Guarda fratello, te lo dico, se fai sempre così sei fottuto nella vita. Mi spiego meglio: non importa se sai aprire una bottiglia di vino a centrocinquanta orari in autostrada, con un cavatappi rotto, tenendo le traiettorie con le ginocchia, la sigaretta in bocca e il telefono all’orecchio. Non importa se ti fanno ridere i sistemi automatizzati che scuotono gli alberi per la raccolta delle olive, o se senza una vera e propria ragione porti annodata al collo la stessa rondella di ferro da chissà quanti anni. Non importa se vuoi fermare la latinizzazione della lingua araba, se ti ricordi a memoria il codice fiscale o la scadenza della carta d’identità, né se puoi scalare la catena degli ottomila metri con tre bicchieri di bianco frizzante. Non importa se ti senti sollevato quando il controllore si mette a fare le parole crociate, né se ti sembra ingiusto che ci sembri giusto adattarci. Non importa se credi nella costituzionalità dell’impianto genetico o nell’istintività dei fenomeni culturali, o se quando ne senti parlare cominci a immaginare come sarebbe una vita da professionista. Non importa cosa pensi del lavoro, dei nuclei familiari, dell’importanza della provocazione, dell’ipocrisia dei legami degli altri, dell’azzurro del cielo o dell’amore. Non importa se credi nelle ricorrenze, cosa pensi della giornata della memoria, se fai caso alle date di scadenza quando fai la spesa, se porti l’orologio o se la sveglia la metti per alzarti o per ricordarti di andare a dormire. Non importa se sei mai riuscito a distinguere il momento del vino dal momento dell’oppio, o se alla fine sei diventato te stesso un unico grande periodo del prozac. Non importa quanto sei soddisfatto delle coazioni a ripetere, delle ripetizioni di matematica, dei conti fatti senza l’oste, o dell’osteria da dove ti hanno licenziato ieri sera. Non importa se hai bisogno degli altri o del loro annientamento, o quanto affascinante ti risuoni in testa l’autodistruzione. Non importa delle tue crisi, delle astinenze, delle ricadute, delle felicità, dello stato di quiete o di tempesta, del cerchio alla testa, della testa di cazzo, del malumore della razionalità, del rigore smisurato della libertà, della liberazione delle parole, delle parole dette nei momenti sbagliati, di quelle che poi non ti sei mai sentito di dire. Non importa di cosa sei nella vita, delle prospettive, delle illusioni, dei salti nella realtà, dei programmi e di come il giorno dopo ti prendi impreparato a chiederti in preda a quale forma di delirio esattamente ti sia venuta in mente un’atrocità del genere. Non importa della sensibilità, delle belle discussioni sulla naturalezza del rapporto tra scenografia e tossicodipendenza, di tutti quelli che mai capiranno che ritenevi più intelligente cancellare i sentimentalismi per scuoterne i cartonati. Non importa se non capisci quello che ti dico, né se capisci quello che ti scrivi in testa da solo. Non importa quanto ti senti soffocare, o se poi a casa cerchi di urlare davanti allo specchio, per farti sentire da qualcuno. L’unica cosa che importa è che la spugna va strizzata prima di darla sui tavoli. E non mi servi.