Post-it

E comunque è il mio lavoro. Datemi retta, vi troverete bene: l’ho già fatto molte altre volte.
Solo un momento, mi rigiro prima di cadere di sotto, eccomi. Stavo dicendo, prendete questi strani affari scuri, sembrano fagioli di plastilina ma vi aiuteranno. Insomma, come vi stavo dicendo signori, se non sbaglio sono un grande esperto del settore, e adesso qui tutti riuniti mi ascoltate, e fate bene senz’altro. Arrivo subito da voi, aspettate un istante soltanto che mi segno un paio d’appunti. Sapete, non vorrei correre il rischio di dimenticare tra qualche ora. La mattina è sempre il momento più pesante della mia giornata, ogni volta mi pare di risvegliarmi da un coma malizioso che puntualmente ogni diciotto ore mi riporta a quindic’anni e mi fa ricominciare tutto da capo. [Vogliate perdonarmi signori, sono un tipo un po’ particolare, ma alla fine ci si abitua a tutti questi fogliettini sparsi per l’ufficio. Sono un po’ la mia memoria esterna, sapete, senza di loro sarei perduto probabilmente. Ne prendo uno qualsiasi, vogliate approfittare: “la differenza tra me e lei? Io sotto la doccia fischietto vecchi ritornelli della tradizione popolare, lei ascolta Lady Gaga dal dolby nuovo della filodiffusione”. Niente male, mi pareva opportuno ricordarmelo]. Bene, come vi dicevo sono qui per aiutarvi e se vi rimetterete ai miei consigli, se li seguirete con puntualità e attenzione, riuscirete a risolvere buona parte dei vostri problemi; scaccerete i vostri demoni e la vostra stabilità psicofisica ne trarrà un giovamento sostanziale. In pochi giorni vi sentirete nuovi, freschi come lo eravate un tempo, molto più giovanili e con tutta la voglia di scherzare di quando da bambini giocavate con le automobiline in miniatura sul plastico del trenino elettrico. [Soltanto un momento ancora, questa è una citazione: “la vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”. Davvero bel film quello, nulla di eccezionale d’accordo, ma una buona fotografia e degli indimenticabili sprazzi di genialità qua e là nel copione]. Comunque prima lezione: voi bastate a voi stessi. Scolpitevelo in quelle vostre stramaledette teste super cariche di stress lavorativo, e non dimenticatelo mai. Se vi può tornare utile approfittate anche voi dei post-it, lasciateli sparsi nelle vostre stanze, e ogni tanto tirateci un’occhiata. [Questo, per esempio: “Avv. Claudio Maria Biffoli, studio legale via XXIV Aprile n.12, 333/4970870”]. L’importante è che riusciate ad affidarvi a loro, alla loro inesauribile saggezza, però sempre senza diventarne dipendenti, senza farla diventare un’ossessione. All’inizio non ci si crede, ma restarci invischiati è più facile di quanto si pensi. Seconda lezione: dove lasciate un vuoto, qualcuno correrà a riempirlo. Ci sarà sempre qualcuno pronto a fare la sua mossa, fateci attenzione, ma sempre ricordando che nella buona parte dei casi colui che cercherà di farvi del male sarà sufficientemente idiota e prevedibile da tirarsi la zappa sui piedi da solo. Trovate il punto di equilibrio tra queste due inconsolabili verità. Magari segnatevi su un quadernetto le vostre mappe concettuali, una per ogni tormenta del vostro cervello, con annessi e connessi ben specificati e rigorosamente ordinati. Mettere nero su bianco ogni rapporto di forza, la schiera delle possibili mosse avversarie, vi assicurerà vantaggi non indifferenti: la fantasia di un romanziere, la verità di un matematico di mezz’età e la tenacia di uno scacchista psichiatrizzato. Tutte qualità imprescindibili per un buon manager. Ricordatevi che il vostro compito è combattere, la vostra casa la giungla, il vostro ossigeno sta nei polmoni del nemico e che il nemico siete voi. Un momento ancora, mi segno pure questa. Come vi stavo dicendo, regolamentarsi è importante, ma ricordatevi sempre di portare rispetto alla forza motrice di questo mondo: onorate il caos molto più di qualsiasi padre o madre, e siate il bastone della vostra vecchiaia soltanto. Vi aiuterà a ricordarvi che da soli siete molti di più che mischiati con chiunque altro. [Scusate per la citazione cinematografica di prima, vorrei ricordarvi che in realtà non sono molto esperto, ma sono ben contento di lasciarmi trascinare dai giusti stimoli che volendo si riescono a trovare quasi dovunque]. Terza lezione: il primo campo di battaglia è il linguaggio. Ognuno di noi, dalla prima parola spiccicata dal fondo fetido della culla, è cresciuto ignorando la potenza distruttrice e rivoluzionaria del linguaggio. Siamo stati educati a darla per scontata, a ritenerci padroni della comunicazione una volta apprese quelle poche regole convenzionali della grammatica, imparate al tempo della scuola. In realtà il linguaggio va conquistato, bisogna riappropriarsi delle parole continuamente, giorno dopo giorno. Ma non fraintendetemi, non parlo dei significati: quelli potete lasciarli all’abbandono volendo. L’importante è affilare ogni mattina le corde vocali, le unghie sulla tastiera, in modo che quello che ne possa venir fuori sia petrolio bollente versato negli occhi e nelle orecchie di chi si azzarda a sfiorarvi anche solo col pensiero. [Casualmente proprio sotto la lampada avevo attaccato questo, quando si dice il colpo di fortuna: “la vostra lingua è così, una bellissima troia che succhia sangue da pochi signorotti imbottiti di soldi per rifarsi le tette ogni due settimane, ma che comunque non si accontenta mai e brama i cazzi di tutti, anche dei più miserabili: anzi, è forse proprio con i più disgraziati di tutti che riesce a godere veramente e forse, anche se non lo ammetterebbe mai, in fondo dev’essere proprio per loro che tiene il diavolo nella sesta del reggiseno. Per farli impazzire e essere sicura che, vada come vada, non resterà mai da sola sotto le coperte d’un letto freddo”]. Quarta e ultima lezione, per oggi: trattate bene quei fagioli di plastilina e qualsiasi cosa succeda, non importa quanto pesce abbiate mangiato, non cercate di dormire dopo aver bevuto il caffè nella tazza dei cereali. Segnatevelo.

Coppa C

Attività cerebrale col sapore di stufa al quarzo sui calzettoni color perlage ripiegati nella polvere, indice sinistro sospeso sulla F, a ruota l’invidia dell’altro sospesa sulla J, Cellini forte e libertango. Sai, il problema è che parlare con te a volte è come interagire con una scatola di viagra purissimo, anche se per le definizioni migliori ancora devi aspettare il prossimo cartello di divieto. Ragiona, aspetta che ti sbatta addosso l’orecchio di quando non possiamo, e come a vederti cadere nuda svenuta mi sembra d’esser solo a suonare le ghignate maledette nascoste in mezzo al tabacco. Dritte a succhiarmi via le pupille, come sempre solo un attimo prima di farsi scoprire. Ho la paura del fumo, parlami, se qualcuno parla c’è luce, te la ricordi questa? Io credo che faresti meglio a disinfettarti la prossima volta, ma non te ne faccio adesso una colpa, con tutte queste immagini da scolpire sulla lapide che mi rincorrono per la strada. Mi pare comunque d’aver ricominciato a esser capace di accoltellare la gente. Me ne sono accorto stanotte, pensa te che per la paura di dimenticarlo m’era quasi presa voglia di scrivertelo per messaggio; non è facile, c’ho messo tanto a ricordarmi come si fa ad essere sempre stati quindicenni aggrappati alla moquette. Ogni tanto qualcosa mi sfugge via: vorrei riuscire a non simulare, non capisco perché non sono mai riuscito fino in fondo a registrarmi quando parlo da solo. Al momento giusto mi sono sempre interrotto, mi sembrava di forzare la mano, di perdere naturalezza. Eppure una volta ci riuscivo, anche senza rassicurazioni, ma tutto insieme non si può pretendere e lascio correre per stavolta. Non ti preoccupare per me, so badare a me stesso anche se il problema è che non mi riguardo, non c’entro niente poi alla fine, e so che anche questo domani me lo ricorderò, magari insieme a due baffi ingellettati da piantarti sulla faccia tanto per farsi una risata insieme alla tazza di caffè. Non te l’ho detto ma ne ho comprata una ancora più grande, da potercisi lavare i capelli dentro, con quel caffè. Sta arrivando il controllo, ti devo lasciare. Come sempre ti prego di fare attenzione al filo quando richiudi il barattolo nell’armadietto del bagno, non vorrei dover esser costretto a stare altri tre quarti senza sentirti. Per domani mi sono preparato un bagno caldo di prospettive erogene da sostituire a quelle vecchie, credo di non poterti più dire niente se ti viene voglia di offendermi. Ma tranquilla, me lo ricordo bene che quel matto che pensa al futuro, e magari crede pure di organizzarselo, merita d’essere legato al primo palo sulla sinistra e preso a secchiate di catene in faccia. Mi manca soltanto il passaggio in cui puoi riuscire a convincere uno qualsiasi dei centimetri quadrati del collo a ubriacarsi della saliva altrui a tal punto da togliere il senso alle definizioni di realtà, e cominciare a far la parte del ricordo nelle scacchiere degli altri, invisibile una volta di meno. Il pugno, proprio quello chiuso nella tasca, che cerca l’interruttore nell’idea che s’è fatto di quel lampione colorato all’inglese; tutto tranquillo mentre cavalca spavaldo un capo ufficio marketing da soma, che per ricambiare l’indifferenza insiste sognando, e già si vede con la polaroid al polso andare a reclamare un sorso di biada dalle unghie conficcate nella carne dentro la tasca dei miei pantaloni, così perdutamente assorti nel segreto della X sulla mappa degli interruttori timidi che non funzionano. Eppure quel filo trattalo bene, facci un altro nodo sul fondo del barattolo, quando senti il bavaglione a quadretti col bambino legato al collo che comincia a battere i cucchiai sulle macchie incrostate della tovaglia. Non ci sono più i vizi che mi ricordavo, sai? Solo qualche giorno fa ci facevo caso, a una tipa amante degli animali nel corridoio che dava da mangiare ai pesci qualche forchettata del vomito accumulato nella lettiera del gatto, senza prima nemmeno passarlo qualche minuto dal microonde. Credo che al posto suo avrei saputo come divertirmi, almeno un po’ di più, ma nessuna delle espressioni disegnate dalle mani davano d’intendere che ne avesse neppure la voglia, di provarcisi a immaginare in una discussione al limite della buona educazione col capo pesce seduto sul tostapane, trattenendo a sforzo la corpulenza tipica mediterranea dei quarantasette prosperosi denti coppa C in fila per due col resto di mancia, a prendere il sole alle spalle di due guance compassate grondanti sudore e sfiancamento. Alla faccia di chi ci vuole male e degli intricatissimi muscoli facciali, che magari nel frattempo ti guardano e tutti seriosi si domandano sotto a cosa si può riparare un carcerato quando arriva il terremoto. Il futuro era ieri, e mi faceva tanto ridere. Resta il fatto che qui il perlage effervescente sotto la lingua non è affatto male, anche se a volte con te mi sembra di parlare con una scatola di viagra.
Tagliato male.

Rating

Il primo giorno di lavoro non si scorda mai.
Purtroppo lo venni a sapere solo più tardi, in compenso però mi ricordo alla perfezione tutti i preparativi dei giorni che precedettero il mio esordio nel mondo dei subalterni. L’ultimo sabato fu una giornata come tante altre; respiravo nell’aria come uno strano e immotivato senso d’euforia, che una volta entrato in circolo sprigionava nell’aria buona parte delle tossine che avevo in corpo. Era uno dei miei sistemi di autodifesa psicologica, e la convinzione profonda che riponevo in quell’immagine mi aveva regalato un altro pomeriggio di statistiche sostenibili. A volte misuravo scadenze predefinite di tempo in base alla vicinanza allo zero del tasso di insoddisfazione. Ad esempio 0,4% equivaleva a un pomeriggio tutto sommato andato per il meglio, mentre 2,13% cominciava a rasentare la soglia critica del 3% di insoddisfazione, obbligandomi a introdurre in tutta fretta nuove forme di distrazione. Vale a dire intraprendere attività insolite, oppure più frequentemente costringermi a sforzi psicologici di valutazione, esercizi mentali per attribuire nuovi elementi di pregio a circostanze e abitudini che ormai avevano perso d’efficacia. Potrà sembrare criticabile, ma pensandoci bene alla fine dei conti sono poche le obiezioni a questi miei stratagemmi che si possano definire onestamente legittime. Molti di quelli che adesso potrebbero storcere il naso non hanno mai saputo far altro che lasciarsi sgretolare lentamente dalle ansie e dalle angosce della quotidianità, e nella buona parte dei casi semplicemente non sarebbero in grado di costruirsi da soli delle vie di fuga. Io ci stavo riuscendo e per il momento mi pareva più che dignitoso accontentarmene. Quel sabato, pochi giorni prima di cominciare a lavorare al ristorante, ero quasi per niente insoddisfatto. I miei esercizi fisici davano risultati, e di pari passo miglioravano le mie applicazioni artistiche e la produttività delle mie ore di studio e lettura. Erano giorni regolari, domestici, ma del tutto rassicuranti. Ero addirittura riuscito a compiacermi per alcuni film che avevo trovato interessanti e avevo scoperto alcuni vecchi album musicali sconosciuti che per qualche ignoto nervosismo di fondo erano addirittura riusciti a mettermi addosso voglia di ballare. Ed è proprio quello che feci, eretto al centro della mio universo tre metri per quattro, piedi nudi sul tappeto moquettato, di colpo cominciai a muovermi, con in testa l’andamento dei grafici e gli ottimi risultati scolpiti nell’orgoglio. Subito dopo arrivò il turno dell’addestramento fisico, così impilai lungo le pareti tutto ciò che potesse disturbare il mio perimetro di movimento, mi tolsi tutti gli abiti di dosso e restai nudo con musica e cronometro a correre sul posto, rincuorato dalle attenzioni premurose delle cifre pixellate sul timer. Quello era il momento più soddisfacente di tutta la giornata, già da qualche mese. Potevo distinguere nettamente le voci di ogni singolo muscolo liberarsi dal corpo e veleggiare nella stanza, riunificandosi al senso d’euforia nella loro isterica cornice di baci appassionati. Ogni passo era una nuova prima volta e le cavalcate si rincorrevano frenetiche in uno schiamazzo scomposto di rigorose scariche elettriche, che mi traversavano il corpo da parte a parte. Nessun rimorso, finalmente nessun fastidio, e poi quasi senza rendermene conto afferrai i pesi, un buffo arnese autoprodotto composto da due mattoni e una maniglia legati insieme da incalcolabili cinture di scotch ben strette tra di loro, e cominciai le serie di sollevamenti, un braccio alla volta. Le ripetizioni mi coinvolgevano istintivamente, c’era qualcosa in quei movimenti ritmati di assolutamente pornografico, e ogni avvicinamento al volto, ogni sfregamento degli avambracci sui fianchi sempre più inumiditi dal sudore, era come se mi trascinasse per i capelli da un polo all’altro di un campo magnetico di piacevolissimo dolore. Come spilli mi si conficcavano nel collo i crampi di una tormenta psicologica e mi sembrava di percepire la stretta morsa dei ricordi solleticarmi i nervi con forti pizzicate, come se da dietro una porta socchiusa trapassasse la goffa eco di un musicista improvvisato intento a suonare con i denti il vecchio clavicembalo nell’aula magna di un manicomio criminale. Finito il tempo, mi misi a fumare, appoggiato al quieto rilassamento seguente la scarica di tensione e liquidi corporei dell’allenamento, aggrappato allo schermo retroilluminato e alle sue cifre che adesso avanzavano più lentamente. Quando arrivò la telefonata avevo appena fatto ripartire la musica d’atmosfera, mi ero schiarito la voce e avevo anche fatto qualche prova d’intonazione, prima di rispondere una volta soddisfatto dal timbro. Poi arrivò la domenica e fu un 2,61%. Lunedì l’insegna accanto alla porta spalancata dava segni di cedimento e la fila continuava lungo il marciapiede. 2,98%.

poiquandopuoi

Ma perché mi scrivi se sono qui?
Tutto appiccicato poi. E comunque ci vuole tempo, non dipende da me. Vedi di darti una calmata che sei ridicolo quando ti fai prendere dagli spasmi, e mi metti pure ansia tra l’altro. Come quando mi cammini intorno quando siamo a tavola: è una cosa che non sopporto, lo sai, eppure me lo fai sempre. Non lo so se lo fai apposta, e t’assicuro che mi viene quasi voglia di pensarlo. Non è possibile, come quando entri in camera e accendi la luce grande, che poi una delle due lampadine è pure fulminata da non so quanto tempo ormai e quell’altra fa una luce biancastra gelida che sembra d’essere in un mattatoio. Mi fa impazzire, sempre per non parlare di quando sposti la roba che butto sul letto sugli scaffali della libreria, sopra i libri o peggio ancora davanti. Ma come fai a non capire che dà fastidio, che poi non si capisce più che libri ci sono in mezzo a quella montagna di casino, no? Non lo capisci? A me non sembra difficile. E quella trovata della polvere di caffè nell’affare per la fonduta per profumare l’aria, così difficile da sopportare per te? Anche se lo so che non ti interessa io ho bisogno di un clima favorevole, e soprattutto delle luci giuste per scrivere. Ti ricordi? Te l’avevo già spiegato, quella raccolta di possibili finali tragici alternativi a tutte le vicissitudini in corso della mia vita, tutte le disgrazie che potrebbero succedere in quello che faccio, così un po’ per superstizione un po’ per divertimento, ma penso possa venir fuori qualcosa d’interessante, tipo quella rubrica che tengo sul blog, dove non so se te lo ricordi ma ho preso l’impegno di commentare i temi forti dell’attualità con due articoli contrapposti, che partono dallo stesso argomento ma arrivano a conclusioni praticamente opposte, studiate però in modo da non rappresentare due filoni di pensiero contrapposti ma da poter essere incomprensibilmente accettati entrambi e allo stesso tempo dallo stesso lettore. Non so se mi spiego, ma tanto a te interessa il giusto, vero? Te c’hai ancora la mitologia del lavoro, te lo dico io, un vero e proprio feticismo, te ne rendi conto? Non ci riesci mica a uscire da quel tranello mentale in cui t’hanno invischiato, anzi te ne vai tutto contento la mattina in giro, vero? A guadagnarti con il lavoro quella miseria che ti permette soltanto di campare fino alla mattina dopo per tornare a lavoro, e così via in un circolo della morte infinito, ma te figurati se questioni qualcosa, se vai a sindacare, tutta roba da intellettuali impazziti, magari pure snob per te, parassiti coi soldi di famiglia. Gente fuori dal mondo, per te, e io non sono certo di meglio, giusto? Vivo fra le nuvole, riesco solo a stressarti, a prendermela con te senza ragione, no? Sono la tiranna io, giusto? Ma mi ascolti o no? Non è così? Amore? Oh! Cazzo stai facendo, sei pazzo?

Subaffittasi

Tutto il corridoio era illuminato da una sola lampadina, avvitata sulla parete davanti all’ultima porta. Non riuscirei a giustificare quanta e quale fu la mia sorpresa nel ritrovarmi lì dentro, in quel preciso istante. Non mi ero reso conto di esserci entrato, né ricordavo altro di quel che poteva essermi successo fino a quel momento. E non ci mise molto, qualsiasi cosa fosse, a scatenare il panico. Solo un momento per ricominciare. Così guardando meglio mi ero già rialzato e mi stavo avvicinando a quella lampadina; avevo voglia di succhiarla e chiudere gli occhi, appoggiato col gomito al muro nello sforzo di immaginarlo abbastanza solido da trattenermi. Ricominciare, da zero, un’altra volta. Sempre che non mi tornassero alla memoria i discorsi di quella bambina, così innocentemente letale, che mi ripeteva quanto fosse pericoloso prendersi troppo sul serio, credere in qualcosa di quello che ci si racconta, con quell’aria così rassicurante, vestita di candido, che mi avvelenava. Ancora una volta, ti prego. Così guardando meglio gli occhi si erano riaperti ma il corridoio aveva l’aria di tutto meno che d’essere verosimile: la vernice rosso sangue dell’intonaco scrostato aveva lasciato quasi ovunque il posto alle bombolette opache, senza lasciarmi nemmeno il tempo di farmi sfiorare dal sospetto che fosse stato possibile per qualcun altro ritrovarsi lì dentro prima di me. Una soltanto. Ci pensai soltanto dopo, quando guardando meglio ormai le gambe erano partite senza dire niente a nessuno; e le vedevo guardarsi intorno pettegole, sghignazzando tra di loro a ogni oscenità sputata a spray dritta sulle loro zone erogene più terrificanti. Solo per oggi, lo giuro. Mi ricordai che ormai doveva essersi fatto tardi, ma restai inchiodato nei polmoni, sopraelevato come quel lungo tubolare, tanto familiare quanto arrogantemente inutile. Mi guardava con disprezzo, e si divertiva a nascondermi anche l’ombra di un gradino apparente che mi lasciasse scendere. Non succederà più, ti devi fidare di me. Così guardando meglio avevo freddo e mi avvicinai alla lampadina, mentre le valvole delle vene e delle arterie con un ottimo lavoro di squadra spronavano il coraggio fino alle mani, per convincerle ad avvicinarsi e scaldarsi. Come se non ci fosse, l’odore di vomito rinunciava a sé stesso, tiepido lungo i nervi sfilacciati dei pantaloni, e mentre libero da concorrenze sleali osservava rispettoso la plastica bruciare sotto la lingua, due lividi di palpebre scivolavano via fino alle dita, ingoiando la polvere di un macchia giallognola nei pressi. Mai più, ti prego. Mi venne a esiliare la madre ignota di un ritrovato interruttore fine-di-mondo, sempre più chiuso in se stesso ma anche da spento sapeva farmi sbellicare come solo lui. Ti prego… Così guardando meglio ero morto, e finalmente potevo lasciarmi vivere. …aiutami

Voltapagina

Quando la comitiva di turisti, uno per uno, si apprestò a entrare nel fastfood greco in fondo a via Merulana, ancora non si era staccato dal bancone metallico della cucina. In un primo momento non si era neanche accorto di tutti quei giapponesi con cappellino e scarpette fluorescenti e dell’incomprensibile fracasso dei loro chiacchiericci. Fino al momento dell’incidente rimase lì appoggiato sui gomiti, disorientato dalle traiettorie degli occhi disegnate lungo le incrostazioni di cibo sul tavolo da lavoro. Il titolare del posto, il signor Katsikaris, lo aveva tenuto come cassiere fino a qualche mese prima, quando una rapina andata a buon fine gli aveva portato via tutto l’incasso della giornata. Aveva dato la colpa a lui convinto che in qualche modo non si fosse dato abbastanza da fare per impedirlo. Nonostante tutto, aveva chiesto il permesso per continuare a spendere come sempre le sue otto ore al giorno davanti a quel bancone, un po’ per la totale mancanza di applicazione nel trovarsi un altro lavoro, un po’ per il rispetto dovuto al suo equilibrio mentale. Fino a prima del licenziamento tutta la sua vita si reggeva intorno a quel posto di lavoro: ogni sua prospettiva per il futuro, per quante poche ne avesse, contava sulla miseria di quei trenta euro del buono giornaliero. Quella sera non c’erano motivi per aspettarsi una giornata diversa da tante altre identiche, passate a compatirsi accasciato sui gomiti, eppure si sentì molto più sollevato del solito quando finalmente arrivò lo psicologo, un ex professionista in pensione con cui quando ancora lavorava aveva avuto una mezza discussione per via d’un resto sbagliato, e subito dopo erano diventati amici.
E poi insomma, quello che mi ricordo è che in qualche modo era come se io fossi il Colosseo, proprio come se mi ci fossi ritrovato per caso, per dispetto di qualcuno che gli avesse voluto ficcare uno dei miei nervosismi per ogni colonna, ogni angoscia in quei bei mattoni bianchi tutti in pila uno sopra l’altro. Non lo so, mi ci trovavo incastonato dentro, e c’era un elefante. Grande, tanto quanto me; non so se fossi io a essere un Colosseo molto piccolo o lui una bestia così gigante, fatto sta che subito dopo mi trovo di spalle a un bancone tipo questo, solo in un bar molto più vintage, una luce soffusa alla francese e la moquette sui muri, tipo il pavimento di una camera da letto bagnata di piscio ripetuto verticale, copiato e incollato su ogni superficie della stanza. Neanche il tempo di guardarmi meglio intorno e quest’elefante mi dà un calcio sul petto, con una zampa di certo diversa dal solito, come di cavallo. Un cavallo magro ma forte, col pelo ambrato. E io non potevo muovermi, e alla fine è come se m’avesse ucciso schiacciando il petto del Colosseo. Sono morto soffocato, non so cosa possa significare esattamente, che dici?
Riaprire gli occhi adesso era più un riflesso condizionato che un vero e proprio sforzo di volontà; sentiva di non riuscire a sopportare oltre l’odore bagnaticcio che il velluto bordeaux dei pantaloni dello psicologo gli spingeva di forza dentro le narici. Non è che ne fosse proprio infastidito, però in qualche modo sentiva di avere il bisogno di definirlo in un’immagine. E l’immagine di sé che ne ricavò fu di colpo quella di un povero esaurito, nuovamente sopraffatto dalle sue funzioni riflessive, svenuto dai suoi stessi pensieri e steso in terra, con lo psicologo seduto sopra di lui e buona parte delle faccette rotonde dei turisti che lo fissavano vai a sapere con quanti e quali interrogativi giapponesi finalmente liberi di sbizzarrirsi dentro le testoline, ora che le loro preoccupazioni non si limitavano più a trovare il fuoco migliore per fotografare i lampioni della città. L’unico suono che riuscì a percepire fu il rumore del voltapagina del taccuino, e una voce distaccata da sé stessa che lo pregava di andare avanti.

Curriculum

Poi appena ebbe finito di parlare, subito prima di fare per alzarmi e andare via, qualcosa mi costrinse immobile a fissarlo, come ipnotizzato. Era quasi come se i suoi gesti, in fondo, non me la raccontassero giusta, e mi sentivo sorpreso da uno strano senso di turbamento. Non che m’aspettassi di certo parole più incoraggianti, e già da tempo ormai circoscrivevo quelle situazioni a poco più di una fastidiosa e logorante routine. Assuefatto dalla spirale senza risposte della giungla quotidiana, la mia concentrazione si limitava a disperdere altrove ogni attenzione e ambizione. Piuttosto c’era qualcosa tra le dita tamburellanti sul piano moderno della scrivania; o magari nella piega della cravatta, annodata intorno al collo fino all’inverosimile, che si doveva forse attribuire alla stiratura frettolosa di una moglie distratta. Qualcosa di nascosto, di ostile. Non ne compresi esattamente il motivo, ma sapevo che nell’aria stava veleggiando un secondo e imprevisto tono di sfida.
Senza esitare, presi di nuovo per il collo le sabbie mobili e ricominciai dall’inizio, ancora convinto che tutto sommato quella storia era tutto ciò che c’era da sapere sul mio conto. Il giorno in cui entrai per la prima volta all’asilo, trascinato per un braccio, m’ero già predisposto a tutta la rassegnazione necessaria a quel percorso obbligato. Cercando di stimolarmi con il pretesto delle nuove amicizie, mio padre fermò il primo rifiuto umano che ci si presentò davanti e gli chiese quanti anni avesse: il bambino alzò una mano e fece come il gesto dell’ok, mostrando uno zero rinchiuso tra l’indice e il pollice. Quando mi resi conto che in realtà intendeva il tre delle restanti dita cominciai a frequentarlo, probabilmente più per avere qualcosa da fare che per vera e propria curiosità. Nei giorni che seguirono diventò il mio migliore amico: condividevamo una delle casette di plastica del grosso salone dell’asilo e nel pomeriggio, mentre gli altri godevano nel pisciarsi addosso svaccati sulle brandine del pisolino, ci chiudevamo dentro e pianificavamo strategie per rompere i coglioni il più possibile alle maestre che ci avevano urlato contro per tutta la mattinata. Scoprii che si chiamava Dimitri e che la regola principale dell’asilo era di non andare in giardino fuori orario, senza gli altri bambini e le maestre. Così pianificammo un modo per uscire e un pomeriggio riuscimmo a evadere: facemmo tutto il giro dell’edificio e restammo sul prato tutto il giorno, nascosti sul retro fino a quando ovviamente ci scoprirono e, nel ricordo vago che m’è rimasto di questa seconda parte, s’infuriarono. In ogni caso avevo la sensazione di aver fatto una scoperta incredibile e mi cominciai ad appassionare alle potenzialità del covo che quella casetta di plastica gentilmente ci forniva, fino al momento in cui, da un giorno all’altro, vidi Dimitri fissarmi e successivamente cercare di colpirmi in faccia, senza ragione. Subito dopo uscì dalla casetta e non mi parlò più.
Da lì mi resi conto che in realtà la mia immaginazione aveva assegnato a Dimitri un ruolo che nei fatti non gli competeva, identificandolo in un qualcosa che effettivamente esisteva solo nel mio cervello, e che per tutto quel tempo me l’ero trascinato dietro costringendolo ad attività che non solo non gli interessavano ma che probabilmente addirittura lo turbavano. Per il resto del tempo all’asilo non ho parlato con nessuno e mi sono sforzato di guardare i bambini che giocavano con le caccole o che seduti in cerchio si lasciavano così misteriosamente coinvolgere dalla settantanovesima lettura della gabbianella e il gatto, pensando che tutto sommato Dimitri non era poi così male. Fosse anche soltanto perché gli altri Dimitri potenziali, quelli veri, forse non avrei mai avuto modo di conoscerli.

Stavolta fece entrare la sicurezza.

Se lo dici te

Ripensare alle nostre vite, spesso è quel che ci uccide.
Ma smettere di farlo, senza esser mai riusciti a farne a meno, è la sola cosa che ci seppellisce.

Questo lasciò scritto su un fogliaccio di carta spiegazzato, tirato via di fretta dal cassetto della stampante prima di uccidersi. Due frasi che sul momento sembravano più che sufficienti come necrologio, o forse come ammonimento, magari addirittura vendetta; di sicuro pareva qualcosa di intelligente da lasciare scritto su un fogliaccio spiegazzato, tirato via di fretta dal cassetto della stampante. Eppure tutto lasciava immaginare che il gesto fosse stato ben studiato, preparato accuratamente. E d’altra parte da un personaggio del genere non ci si poteva aspettare di meglio: aveva un carattere particolare, tutto suo, spesso impossibile da decodificare con assoluta precisione anche per i più affezionati, per tutti coloro che erano in vita gli erano stati più vicini. Il fatto non venne scoperto subito; si pensa che fossero trascorsi almeno tre o quattro giorni, prima che la vecchia vedova della stanza in fondo, l’amministratrice della palazzina condominiale di proprietà del Comune, si rendesse conto del silenzio insolitamente esasperato della sua stanza. C’era qualcosa di misterioso in tutto quel tempo trascorso dall’ultima volta che ne aveva ricevuto notizie, anche se probabilmente fu proprio il forte odore che penetrava dallo spiraglio sotto la porta a confermare i suoi sospetti una volta per tutte. Proprio in tema di spiragli, un dettaglio in particolare incuriosì il padre, una volta sfondata la porticina metallica chiusa a chiave dall’interno. Alla piccola finestra della camera era stato maldestramente inchiodato un listello di legno, dall’aspetto fragile e con tutta probabilità già ben avviato alla putrefazione; era sistemato tra le due ante in modo tale da rendere impossibile che le correnti del vento accostassero del tutto il vetro socchiuso, e formava uno spiraglio che sembrava studiato di proposito per lasciar intendere a qualcuno la possibilità di entrare dall’esterno. Mentre veniva rimosso il cadavere dalla pozza di sangue della stanza, suo padre si fermò a riflettere, come tutti noi quando ce lo venne a raccontare: stava aspettando qualcuno? Era da considerarsi un messaggio, una prova, una dimostrazione? Ma destinata a chi, poi? Gli interrogativi si rivoltavano irrequieti tra i fumi delle sigarette, mentre seduti sul divano del salottino condiviso al terzo piano restammo tutti in silenzio a squadrare il televisore senza volume e il volto severo della madre, che girando la rotella del fornello si apprestava a servire il caffè bollente. Stranamente aveva rispolverato per l’occasione proprio il servizio di tazzine di ceramica, quello preferito dalla vittima, che non sopportava il fetore della plastica bruciacchiata dei bicchierini usa e getta, a cui solitamente si ricorreva un po’ per tutte le occasioni durante i pasti in famiglia. La soluzione al caso, comunque, riuscii a trovarla soltanto io, qualche mese dopo, ormai rimasto l’unico ancora a ripensarci. Non che mi ci tormentassi più di tanto, però a volte involontariamente mi veniva voglia di soffermarmi un istante a giocare con quel piccolo tarlo rimasto rinchiuso in uno dei cassetti dimenticati dal cervello. Una sera entrai per caso nella camera del ragazzo, quasi del tutto svuotata dagli impiegati comunali, con la timida speranza di ritrovare un accendino d’argento ereditato alla morte di un vecchio parente aristocratico, e invece dovetti accontentarmi di un secondo fogliaccio spiegazzato, inserito di fretta nella custodia impolverata di un dischetto musicale lasciato dalla vittima sull’ultimo scaffale ancora rimasto inchiodato alla parete. Niente di interessante, l’opera prima di uno sconosciuto cantautore giapponese, un affare inascoltabile che però mi dette modo di ricordare di quando lo facemmo autografare all’autogrill, insieme a un cartone di scadente vino rosso, da due nudiste tedesche che avevamo conosciuto nell’albergo al mare la sera in cui si ubriacò pure il suicida, che a vederlo sembrava un seminarista e che di certo non lasciava immaginare d’essere capace anche lui di sbizzarrirsi in quel modo alle feste. I suoni, i colori ricominciavano a rimbombarmi in testa: tutto il divertimento, le voci sgraziate che urlavano sulla spiaggia, i riflessi dei grossi fari del palco sulla risacca del mare, la tempesta ormonale che si infuriava nel nugolo di aliti vinosi e magliette sudate, i granelli di sabbia che non ne volevano più sapere di darmi tregua all’interno coscia, il campo minato dei preservativi annodati e lasciati a marcire sulla riva, le grosse nocche della vecchia vedova della stanza in fondo che battevano sulla porta ed era pronta la cena.

Il lampadario

In quell’istante aveva appena violato l’embargo internazionale.
Era rientrata nel suo paese sfruttando proprio un convoglio militare che trasportava rifornimenti alle truppe dell’accampamento. Grazie a un suo cugino ammanicato negli uffici dell’amministrazione logistica per le emergenze era riuscita a far posticipare il vero convoglio al giorno successivo al suo arrivo, facendo comunque partire il camion, i cui stemmi del Comando Nazionale d’Intervento non trovarono difficoltà nel superare la frontiera. Il Belgio era a quel tempo ancor più democratico di adesso, celebre in tutto il mondo per la sua eccellente diplomazia, per la burocrazia efficiente e tempestiva e per il suo alto numero di giocatori di scacchi. Rischiò la sedia elettrica proprio per giocare a scacchi.
Molti dei più famosi ed applauditi maestri di scacchi che affollavano le grandi competizioni internazionali erano frutto del glorioso vivaio della scuola scacchistica belga. Ma questo non le interessava più di tanto, la sua partita doveva essere giocata contro il padre, un uomo robusto, dall’aspetto burbero e discretamente alcolizzato e non aveva mai neppure conosciuto le regole di quel gioco che tanto appassionava la figlia; tanto da farla scappare latitante all’estero in una località tuttora sconosciuta anche a chi scrive, dopo esser divenuta oggetto di inquietanti e sempre più ossessive attenzioni da parte dei servizi segreti locali. Appena tornata, si concesse il lusso tanto atteso di una passeggiata notturna lungo i viali della sua periferia, immersa in tutti i ricordi della sua brevissima infanzia, così disperatamente fuori dal comune. Ben presto le nostalgie ritrovarono la serietà e la determinazione del suo viaggio tormentoso, e si diresse verso il vecchio appartamento scalcinato di famiglia. Sua madre e sua sorella erano morte in un incidente stradale poche ore prima, ma nemmeno questo sembrava turbarla più di tanto. Arrivata alla soglia spalancò la porta accostata e vi trovò il cadavere di suo padre appeso per il collo al lampadario, si avvicinò al massiccio tavolo di noce della cucina su cui stava ancora adagiata la prima scacchiera della sua vita. La osservò, pulita come adorava tenerla lei, spolverata e lucidata fino alla sera precedente, come da rituale. Lanciò un’ultima occhiata al viso pallido del padre, sorridendo alle sue vecchie rughe che ancora sembravano cercare una via di fuga arrampicandosi lungo i boccoli cespugliosi della barba.
E si mise a sedere, dalla parte del nero, aspettando.

Boris

Le cose prima si fanno, poi si pensano.
A volte capita di trovarsi di fronte a momenti di particolare ispirazione, di grande verità. E sembra strano che a confermare le tue teorie sia nientepopodimeno che Boris Pasternak in persona. E ancora più strano trovarselo alla pesa dei carovanieri, con le stampelle e un berrettino sgargiante con la bandiera della Germania. Avevi perso sei anni in pochi giorni, e non ti quadrava molto come intrigo. Magari ci pensi ancora, magari no, di certo sei ancora seduto sui gradini, poi ti alzi e ti lasci ciondolare per un momento aggrappato alla ringhiera, ma comunque lo vedi: lo vedi che ti fissa la mano stretta sul chivas, allora lo fissi anche te e vedi che ti vede mentre lo fai. Così brindiamo, io e Boris Pasternak, alla pesa dei carovanieri, in una serata non particolarmente promettente che di colpo ti senti precipitare addosso, fracassare sulla schiena con la forza d’un vecchio bastone nodoso. Nel quadro compare anche una vecchia amica del liceo, che in realtà si disinteressa del tuo giochino nuovo. Stasera regalo biglietti, omaggio. Ogni fortunato possessore del biglietto ha la possibilità di ritirare il suo premio in schiaffi all’autore, contusioni, cazzotti in pancia, gomitate nei fianchi, e parliamo preferibilmente del gomito con l’ingessatura a scadenza mensile irrigidito come mai si potrebbe immaginare. Tutto quanto senza nessun tipo di ritorsioni, da parte mia. Se volete ci spostiamo un attimo, andiamo dove nessuno vede e dove nessun inconsapevole avventore possa trovarsi a dover pensar male assistendo alla violenza della scena. Andiamo dietro a quel furgone, andiamoci subito che sto già morendo dalla voglia. E tra un premio e l’altro, i biglietti li tengo ancora ben stretti nei pugni, perché Boris Pasternak mi dà l’idea di volermi fare concorrenza, così insieme torniamo a bere, a turno, due sorsi a testa, a ricordare il Futurismo, il suicidio, la resurrezione. E recuperi sei anni in cinque minuti. Ragazzi, fatevene un ragione: come quando vedi un caro vecchio amico dopo tanti anni di distanza forzata, e lo riconosceresti fra mille altri figli di puttana, per quello che dice, per come si muove, perché lo sai e basta. Non è che ci dobbiate credere per forza, d’accordo, ma è sciaguratamente così, fatevene una ragione e la chiudiamo qua. Alla pesa dei carovanieri.
Con Boris Pasternak.

Il cucchiaio

Per qualche ragione aveva fatto partire di sottofondo un nastro col rumore del mare. C’era scritto rilassante sopra la confezione e sul momento era sembrato un buon motivo per aggiungerlo al carrello delle nevrosi: immaginarsi le storie degli altri, leccarsi la punta del dito dopo averla strofinata nella cenere e guardare su internet i prezzi dei pacchetti vacanza cinque giorni quattro notti per San Pietroburgo. Ultima indiscrezione di partenza: era un uomo. Aveva i capelli lunghi, le fattezze e pure il nome da ragazza, non si piaceva ma non voleva cambiar sesso, né metteva in discussione la concezione comune prestabilita di orientamento sessuale; in verità l’argomento lo lasciava del tutto indifferente. Piuttosto se ne stava seduto in camera sua a immaginare il risultato delle sue mosse nelle scacchiere degli altri, quasi di nascosto, a immaginarsi finalmente a braccia aperte e polmoni pieni lungo le frizzantezze invernali della Prospettiva Nevskij. Aveva un amico, col quale di solito parlava attraverso il suo computer. A volte gli piaceva e si sentiva sollevato da quella distrazione, altre volte pure lui rientrava a pieno titolo nel ricettario di ingredienti e frastuoni che si buttavano a mosaico nella sua nausea personale. Se ne riempiva le narici nelle giornate più intense, e per adesso bastava così. Quel giorno scoprì la sua nuova prima passione di sempre: far sciogliere direttamente in bocca le compresse effervescenti delle scatole di medicine che sua madre teneva nel mobiletto della cucina, accanto alle forchette. Se n’era accorto per sbaglio, quando una di quelle scatole se l’era misteriosamente ritrovata in camera e per non aver avuto voglia di alzarsi a prendere l’acqua se l’era fatta sciogliere sulla lingua. Aveva subito sentito tutte le bollicine impazzire dentro di sé, e questo adesso gli dava una nuova, indifferente, dipendenza. In poche ore aveva svuotato tutte e tre le listelle metalliche di pellicola protettiva delle compresse, e stava cercando di convincersi che gli effetti lassativi sbandierati sulla confezione stessero effettivamente cominciando a fare il loro effetto. Non era vero, ma d’altra parte cosa cambiava? Andò fino al bagno, aspettò seduto fino a quando gli si cominciarono a informicolire i polpacci e i segni dei gomiti appoggiati sulle cosce presero la forma di due grossi soli di un rosso compasso, mai così acceso e abbagliante. Sconfitto, se ne tornò davanti al computer, attraversando prima la cucina per risistemare la scatola vuota al suo posto, segretamente, accanto alle altre. Nel farlo, si accorse che nel mobiletto, in mezzo alle forchette appena uscite dalla lavastoviglie, sedeva un grosso cucchiaio, incrostato di spinaci.