’anno arrivò con la tempestività di un’operazione chirurgica ad arginare l’imminente crisi di nervi. La mancanza di lavoro era superata solo dalle feroci instabilità della noia e dai risvolti inquietanti dell’apatia che ne conseguiva. Pur di riempire in qualche modo il tempo morto, ci si dava ad ogni tipo di attività, più o meno immaginaria. Una casalinga del terzo isolato aveva allestito in cucina un vero e proprio bancone da pub e trascorreva pomeriggi interi a servire superalcolici ai due figli di sette e dieci anni, evocando l’immagine di una locandiera di mezz’età stressata dal maltempo. Un ventiduenne del secondo isolato da qualche mese girovagava tra gli edifici segnando appunti confusi e sconnessi su una cartelletta da funzionario del catasto, mentre a suo padre era venuta in mente la parola carcerato, e da una quarantina di giorni ormai non usciva di casa. Un anziano dell’unico grande condominio del primo isolato, ex pilota dell’aeronautica militare, si era costruito una guardiola rudimentale accanto all’ingresso dell’edificio per potersi improvvisare portiere e togliersi il cappello in segno di saluto al ritorno delle due signore del quarto e sedicesimo piano che ogni mattina alle sei tornavano nel nido coniugale dopo aver passato la notte a prostituirsi. Per loro sfortuna non conoscevano né l’ex dirigente delle poste del secondo isolato divenuto puttaniere, né la sua anziana moglie che per rimanere vicina al consorte si era immaginata una discreta abilità nel gestire il traffico delle schiave sessuali, così restavano entrambe ogni sera a incendiare copertoni senza nessuna effettiva produttività. Il più originale era stato senza dubbio un vedovo del terzo isolato, che aveva allestito un’intera bisca clandestina nel sotterraneo di un casinò di lusso inserito all’interno del suo forno a microonde; restava giorni interi col sigaro in bocca a fissarne il piatto di vetro roteare a vuoto, come simboleggiasse l’attività incessante di un ipotetico registratore di cassa tra le mani di un giovanotto suo dipendente, tenuto a libro paga soprattutto perché mantenesse il silenzio sulle attività illegali che si svolgevano sotto i suoi piedi. In buona sostanza, tutti avevano bisogno di qualcosa da fare ma nessuno si sentiva propriamente a suo agio nel coinvolgere gli altri in un qualche progetto più concreto. E la situazione stava cominciando a precipitare. Il giorno in cui il ventiduenne del catasto convinse la vecchia zitella del commissariato a indagare sul forno a microonde, fu probabilmente soltanto merito dei comuni effetti del freddo se si riuscì in qualche modo a placare gli animi e superare le diffidenze, scongiurando il pronto intervento degli inquilini dei condomini F e G del quarto isolato, trasformatisi improvvisamente in due eserciti sull’orlo di uno scontro nucleare per il predominio. Per ritrovare un temporaneo senso di comunità dovettero aspettare fino a quando, in seguito a un imbarazzante caso di omonimia, una vecchia fabbrica di ceramiche assunse per errore un cittadino della periferia, forse l’unico che fino a quel momento non si era trastullato con nessun impiego immaginario. Nessuno si ricordava più da quanti anni nel registro nazionale dell’impiego non risultassero nome e cognome di almeno uno tra tutti gli abitanti della periferia est, praticamente una città a sé, distante svariate decine di chilometri dalla metropoli. Recuperati orgoglio e autostima, nei primi tempi si organizzarono feste di paese in grande stile e allegria, per festeggiare l’avvenimento; i vari capifamiglia ballavano e si alcolizzavano nella palestra dell’antica scuola abbandonata, ipotizzando un periodo di celebrazioni ufficiali che concedesse a tutti loro una tregua dalle rispettive occupazioni di fantasia. Messi da parte gli antichi rancori, spremevano al massimo tutto l’entusiasmo ricavabile da un CD rigato di Muddy Waters e un paio di amplificatori da chitarra di provenienza incerta. Comprensibilmente, l’euforia iniziale svanì nel giro di poche settimane, lasciando il posto a conseguenze ben più irritanti. Giorno dopo giorno, l’operaio ancora fresco di nomina percepiva un crescente isolamento intorno a sé; evitato dagli altri, che nel frattempo avevano ricominciato a temere possibili confronti esistenziali e soprattutto spiacevoli dimostrazioni della loro inferiorità economica, ancora non sapeva di essersi reso il protagonista involontario della più violenta delle grottesche crisi di convivenza che si fosse mai registrata nella periferia. Sempre più segretamente spaventati dal giudizio delle proprie mogli, non ci volle molto prima che per tacito accordo tra i disoccupati si cominciasse a cancellare gradualmente ogni testimonianza della sua stessa esistenza. L’operaio, forse il più stupido tra i maschi adulti, non aveva famiglia e viveva da solo in un bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, collezionando le etichette delle bottiglie di birra che trovava per strada. Nel momento in cui arrampicandosi fino alla sua cassetta della posta trovò la lettera in cui lo si bandiva da tutte le adunate pubbliche e dai pochi luoghi di ritrovo rimasti in attività, poco lontano si sorteggiava a sorte chi dovesse andare una seconda volta fino al quarto isolato ad avvisarlo della volontà unanime che non si facesse più rivedere per strada in orario di luce. E subito prima che il secondo messo portasse a termine la nuova comunicazione, in assemblea era già stato suggerito di invitarlo, con le buone o con le cattive, a non uscire proprio mai più di casa; senza prevedere che qualche giorno dopo sarebbe stata definitivamente dichiarata l’apertura della vera e propria caccia all’uomo. Incatenato all’armadio del bilocale, l’operaio rimuginava sulla sua passione per le bottiglie di birra che l’aveva costretto a violare il coprifuoco imposto dalla comunità, mentre nel reparto cucina a pochi metri da lui un ex impiegato di banca sulla quarantina, con tre figli licenziato per improduttività, lasciava cadere distrattamente la cenere della sigaretta nel cerchio del bicchierino di liquore aromatizzato, versato poco prima per ingannare il tempo del suo turno di sorveglianza. Al discount dall’altro lato della strada, il turno a cui si pensava era quello della presidenza a rotazione del consiglio straordinario di gestione che si era ufficializzato all’ultima riunione dei capifamiglia nella palestra della scuola, allo scopo di garantire e mantenere la prigionia dell’operaio, le cui incombenze organizzative toccava presiedere al cinquantasettenne con quattro figli del trilocale al sesto piano del grande condominio unico del primo isolato. Spingendo il carrello tra gli scaffali di cibo in scatola rimasti all’abbandono dopo il fallimento dell’attività, s’interrogava sulle responsabilità del nuovo incarico; scervellandosi sulle direttive da impartire, realizzò l’importanza della struttura gerarchica e ne stabilì dettagliatamente le varie diramazioni. Per prima cosa regolamentò il servizio di sorveglianza dell’operaio prigioniero, formando un nucleo operativo di trentadue effettivi, divisi in quattro squadre da otto alternate in tre turni giornalieri. Subito dopo toccò al servizio sostentamento, che si procurava cibo e consulenza psicologica per il detenuto, poi al servizio igiene e pulizia fino al settore qualità-della-vita, che si occupava di assicurare i servizi minimi fondamentali di soddisfacimento alimentare, intellettuale e sessuale. Continuò con il servizio manutenzione, che si occupava dei lavori di riparazione in casa, quello di intrattenimento, di applicazione artistica, qualche corso di cucina e di meditazione, mentre venivano implementate le forze di controllo con l’ausilio di impianti di videosorveglianza installati da tecnici qualificati e istituiti reparti specializzati di polizia investigativa. Quando si dimostrò più difficile del previsto debellare l’ossessione dell’operaio verso le bottiglie di birra trovate in strada, fu inaugurato un ulteriore livello organizzativo: si crearono laboratori per gruppi di ricerca e sperimentazione che sviluppassero sistemi sempre più creativi e funzionali per far sì che l’operaio fosse cancellato dai ricordi della società civile, che gli fosse impossibile qualsiasi interazione con l’esterno ma che al tempo stesso potesse disporre di tutto ciò di cui necessitava. Tagliato fuori dal mondo con un sistema ideato per riprodurre artificialmente il sistema propulsivo delle valvole a nido di rondine nei vasi sanguigni, l’operaio viveva impassibile la furia di laboriosità che si era scatenata intorno a lui, accettando anche se con un po’ d’amarezza lo stile di vita tutto sommato privilegiato che gli era stato riservato. In breve tempo, quasi tutta la periferia aveva trovato un’occupazione in uno dei quattro livelli [manovalanza, sicurezza, servizi, ricerca], e per la prima volta in assoluto stavano tutti cooperando per un unico grande obiettivo universale, di cui tuttavia in pochi ricordavano ancora l’esistenza. Grazie al gioco di squadra dei capifamiglia, l’assemblea di gestione otteneva risultati sempre più entusiasmanti. I più illuminati compresero presto che se l’operaio avesse perso, a causa della detenzione, il posto di lavoro da operaio, sarebbe venuta meno l’esigenza iniziale che stava indirizzando e motivando l’intera nuova struttura sociale; venne così istituito un ultimo livello organizzativo, composto da un gruppo scelto di abili comunicatori e piazzisti reclutati tra ex venditori, impiegati delle assicurazioni e fanatici religiosi, affinché elaborassero e mettessero in pratica un manipolatorio piano di convincimento a lungo termine nei confronti della fabbrica di ceramiche. Sbalorditi dalle potenzialità della forza di volontà umana, misero in campo tra le più fantasiose delle menzogne, facendo sì che dopo mesi di lontananza dal posto di lavoro l’operaio non venisse ancora formalmente licenziato. Tutto adesso quadrava, ogni ingranaggio contribuiva quotidianamente al meccanismo con pari dignità sociale, e l’operaio era rimasto l’unico concretamente disoccupato, rinchiuso nel bilocale a godere segretamente delle servizievoli e premurose attenzioni dei lavoratori. Ognuno si sentiva utile e accettato. I livelli delle nevrosi e dei comportamenti antisociali rientrarono sotto i livelli di guardia, ogni attività era pianificata in modo tale da richiedere la collaborazione di un livello organizzativo superiore e chiunque si avventurasse in percorsi autoformativi non autorizzati dal consiglio di gestione veniva severamente punito dal settore sicurezza. Si stipularono nuove leggi e organismi giuridici capaci di farle rispettare. Vennero aperte scuole che tramandassero alle nuove generazioni i frutti delle recenti esperienze, si organizzarono ospedali, tribunali, carceri, e una volta che la struttura sociale fu finalmente completa di ogni sua appendice pratica, si ripristinarono le feste alcoliche nella palestra della vecchia scuola abbandonata.
Era da molto tempo, nella periferia est, che non si registrava un inverno freddo, interminabile ed emozionante come quello. Poi con la primavera cominciarono a sciogliersi gli ultimi strati di nevischio sui tetti, tra le antenne e le parabole satellitari degli imponenti plessi condominiali, e nella sua camera da letto nel bilocale al quindicesimo piano del palazzo C del quarto isolato, l’operaio fumava una pipa di radica affacciato alla finestra in compagnia di una rivoltella e un vecchio CD rigato di Muddy Waters. Sognando le etichette delle bottiglie di birra lungo la strada, e il panico che avrebbe seguito la sua morte.