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Il primo giorno di lavoro non si scorda mai.
Purtroppo lo venni a sapere solo più tardi, in compenso però mi ricordo alla perfezione tutti i preparativi dei giorni che precedettero il mio esordio nel mondo dei subalterni. L’ultimo sabato fu una giornata come tante altre; respiravo nell’aria come uno strano e immotivato senso d’euforia, che una volta entrato in circolo sprigionava nell’aria buona parte delle tossine che avevo in corpo. Era uno dei miei sistemi di autodifesa psicologica, e la convinzione profonda che riponevo in quell’immagine mi aveva regalato un altro pomeriggio di statistiche sostenibili. A volte misuravo scadenze predefinite di tempo in base alla vicinanza allo zero del tasso di insoddisfazione. Ad esempio 0,4% equivaleva a un pomeriggio tutto sommato andato per il meglio, mentre 2,13% cominciava a rasentare la soglia critica del 3% di insoddisfazione, obbligandomi a introdurre in tutta fretta nuove forme di distrazione. Vale a dire intraprendere attività insolite, oppure più frequentemente costringermi a sforzi psicologici di valutazione, esercizi mentali per attribuire nuovi elementi di pregio a circostanze e abitudini che ormai avevano perso d’efficacia. Potrà sembrare criticabile, ma pensandoci bene alla fine dei conti sono poche le obiezioni a questi miei stratagemmi che si possano definire onestamente legittime. Molti di quelli che adesso potrebbero storcere il naso non hanno mai saputo far altro che lasciarsi sgretolare lentamente dalle ansie e dalle angosce della quotidianità, e nella buona parte dei casi semplicemente non sarebbero in grado di costruirsi da soli delle vie di fuga. Io ci stavo riuscendo e per il momento mi pareva più che dignitoso accontentarmene. Quel sabato, pochi giorni prima di cominciare a lavorare al ristorante, ero quasi per niente insoddisfatto. I miei esercizi fisici davano risultati, e di pari passo miglioravano le mie applicazioni artistiche e la produttività delle mie ore di studio e lettura. Erano giorni regolari, domestici, ma del tutto rassicuranti. Ero addirittura riuscito a compiacermi per alcuni film che avevo trovato interessanti e avevo scoperto alcuni vecchi album musicali sconosciuti che per qualche ignoto nervosismo di fondo erano addirittura riusciti a mettermi addosso voglia di ballare. Ed è proprio quello che feci, eretto al centro della mio universo tre metri per quattro, piedi nudi sul tappeto moquettato, di colpo cominciai a muovermi, con in testa l’andamento dei grafici e gli ottimi risultati scolpiti nell’orgoglio. Subito dopo arrivò il turno dell’addestramento fisico, così impilai lungo le pareti tutto ciò che potesse disturbare il mio perimetro di movimento, mi tolsi tutti gli abiti di dosso e restai nudo con musica e cronometro a correre sul posto, rincuorato dalle attenzioni premurose delle cifre pixellate sul timer. Quello era il momento più soddisfacente di tutta la giornata, già da qualche mese. Potevo distinguere nettamente le voci di ogni singolo muscolo liberarsi dal corpo e veleggiare nella stanza, riunificandosi al senso d’euforia nella loro isterica cornice di baci appassionati. Ogni passo era una nuova prima volta e le cavalcate si rincorrevano frenetiche in uno schiamazzo scomposto di rigorose scariche elettriche, che mi traversavano il corpo da parte a parte. Nessun rimorso, finalmente nessun fastidio, e poi quasi senza rendermene conto afferrai i pesi, un buffo arnese autoprodotto composto da due mattoni e una maniglia legati insieme da incalcolabili cinture di scotch ben strette tra di loro, e cominciai le serie di sollevamenti, un braccio alla volta. Le ripetizioni mi coinvolgevano istintivamente, c’era qualcosa in quei movimenti ritmati di assolutamente pornografico, e ogni avvicinamento al volto, ogni sfregamento degli avambracci sui fianchi sempre più inumiditi dal sudore, era come se mi trascinasse per i capelli da un polo all’altro di un campo magnetico di piacevolissimo dolore. Come spilli mi si conficcavano nel collo i crampi di una tormenta psicologica e mi sembrava di percepire la stretta morsa dei ricordi solleticarmi i nervi con forti pizzicate, come se da dietro una porta socchiusa trapassasse la goffa eco di un musicista improvvisato intento a suonare con i denti il vecchio clavicembalo nell’aula magna di un manicomio criminale. Finito il tempo, mi misi a fumare, appoggiato al quieto rilassamento seguente la scarica di tensione e liquidi corporei dell’allenamento, aggrappato allo schermo retroilluminato e alle sue cifre che adesso avanzavano più lentamente. Quando arrivò la telefonata avevo appena fatto ripartire la musica d’atmosfera, mi ero schiarito la voce e avevo anche fatto qualche prova d’intonazione, prima di rispondere una volta soddisfatto dal timbro. Poi arrivò la domenica e fu un 2,61%. Lunedì l’insegna accanto alla porta spalancata dava segni di cedimento e la fila continuava lungo il marciapiede. 2,98%.

poiquandopuoi

Ma perché mi scrivi se sono qui?
Tutto appiccicato poi. E comunque ci vuole tempo, non dipende da me. Vedi di darti una calmata che sei ridicolo quando ti fai prendere dagli spasmi, e mi metti pure ansia tra l’altro. Come quando mi cammini intorno quando siamo a tavola: è una cosa che non sopporto, lo sai, eppure me lo fai sempre. Non lo so se lo fai apposta, e t’assicuro che mi viene quasi voglia di pensarlo. Non è possibile, come quando entri in camera e accendi la luce grande, che poi una delle due lampadine è pure fulminata da non so quanto tempo ormai e quell’altra fa una luce biancastra gelida che sembra d’essere in un mattatoio. Mi fa impazzire, sempre per non parlare di quando sposti la roba che butto sul letto sugli scaffali della libreria, sopra i libri o peggio ancora davanti. Ma come fai a non capire che dà fastidio, che poi non si capisce più che libri ci sono in mezzo a quella montagna di casino, no? Non lo capisci? A me non sembra difficile. E quella trovata della polvere di caffè nell’affare per la fonduta per profumare l’aria, così difficile da sopportare per te? Anche se lo so che non ti interessa io ho bisogno di un clima favorevole, e soprattutto delle luci giuste per scrivere. Ti ricordi? Te l’avevo già spiegato, quella raccolta di possibili finali tragici alternativi a tutte le vicissitudini in corso della mia vita, tutte le disgrazie che potrebbero succedere in quello che faccio, così un po’ per superstizione un po’ per divertimento, ma penso possa venir fuori qualcosa d’interessante, tipo quella rubrica che tengo sul blog, dove non so se te lo ricordi ma ho preso l’impegno di commentare i temi forti dell’attualità con due articoli contrapposti, che partono dallo stesso argomento ma arrivano a conclusioni praticamente opposte, studiate però in modo da non rappresentare due filoni di pensiero contrapposti ma da poter essere incomprensibilmente accettati entrambi e allo stesso tempo dallo stesso lettore. Non so se mi spiego, ma tanto a te interessa il giusto, vero? Te c’hai ancora la mitologia del lavoro, te lo dico io, un vero e proprio feticismo, te ne rendi conto? Non ci riesci mica a uscire da quel tranello mentale in cui t’hanno invischiato, anzi te ne vai tutto contento la mattina in giro, vero? A guadagnarti con il lavoro quella miseria che ti permette soltanto di campare fino alla mattina dopo per tornare a lavoro, e così via in un circolo della morte infinito, ma te figurati se questioni qualcosa, se vai a sindacare, tutta roba da intellettuali impazziti, magari pure snob per te, parassiti coi soldi di famiglia. Gente fuori dal mondo, per te, e io non sono certo di meglio, giusto? Vivo fra le nuvole, riesco solo a stressarti, a prendermela con te senza ragione, no? Sono la tiranna io, giusto? Ma mi ascolti o no? Non è così? Amore? Oh! Cazzo stai facendo, sei pazzo?

Subaffittasi

Tutto il corridoio era illuminato da una sola lampadina, avvitata sulla parete davanti all’ultima porta. Non riuscirei a giustificare quanta e quale fu la mia sorpresa nel ritrovarmi lì dentro, in quel preciso istante. Non mi ero reso conto di esserci entrato, né ricordavo altro di quel che poteva essermi successo fino a quel momento. E non ci mise molto, qualsiasi cosa fosse, a scatenare il panico. Solo un momento per ricominciare. Così guardando meglio mi ero già rialzato e mi stavo avvicinando a quella lampadina; avevo voglia di succhiarla e chiudere gli occhi, appoggiato col gomito al muro nello sforzo di immaginarlo abbastanza solido da trattenermi. Ricominciare, da zero, un’altra volta. Sempre che non mi tornassero alla memoria i discorsi di quella bambina, così innocentemente letale, che mi ripeteva quanto fosse pericoloso prendersi troppo sul serio, credere in qualcosa di quello che ci si racconta, con quell’aria così rassicurante, vestita di candido, che mi avvelenava. Ancora una volta, ti prego. Così guardando meglio gli occhi si erano riaperti ma il corridoio aveva l’aria di tutto meno che d’essere verosimile: la vernice rosso sangue dell’intonaco scrostato aveva lasciato quasi ovunque il posto alle bombolette opache, senza lasciarmi nemmeno il tempo di farmi sfiorare dal sospetto che fosse stato possibile per qualcun altro ritrovarsi lì dentro prima di me. Una soltanto. Ci pensai soltanto dopo, quando guardando meglio ormai le gambe erano partite senza dire niente a nessuno; e le vedevo guardarsi intorno pettegole, sghignazzando tra di loro a ogni oscenità sputata a spray dritta sulle loro zone erogene più terrificanti. Solo per oggi, lo giuro. Mi ricordai che ormai doveva essersi fatto tardi, ma restai inchiodato nei polmoni, sopraelevato come quel lungo tubolare, tanto familiare quanto arrogantemente inutile. Mi guardava con disprezzo, e si divertiva a nascondermi anche l’ombra di un gradino apparente che mi lasciasse scendere. Non succederà più, ti devi fidare di me. Così guardando meglio avevo freddo e mi avvicinai alla lampadina, mentre le valvole delle vene e delle arterie con un ottimo lavoro di squadra spronavano il coraggio fino alle mani, per convincerle ad avvicinarsi e scaldarsi. Come se non ci fosse, l’odore di vomito rinunciava a sé stesso, tiepido lungo i nervi sfilacciati dei pantaloni, e mentre libero da concorrenze sleali osservava rispettoso la plastica bruciare sotto la lingua, due lividi di palpebre scivolavano via fino alle dita, ingoiando la polvere di un macchia giallognola nei pressi. Mai più, ti prego. Mi venne a esiliare la madre ignota di un ritrovato interruttore fine-di-mondo, sempre più chiuso in se stesso ma anche da spento sapeva farmi sbellicare come solo lui. Ti prego… Così guardando meglio ero morto, e finalmente potevo lasciarmi vivere. …aiutami

Voltapagina

Quando la comitiva di turisti, uno per uno, si apprestò a entrare nel fastfood greco in fondo a via Merulana, ancora non si era staccato dal bancone metallico della cucina. In un primo momento non si era neanche accorto di tutti quei giapponesi con cappellino e scarpette fluorescenti e dell’incomprensibile fracasso dei loro chiacchiericci. Fino al momento dell’incidente rimase lì appoggiato sui gomiti, disorientato dalle traiettorie degli occhi disegnate lungo le incrostazioni di cibo sul tavolo da lavoro. Il titolare del posto, il signor Katsikaris, lo aveva tenuto come cassiere fino a qualche mese prima, quando una rapina andata a buon fine gli aveva portato via tutto l’incasso della giornata. Aveva dato la colpa a lui convinto che in qualche modo non si fosse dato abbastanza da fare per impedirlo. Nonostante tutto, aveva chiesto il permesso per continuare a spendere come sempre le sue otto ore al giorno davanti a quel bancone, un po’ per la totale mancanza di applicazione nel trovarsi un altro lavoro, un po’ per il rispetto dovuto al suo equilibrio mentale. Fino a prima del licenziamento tutta la sua vita si reggeva intorno a quel posto di lavoro: ogni sua prospettiva per il futuro, per quante poche ne avesse, contava sulla miseria di quei trenta euro del buono giornaliero. Quella sera non c’erano motivi per aspettarsi una giornata diversa da tante altre identiche, passate a compatirsi accasciato sui gomiti, eppure si sentì molto più sollevato del solito quando finalmente arrivò lo psicologo, un ex professionista in pensione con cui quando ancora lavorava aveva avuto una mezza discussione per via d’un resto sbagliato, e subito dopo erano diventati amici.
E poi insomma, quello che mi ricordo è che in qualche modo era come se io fossi il Colosseo, proprio come se mi ci fossi ritrovato per caso, per dispetto di qualcuno che gli avesse voluto ficcare uno dei miei nervosismi per ogni colonna, ogni angoscia in quei bei mattoni bianchi tutti in pila uno sopra l’altro. Non lo so, mi ci trovavo incastonato dentro, e c’era un elefante. Grande, tanto quanto me; non so se fossi io a essere un Colosseo molto piccolo o lui una bestia così gigante, fatto sta che subito dopo mi trovo di spalle a un bancone tipo questo, solo in un bar molto più vintage, una luce soffusa alla francese e la moquette sui muri, tipo il pavimento di una camera da letto bagnata di piscio ripetuto verticale, copiato e incollato su ogni superficie della stanza. Neanche il tempo di guardarmi meglio intorno e quest’elefante mi dà un calcio sul petto, con una zampa di certo diversa dal solito, come di cavallo. Un cavallo magro ma forte, col pelo ambrato. E io non potevo muovermi, e alla fine è come se m’avesse ucciso schiacciando il petto del Colosseo. Sono morto soffocato, non so cosa possa significare esattamente, che dici?
Riaprire gli occhi adesso era più un riflesso condizionato che un vero e proprio sforzo di volontà; sentiva di non riuscire a sopportare oltre l’odore bagnaticcio che il velluto bordeaux dei pantaloni dello psicologo gli spingeva di forza dentro le narici. Non è che ne fosse proprio infastidito, però in qualche modo sentiva di avere il bisogno di definirlo in un’immagine. E l’immagine di sé che ne ricavò fu di colpo quella di un povero esaurito, nuovamente sopraffatto dalle sue funzioni riflessive, svenuto dai suoi stessi pensieri e steso in terra, con lo psicologo seduto sopra di lui e buona parte delle faccette rotonde dei turisti che lo fissavano vai a sapere con quanti e quali interrogativi giapponesi finalmente liberi di sbizzarrirsi dentro le testoline, ora che le loro preoccupazioni non si limitavano più a trovare il fuoco migliore per fotografare i lampioni della città. L’unico suono che riuscì a percepire fu il rumore del voltapagina del taccuino, e una voce distaccata da sé stessa che lo pregava di andare avanti.

Curriculum

Poi appena ebbe finito di parlare, subito prima di fare per alzarmi e andare via, qualcosa mi costrinse immobile a fissarlo, come ipnotizzato. Era quasi come se i suoi gesti, in fondo, non me la raccontassero giusta, e mi sentivo sorpreso da uno strano senso di turbamento. Non che m’aspettassi di certo parole più incoraggianti, e già da tempo ormai circoscrivevo quelle situazioni a poco più di una fastidiosa e logorante routine. Assuefatto dalla spirale senza risposte della giungla quotidiana, la mia concentrazione si limitava a disperdere altrove ogni attenzione e ambizione. Piuttosto c’era qualcosa tra le dita tamburellanti sul piano moderno della scrivania; o magari nella piega della cravatta, annodata intorno al collo fino all’inverosimile, che si doveva forse attribuire alla stiratura frettolosa di una moglie distratta. Qualcosa di nascosto, di ostile. Non ne compresi esattamente il motivo, ma sapevo che nell’aria stava veleggiando un secondo e imprevisto tono di sfida.
Senza esitare, presi di nuovo per il collo le sabbie mobili e ricominciai dall’inizio, ancora convinto che tutto sommato quella storia era tutto ciò che c’era da sapere sul mio conto. Il giorno in cui entrai per la prima volta all’asilo, trascinato per un braccio, m’ero già predisposto a tutta la rassegnazione necessaria a quel percorso obbligato. Cercando di stimolarmi con il pretesto delle nuove amicizie, mio padre fermò il primo rifiuto umano che ci si presentò davanti e gli chiese quanti anni avesse: il bambino alzò una mano e fece come il gesto dell’ok, mostrando uno zero rinchiuso tra l’indice e il pollice. Quando mi resi conto che in realtà intendeva il tre delle restanti dita cominciai a frequentarlo, probabilmente più per avere qualcosa da fare che per vera e propria curiosità. Nei giorni che seguirono diventò il mio migliore amico: condividevamo una delle casette di plastica del grosso salone dell’asilo e nel pomeriggio, mentre gli altri godevano nel pisciarsi addosso svaccati sulle brandine del pisolino, ci chiudevamo dentro e pianificavamo strategie per rompere i coglioni il più possibile alle maestre che ci avevano urlato contro per tutta la mattinata. Scoprii che si chiamava Dimitri e che la regola principale dell’asilo era di non andare in giardino fuori orario, senza gli altri bambini e le maestre. Così pianificammo un modo per uscire e un pomeriggio riuscimmo a evadere: facemmo tutto il giro dell’edificio e restammo sul prato tutto il giorno, nascosti sul retro fino a quando ovviamente ci scoprirono e, nel ricordo vago che m’è rimasto di questa seconda parte, s’infuriarono. In ogni caso avevo la sensazione di aver fatto una scoperta incredibile e mi cominciai ad appassionare alle potenzialità del covo che quella casetta di plastica gentilmente ci forniva, fino al momento in cui, da un giorno all’altro, vidi Dimitri fissarmi e successivamente cercare di colpirmi in faccia, senza ragione. Subito dopo uscì dalla casetta e non mi parlò più.
Da lì mi resi conto che in realtà la mia immaginazione aveva assegnato a Dimitri un ruolo che nei fatti non gli competeva, identificandolo in un qualcosa che effettivamente esisteva solo nel mio cervello, e che per tutto quel tempo me l’ero trascinato dietro costringendolo ad attività che non solo non gli interessavano ma che probabilmente addirittura lo turbavano. Per il resto del tempo all’asilo non ho parlato con nessuno e mi sono sforzato di guardare i bambini che giocavano con le caccole o che seduti in cerchio si lasciavano così misteriosamente coinvolgere dalla settantanovesima lettura della gabbianella e il gatto, pensando che tutto sommato Dimitri non era poi così male. Fosse anche soltanto perché gli altri Dimitri potenziali, quelli veri, forse non avrei mai avuto modo di conoscerli.

Stavolta fece entrare la sicurezza.

Se lo dici te

Ripensare alle nostre vite, spesso è quel che ci uccide.
Ma smettere di farlo, senza esser mai riusciti a farne a meno, è la sola cosa che ci seppellisce.

Questo lasciò scritto su un fogliaccio di carta spiegazzato, tirato via di fretta dal cassetto della stampante prima di uccidersi. Due frasi che sul momento sembravano più che sufficienti come necrologio, o forse come ammonimento, magari addirittura vendetta; di sicuro pareva qualcosa di intelligente da lasciare scritto su un fogliaccio spiegazzato, tirato via di fretta dal cassetto della stampante. Eppure tutto lasciava immaginare che il gesto fosse stato ben studiato, preparato accuratamente. E d’altra parte da un personaggio del genere non ci si poteva aspettare di meglio: aveva un carattere particolare, tutto suo, spesso impossibile da decodificare con assoluta precisione anche per i più affezionati, per tutti coloro che erano in vita gli erano stati più vicini. Il fatto non venne scoperto subito; si pensa che fossero trascorsi almeno tre o quattro giorni, prima che la vecchia vedova della stanza in fondo, l’amministratrice della palazzina condominiale di proprietà del Comune, si rendesse conto del silenzio insolitamente esasperato della sua stanza. C’era qualcosa di misterioso in tutto quel tempo trascorso dall’ultima volta che ne aveva ricevuto notizie, anche se probabilmente fu proprio il forte odore che penetrava dallo spiraglio sotto la porta a confermare i suoi sospetti una volta per tutte. Proprio in tema di spiragli, un dettaglio in particolare incuriosì il padre, una volta sfondata la porticina metallica chiusa a chiave dall’interno. Alla piccola finestra della camera era stato maldestramente inchiodato un listello di legno, dall’aspetto fragile e con tutta probabilità già ben avviato alla putrefazione; era sistemato tra le due ante in modo tale da rendere impossibile che le correnti del vento accostassero del tutto il vetro socchiuso, e formava uno spiraglio che sembrava studiato di proposito per lasciar intendere a qualcuno la possibilità di entrare dall’esterno. Mentre veniva rimosso il cadavere dalla pozza di sangue della stanza, suo padre si fermò a riflettere, come tutti noi quando ce lo venne a raccontare: stava aspettando qualcuno? Era da considerarsi un messaggio, una prova, una dimostrazione? Ma destinata a chi, poi? Gli interrogativi si rivoltavano irrequieti tra i fumi delle sigarette, mentre seduti sul divano del salottino condiviso al terzo piano restammo tutti in silenzio a squadrare il televisore senza volume e il volto severo della madre, che girando la rotella del fornello si apprestava a servire il caffè bollente. Stranamente aveva rispolverato per l’occasione proprio il servizio di tazzine di ceramica, quello preferito dalla vittima, che non sopportava il fetore della plastica bruciacchiata dei bicchierini usa e getta, a cui solitamente si ricorreva un po’ per tutte le occasioni durante i pasti in famiglia. La soluzione al caso, comunque, riuscii a trovarla soltanto io, qualche mese dopo, ormai rimasto l’unico ancora a ripensarci. Non che mi ci tormentassi più di tanto, però a volte involontariamente mi veniva voglia di soffermarmi un istante a giocare con quel piccolo tarlo rimasto rinchiuso in uno dei cassetti dimenticati dal cervello. Una sera entrai per caso nella camera del ragazzo, quasi del tutto svuotata dagli impiegati comunali, con la timida speranza di ritrovare un accendino d’argento ereditato alla morte di un vecchio parente aristocratico, e invece dovetti accontentarmi di un secondo fogliaccio spiegazzato, inserito di fretta nella custodia impolverata di un dischetto musicale lasciato dalla vittima sull’ultimo scaffale ancora rimasto inchiodato alla parete. Niente di interessante, l’opera prima di uno sconosciuto cantautore giapponese, un affare inascoltabile che però mi dette modo di ricordare di quando lo facemmo autografare all’autogrill, insieme a un cartone di scadente vino rosso, da due nudiste tedesche che avevamo conosciuto nell’albergo al mare la sera in cui si ubriacò pure il suicida, che a vederlo sembrava un seminarista e che di certo non lasciava immaginare d’essere capace anche lui di sbizzarrirsi in quel modo alle feste. I suoni, i colori ricominciavano a rimbombarmi in testa: tutto il divertimento, le voci sgraziate che urlavano sulla spiaggia, i riflessi dei grossi fari del palco sulla risacca del mare, la tempesta ormonale che si infuriava nel nugolo di aliti vinosi e magliette sudate, i granelli di sabbia che non ne volevano più sapere di darmi tregua all’interno coscia, il campo minato dei preservativi annodati e lasciati a marcire sulla riva, le grosse nocche della vecchia vedova della stanza in fondo che battevano sulla porta ed era pronta la cena.

Il lampadario

In quell’istante aveva appena violato l’embargo internazionale.
Era rientrata nel suo paese sfruttando proprio un convoglio militare che trasportava rifornimenti alle truppe dell’accampamento. Grazie a un suo cugino ammanicato negli uffici dell’amministrazione logistica per le emergenze era riuscita a far posticipare il vero convoglio al giorno successivo al suo arrivo, facendo comunque partire il camion, i cui stemmi del Comando Nazionale d’Intervento non trovarono difficoltà nel superare la frontiera. Il Belgio era a quel tempo ancor più democratico di adesso, celebre in tutto il mondo per la sua eccellente diplomazia, per la burocrazia efficiente e tempestiva e per il suo alto numero di giocatori di scacchi. Rischiò la sedia elettrica proprio per giocare a scacchi.
Molti dei più famosi ed applauditi maestri di scacchi che affollavano le grandi competizioni internazionali erano frutto del glorioso vivaio della scuola scacchistica belga. Ma questo non le interessava più di tanto, la sua partita doveva essere giocata contro il padre, un uomo robusto, dall’aspetto burbero e discretamente alcolizzato e non aveva mai neppure conosciuto le regole di quel gioco che tanto appassionava la figlia; tanto da farla scappare latitante all’estero in una località tuttora sconosciuta anche a chi scrive, dopo esser divenuta oggetto di inquietanti e sempre più ossessive attenzioni da parte dei servizi segreti locali. Appena tornata, si concesse il lusso tanto atteso di una passeggiata notturna lungo i viali della sua periferia, immersa in tutti i ricordi della sua brevissima infanzia, così disperatamente fuori dal comune. Ben presto le nostalgie ritrovarono la serietà e la determinazione del suo viaggio tormentoso, e si diresse verso il vecchio appartamento scalcinato di famiglia. Sua madre e sua sorella erano morte in un incidente stradale poche ore prima, ma nemmeno questo sembrava turbarla più di tanto. Arrivata alla soglia spalancò la porta accostata e vi trovò il cadavere di suo padre appeso per il collo al lampadario, si avvicinò al massiccio tavolo di noce della cucina su cui stava ancora adagiata la prima scacchiera della sua vita. La osservò, pulita come adorava tenerla lei, spolverata e lucidata fino alla sera precedente, come da rituale. Lanciò un’ultima occhiata al viso pallido del padre, sorridendo alle sue vecchie rughe che ancora sembravano cercare una via di fuga arrampicandosi lungo i boccoli cespugliosi della barba.
E si mise a sedere, dalla parte del nero, aspettando.

Boris

Le cose prima si fanno, poi si pensano.
A volte capita di trovarsi di fronte a momenti di particolare ispirazione, di grande verità. E sembra strano che a confermare le tue teorie sia nientepopodimeno che Boris Pasternak in persona. E ancora più strano trovarselo alla pesa dei carovanieri, con le stampelle e un berrettino sgargiante con la bandiera della Germania. Avevi perso sei anni in pochi giorni, e non ti quadrava molto come intrigo. Magari ci pensi ancora, magari no, di certo sei ancora seduto sui gradini, poi ti alzi e ti lasci ciondolare per un momento aggrappato alla ringhiera, ma comunque lo vedi: lo vedi che ti fissa la mano stretta sul chivas, allora lo fissi anche te e vedi che ti vede mentre lo fai. Così brindiamo, io e Boris Pasternak, alla pesa dei carovanieri, in una serata non particolarmente promettente che di colpo ti senti precipitare addosso, fracassare sulla schiena con la forza d’un vecchio bastone nodoso. Nel quadro compare anche una vecchia amica del liceo, che in realtà si disinteressa del tuo giochino nuovo. Stasera regalo biglietti, omaggio. Ogni fortunato possessore del biglietto ha la possibilità di ritirare il suo premio in schiaffi all’autore, contusioni, cazzotti in pancia, gomitate nei fianchi, e parliamo preferibilmente del gomito con l’ingessatura a scadenza mensile irrigidito come mai si potrebbe immaginare. Tutto quanto senza nessun tipo di ritorsioni, da parte mia. Se volete ci spostiamo un attimo, andiamo dove nessuno vede e dove nessun inconsapevole avventore possa trovarsi a dover pensar male assistendo alla violenza della scena. Andiamo dietro a quel furgone, andiamoci subito che sto già morendo dalla voglia. E tra un premio e l’altro, i biglietti li tengo ancora ben stretti nei pugni, perché Boris Pasternak mi dà l’idea di volermi fare concorrenza, così insieme torniamo a bere, a turno, due sorsi a testa, a ricordare il Futurismo, il suicidio, la resurrezione. E recuperi sei anni in cinque minuti. Ragazzi, fatevene un ragione: come quando vedi un caro vecchio amico dopo tanti anni di distanza forzata, e lo riconosceresti fra mille altri figli di puttana, per quello che dice, per come si muove, perché lo sai e basta. Non è che ci dobbiate credere per forza, d’accordo, ma è sciaguratamente così, fatevene una ragione e la chiudiamo qua. Alla pesa dei carovanieri.
Con Boris Pasternak.

Il cucchiaio

Per qualche ragione aveva fatto partire di sottofondo un nastro col rumore del mare. C’era scritto rilassante sopra la confezione e sul momento era sembrato un buon motivo per aggiungerlo al carrello delle nevrosi: immaginarsi le storie degli altri, leccarsi la punta del dito dopo averla strofinata nella cenere e guardare su internet i prezzi dei pacchetti vacanza cinque giorni quattro notti per San Pietroburgo. Ultima indiscrezione di partenza: era un uomo. Aveva i capelli lunghi, le fattezze e pure il nome da ragazza, non si piaceva ma non voleva cambiar sesso, né metteva in discussione la concezione comune prestabilita di orientamento sessuale; in verità l’argomento lo lasciava del tutto indifferente. Piuttosto se ne stava seduto in camera sua a immaginare il risultato delle sue mosse nelle scacchiere degli altri, quasi di nascosto, a immaginarsi finalmente a braccia aperte e polmoni pieni lungo le frizzantezze invernali della Prospettiva Nevskij. Aveva un amico, col quale di solito parlava attraverso il suo computer. A volte gli piaceva e si sentiva sollevato da quella distrazione, altre volte pure lui rientrava a pieno titolo nel ricettario di ingredienti e frastuoni che si buttavano a mosaico nella sua nausea personale. Se ne riempiva le narici nelle giornate più intense, e per adesso bastava così. Quel giorno scoprì la sua nuova prima passione di sempre: far sciogliere direttamente in bocca le compresse effervescenti delle scatole di medicine che sua madre teneva nel mobiletto della cucina, accanto alle forchette. Se n’era accorto per sbaglio, quando una di quelle scatole se l’era misteriosamente ritrovata in camera e per non aver avuto voglia di alzarsi a prendere l’acqua se l’era fatta sciogliere sulla lingua. Aveva subito sentito tutte le bollicine impazzire dentro di sé, e questo adesso gli dava una nuova, indifferente, dipendenza. In poche ore aveva svuotato tutte e tre le listelle metalliche di pellicola protettiva delle compresse, e stava cercando di convincersi che gli effetti lassativi sbandierati sulla confezione stessero effettivamente cominciando a fare il loro effetto. Non era vero, ma d’altra parte cosa cambiava? Andò fino al bagno, aspettò seduto fino a quando gli si cominciarono a informicolire i polpacci e i segni dei gomiti appoggiati sulle cosce presero la forma di due grossi soli di un rosso compasso, mai così acceso e abbagliante. Sconfitto, se ne tornò davanti al computer, attraversando prima la cucina per risistemare la scatola vuota al suo posto, segretamente, accanto alle altre. Nel farlo, si accorse che nel mobiletto, in mezzo alle forchette appena uscite dalla lavastoviglie, sedeva un grosso cucchiaio, incrostato di spinaci.

AVVISO DI MANUTENZIONE

– LE ESTERNAZIONI SONO SOSPESE CAUSA RIASSESTAMENTO PSICOLOGICO –

Mah

“Oh aspetta, l’hai visto quello lì?”
“Cosa? Chi, quello col cane?”
“M’abitava accanto, è un tipo assurdo. C’ha una storia incredibile…”
“Guarda, m’hai fatto venire in mente. Ieri fuori dalla facoltà, ero sul gradino dalla parte di là della strada. Guardavo un tipo davanti al portone che se la rideva con un gruppetto di gente amica sua e poi sento ridacchiare uno seduto accanto a me. Allora per due secondi netti mi sono detto: ma è possibile che tutti c’abbiano da ridere. [Poi senti, gli dico, non è che ti puoi mettere a ridere così a caso, senza collegamenti con il discorso e senza preoccuparti che gli altri prima o dopo capiscano il perché di tutta st’allegria, perché poi ti pigliano per matto. Che ti ridi te?, gli ho detto. E questo mi fa: nulla, pensavo a una cosa. E che pensavi? Mah, una storia di due tipi vicino a casa mia, ma via lascia perdere. No, come lascia perdere, ora me lo dici, gli faccio, sennò mi lasci così, nel dubbio. Mah niente, praticamente lì dalle parti mie, un tipo ha sparato a un altro, tempo fa, per questioni… vabbè dai, niente.
Ma come niente, parla! Mah nulla via, è roba vecchia, e non ne voglio parlare via. Dai, ora non mi puoi lasciare così a metà: chi ha sparato, perché gli ha sparato? Mah guarda, te l’ho detto, è una storia particolare, questo qui è una bravissima persona eh, poi è roba di parecchio tempo fa.
Ma che è successo, si può sapere? Via, non mi fa parlare, poi senti non mi piace che si sappiano ste cose, mi fa. Guarda io non so nulla, so solo che riguarda sti due tizi, non so mica chi sono, non è che possa andare in giro a ridire le cose, via, che è successo? Praticamente a questo qui gli facevano dei dispetti, continuamente, e lui poi se l’è presa. Ma dispetti di che tipo? Guarda gli facevano un po’ di tutto, gli andavano a tirare la roba, poi gli spengevano la luce mentre mangiava. Aspetta, che vuol dire gli spengevano la luce: ora che s’ammazza uno perché ti fa i dispetti?] Poi questo s’è rimesso a ridere, abbassando il mento e tirando su le sopracciglia, mezzo nevrastenico come a volersi mordere la lingua.
Lì mi si sono cominciate a accendere le lampadine. [Eh lo so, ma si fa presto a dire, era una situazione strana, mi dice].
Allora riparto, stavolta più frenato: [via, spiegami, io non so nulla eh, se mi dici le cose a metà, come faccio a sapere]. Cercavo d’essere prudente, qualcosa m’aveva fatto scattare l’allarme, e ora mi interessava tutto ancora di più, in realtà. [Praticamente questo qui, mi fa, aveva perso la pazienza e gli ha sparato. Va bene, ma perché? Che gli avevano fatto, ancora non ho capito. Se la rideva e continuava: guarda lui e il su fratello, lo si tormentava guarda, una volta s’era montati sull’albero delle pere e gli si faceva, gli facevano la guerra delle pere, gliele tiravano in casa, di tutto guarda, gli si faceva di tutto, cioè, lui e il su fratello insomma. Ho capito, e poi insomma? E poi nulla, questo perse la pazienza e gli sparò, ma aveva ragione eh, io sono dell’idea che non gli dovevano andare a rompere i coglioni, almeno io la penso così, insomma, poi questo è una bravissima persona, non gli dovevano andare a rompere i coglioni. Poi è una storia strana, non è che sia il caso, voglio dire, poi non mi fa piacere che si sappia, ecco, vabbè].
A questo più volte gli era scappato il ‘noi’, il ‘ci’, cioè lui c’entrava direttamente, e parlava del su fratello, e non ho capito poi se al su fratello gli avevano sparato o se era stato lui a sparare, perché da quel che diceva non si capiva, voglio dire, continuava a dire che lo sparatore era una bravissima persona, che aveva ragione secondo lui e che non gli dovevano rompere i coglioni, che c’avevano a pensare prima, e lo diceva con una sicurezza e una velocità tutta sua, come se non ci credesse più di tanto alla brutalità che stava dicendo, ma più come se si sentisse in dovere quasi come per spirito di corpo, per senso d’appartenenza, di proteggere il nome di qualcuno, anche magari facendo propria la giustificazione di un qualcosa che aveva fatto questo qualcun altro. Fatto sta che questo sta a due metri da un omicidio e io non sapevo nulla, e me l’ha detto ridendo, isterico ma ridendo, e lì per lì m’è venuto da pensare se questo qui si trovasse a dover raccontare cazzate in un tribunale quanto pochissimo ci metterebbero a scoprirlo, visto che in due discorsi già m’aveva fatto capire che c’entrava il su fratello, e quanti modi c’aveva per non farmi capire nulla di chi erano questi due tipi, bastava che mi dicesse: guarda, m’è venuta in mente questa storia, che m’ha raccontato quel tizio al bar, di questi due, amici suoi, vai a sapere dove abitano e chi sono, e dice che uno ha sparato a quell’altro, e via. Non so, non ti fa strano?
Io ci sono rimasto un botto di tempo a pensare, sia per sta cosa dello sparatore che non si capisce chi è, poi per il fatto che questo ci rideva e per di più non era riuscito a sviare per due secondi, tanto che era preso dalla questione e dalla velocità senza filtro del filo diretto tra la bocca e il cervello.
Poi, seduto dall’altra parte, c’era un altro tipo amico mio, che mi sentiva fumare e se ne strafotteva, stava lì con la testa buttata fra le ginocchia e non ha sentito nulla, cioè dopo quei cinque minuti assurdi, finita la sigaretta questo s’è rialzato e non aveva capito nulla, e ancora non sa nulla, e di certo a me me ne frega anche il giusto di andarglielo a dire, insomma, però il punto è che comunque nessuno di chi lo conosce sa sta storia, e io la so per caso solo perché lì per lì avevo voglia di ragionare, tanto per distrarmi un po’, e l’avevo fatto venire a sedere accanto a me per una volta, perché sto qui è uno che quando attacca bottone non la smette mai e di solito c’è da stare attentissimi a mettercisi a discorrere, e avevo voluto sapere a tutti i costi perché s’era messo a ridere. Poi vabbè, te non lo conosci questo qui, quindi insomma magari te ne freghi, però ecco, m’ha fatto strano. Tanto di più perché uno aveva sparato a quell’altro perché gli lanciava le pere in casa e gli spengeva la luce a tavola mentre mangiava. Che ti devo dire, m’ha fatto strano, un po’, ecco.”

“E poi?”
“Poi nulla, ci siamo alzati e siamo tornati dentro, che avevano messo pure il tavolino col vino e le valdostane.”
“C’avete fatto proprio l’aperitivo?”
“Eh sì, tra l’altro dovevi venire eh, tutto improvvisato ma c’era da ridere. Ma poi il tizio col cane che aveva fatto?”
“Nulla, tifa la Juventus tra l’altro, ne parlavo ieri con una che c’era rimasta male perché gli aveva visto tirare una palla di ferro grossa come un’arancia addosso al cane, come per farlo giocare e tra un po’ lo schianta, pare un giorno abbia ammazzato la moglie a martellate in casa sua a Livorno, va sempre a giro tutto storto col cane, lo conoscono tutti ma non parla mai con nessuno.”
“Mah, la gente è strana”
“Guarda, lascia stare…”
“Mah”.

peramah b-n

[insidiato]

E poi capita anche
il mentolo
delle sigarette da qualche
bar nella testa.
dove continua piatta
piatta
e carceriera
la frenesia di una serata silenziosa.
raccapricciante e umida
sotto al davanzale
fuori nel mondo
freddo
della tua prospettiva negli altri.
e capita anche quando
di colpo
una colpa
ti mangia dentro.
e nudo ti alzi e
osservi
tutti che ti guardano
lì fuori
nel mondo delle rette vie
lungimiranti
scintillanti dolcissimo
succo di buona fede
e adeguatezza.
un secondo: tu guardi
e stai a guardare
mentre ti cola
il miele viscido sugli stinchi
e l’unica parola
è sapore di fango
per il tuo quadro che non si
riempie mai
lo guardi e squallido non si riempie e lo vedi
provare disperato a parlarti
a convincere te
disorientato
delle tue introvabili
[canaglie inviperite]
qualità.
che stavolta pure
si rassegnano e
lasciano fare
al rumore di contrazioni
spontanee
delle solite ossa che si fanno aria
nell’aria.
per il sacro che non ti meriti
ma che t’aspetta
a mezz’altezza
equidistante.
senza motivo
ti insegue pure lì
dove non vuoi stare.
nella distanza di un’ambiguità
soffocante
e carceriera.
ma ti insegue
chiuso tra due
fuochi
e te ne fai schifo.
tutto intorno
il dolciume
[appiccica]
sui denti che ti servono.
che ti piacciono ancora
anche a mezz’altezza
dove ti vedi e ti riconosci
mai del tutto
morto per miracolo.
e la testa
è immagine di altri
nella voce di un distacco
che ti vede e si scansa
rivoltando immagini nuove
di te che ti sfotti
da fuori.
fiacco sputo di febbre
disperso
voga sulla gelatina
sfiancante
di parole come di giornale
dette da altri fuori
che ti sparlano dentro.
ma te che ne sai?
è per l’equilibrio, è un problema d’equilibrio
come quando ti sembra uno zoom
quello che ti fanno gli occhi.
o come quando
bambino
non sai dirlo e ci provi
a spiegare che è da
qualche tempo
ormai
che a volte sogni in
due dimensioni, senza
profondità
e te che ne sai, comunque
parli.
prego, ci mancherebbe.
tanto al coperto
a prova di vermi
e coi concerti degli amici da compagnia
quando torna il mentolo
malinconico si disperde lungo il
ghigno
da fotografia ingiallita della tua
[cresciuta storta]
parte di sopra.
eccitante
storta e conturbante se ne va
ah: sì.
per i cazzi suoi.
[si accomodi, faccia pure]
tanto al coperto
annusi fino all’ultimo spiraglio
e l’occhio a mezz’asta diventa
turgido
d’intenzioni migliori di voi.
di nuove prospettive lontane dalle vostre
ma di certo amare, e ancora più
amare e poi attentissime
sottovoce le senti remare
insistenti come forza d’esercito
[te l’aveva detto]
contro la tua stabilità.
pur sempre lei
pur sempre ti tiene
sicuro inchiodato tra una luce e una viscosità
che ti sbrana di un fascino
gelido di sangue.
prima di prendere il peggio da uno dei te.
che in una vita
esasperato insolito stop
ha fatto solo danni mentre voleva
perdutamente
[così, ancora]
essere danneggiato.
[ti prego, ti pago: insidiato]
e come per dispetto ti ritrovi lì
col silenzio isterico che sbraita, affanna
e ti si fa tagliola in gola.
seppur forse
in punta di felicità, isterico
comunque equidistante e
non hai sonno
non hai fame
non hai voglia
non hai crepe
né attaccamenti
e ti piace
lo schifo
di un distacco ancora
mentre il bicchiere
per una nuova prima
volta
gode e ti chiama
mamma.

fumolettoscura

Malabitùdini: Sete nel mondo

Ogni tanto capita di leggere anche cose interessanti.
Per esempio, ogni uomo espelle in media cinquantatre litri di sperma nel corso della vita, grazie a un totale di settemiladuecento eiaculazioni, di cui duemila solo di masturbazione. Ora, essendo un calcolo medio, sarebbe curioso conoscerne gli estremi statistici, vale a dire per esempio i quattro maggiori produttori. E visto che i quattro minori saranno stabili verso lo zero, i quattro maggiori quantomeno sui cento, ma considerando tutta la quantità di preti e simili, che teoricamente non dovrebbero avere niente a che fare con gettiti di sorta, può darsi benissimo che i maggiori arrivino anche a quote intorno ai 300/400 litri, o forse anche di più.

Ad ogni modo, già la cifra media di per se è significativa: basti pensare che sarebbe sufficiente a riempire una mezza vasca da bagno, oppure a farsi una doccia ininterrotta di tre minuti e mezzo. Facendo i conti, se con 7200 eiaculazioni totali si produce un quantitativo di 53 litri, sappiamo che 14,72 di quei litri sono da soli il risultato delle 2000 eiaculazioni a testa dovute all’autoerotismo.
Potrebbe sembrare un numero riduttivo e non universalmente rappresentativo della frequenza masturbatoria, ma rimettiamoci fedelmente ai numeri e limitiamoci alle statistiche scientificamente dimostrate: sorge comunque spontaneo come il presentimento di un grande spreco.

Facciamo qualche conto.
Riconoscendo come ormai sia diventata abitudine comune e generalizzata l’atto del pulirsi, dopo l’autoinflizione del gesto erotico, con dei fazzolettini di carta usa e getta, e considerando che in media un’eiaculazione si attesta intorno ai 7,5ml di prodotto seminale fuoriuscito, si potrebbe arrivare a dire che ogni getto spermatico medio equivale circa alla capacità assorbente di un singolo fazzoletto usa e getta, quattro veli standard in pura cellulosa 100%, peso medio di 20g/mq, che vale a dire circa 1g a fazzoletto.
Mettendo in croce qualche numero, per asciugare tutti i 14,72 litri di semenze dovute a una vita di masturbazioni occorrono più correttamente 1962,6 fazzoletti, poco più di 245 comuni pacchetti da 8.
Circa duemila fazzoletti totali a testa, in media.

Ma continuiamo: sapendo che un fazzoletto equivale a 0,0441mq, che 1kg di cellulosa è pari a 0,0036mᶟ di legno estraibile da un albero e che da un comune pino di medie dimensioni e altezza 15m si ricava 1mᶟ di legno, basta fare ancora qualche calcolo ulteriore per capire che, se mille fazzoletti, arrotondando, fanno 1kg di cellulosa, da ogni albero si possono produrre un totale di 277.777,7 fazzoletti.
Molti meno di quanto si potrebbe pensare, in realtà.
Ora, essendo precisamente 1962,6 il fabbisogno di fazzoletti pro capite medio nella vita per assorbire fino all’ultima prova del divertimento intimo di ognuno, non ci vuole molto a capire che ciascuno di noi consuma 0,007 alberi solo per asciugarsi gli attributi dopo la consueta passeggiatina sui siti sporchi di internet.

Potrebbe sembrare accettabile, ma se calcoliamo tutti i maschi in età fertile, facciamo tra i 15 e i 64 anni, nella nostra Italia, rinomata patria di allupati, si ottengono 19.596.708 masturbatori ufficiali, per un totale ben presto calcolabile di 137.176,5 pini di 15m, equivalenti a un enorme albero di circa 9 chilometri, più alto del monte Everest, oppure a una quantità di deforestazione pari a 50 volte l’intero patrimonio arboreo del Parco Nazionale dell’Abruzzo, il più antico parco del paese e ben noto a livello internazionale per il ruolo svolto nella conservazione di alcune tra le specie faunistiche locali più importanti, quali il lupo, il camoscio d’Abruzzo e l’orso bruno marsicano.
Quindi sì, oltre al grande spreco di semenza, si può dire senza tema di smentite che la masturbazione rappresenta altresì una grave minaccia per l’ambiente, ritagliandosi un ruolo di prim’ordine tra i principali nemici della Natura, amata casa madre della nostra umanità.

Ma pensiamo per un momento a come potremmo sfruttare per il meglio le infinite potenzialità di una risorsa di così vitale importanza, magari prendendo ispirazione dalla già battuta strada della semeterapia e delle sue rivoluzionarie applicazioni in campo gastroalimentare.
Considerando che ogni eiaculazione (7,5ml) contiene mediamente intorno alle 10 calorie, e ponendoci come obiettivo di qualità per il dignitoso mantenimento delle funzioni vitali un fabbisogno energetico giornaliero minimo di 500Kcal per ogni essere umano, non ci vuole molto per capire che se anche la sola popolazione maschile, compresa nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, della ricca e feconda Unione Europea (vale a dire 166 milioni e 387.695 persone) fornissero sperma al terzo mondo, invece di distruggere 1.164.715,865 alberi totali, con i loro ben 2.449.226.870,4 -duemiliardi449milionie226mila870,4- litri di sperma estrapolato in solitudine, si sfamerebbe un totale di addirittura 6.531.271,6 persone.

Sei milioni e mezzo di persone, praticamente il numero di ebrei uccisi dai nazisti, che invece, a 70 anni dalla fine della guerra, continuano a morire nella loro shoah silenziosa, al riparo da occhi, orecchie e coscienze dei tanto avanzati e ingordi popoli europei; il tutto mentre 3,1 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno per disfunzioni legate a fame e malnutrizione, per di più insieme a 1.164.713,865 alberi, solo perché nei salotti del primo mondo turbocapitalista globalizzato, dopo la miseria di qualche filmino stuzzicante, non c’è spazio per nessun occhio di riguardo né per l’ombra di un singolo rimorso nel fare i nostri porci comodi e poi gettare via tutto con disprezzo e noncuranza nei fazzolettini, schiavi delle nostre, squallide, cattive abitudini.

Roço

La senti dentro,
come un richiamo alla nausea, si muove;
implorazione sottomessa, adesso preme.
E tutto il resto dietro, travolto dall’oceano
delle cattive intenzioni.
Ancora vivo, ancora sussurrato, segreto.
Poco più di una confessione.
Un atto di fede.

Non sai se tornerai,
non sai se lo farai,
dicono che ti ucciderai;
ti masticherai e
sotto ai denti,
travolto da nuove ferite,
ti stritolerai.

Ancora una tentazione,
l’incertezza di un momento fermo,
una parola attesa,
che adesso torna a rinchiudersi nella speranza
di una luce rotonda dietro agli occhi,
adesso e solo per te, chiuso in un angolo,
stuprandomi.

Imparerai a volerti,
a sentire le spine piantare radici,
dentro le ossa di un momento vuoto;
una luce accesa dietro agli occhi,
che torna quando non la cerchi
e ti lascia morire il resto dei tuoi giorni,
abbandonandoti alla polvere,
alla tua cenere malaticcia.

Ancora l’attesa,
e una sola la tua sicurezza:
corone inattaccabili, eroiche sul capo,
ti travolgono e stringono,
ancora affamano, e non lo sai,
ti uccidono,
nel vuoto di una realtà mai stata meno credibile,
balorda e tremolante.

Non la vedi ma senti come si diverte
a colare lungo i lineamenti, soddisfatta di sangue,
ancora torna e si scioglie,
e scende fino alla punta del cranio,
fino a farsi vedere, impercettibile.
Ancora la tua uscita,
e calma ti guarda,
lontana e maliziosa, ancora nel terrore.

Salvo dalle tue braccia,
forte della tua forza simulata,
non lo capisci ma ti vedi correre,
adesso sempre più forte,
scappando, abbaiando, urlando,
corri e ti trovi malato,
e debole e stupefatto la senti allontanare,
scappare via.

A fatica scendere,
scorrere nell’abbraccio del tuo corpo,
e lo fai di nuovo, non ci potevi credere,
ma lo fai e lo rifarai, per sentirla correre,
scivolare, ridendo,
addosso a te.

Solo un paio d’ore,
proprio adesso molte di più,
non sai perché ci fai caso,
ma continuerai, fino a vederne altre;
continuerai fino a farti male,
per sentirti ancora rinchiuso,
eroico e destabilizzato;
e ti viene da ridere.

Ridere e scappare, affossarti sul collo e
andare via col freddo nella pelle
che ti morde d’affanno,
e non sai come mai ti mastica le dita
e non vuoi neppure saperlo;
sai che quando lo farai
saprai come fare, come uscire,
sbranandoti di fame e delirio,
stuprandoti.

Qualcosa ti serve,
ti serve adesso per compiacerti,
per sentirti ingrato nella tua personale,
tradita, linfa vitale;
ti serve qualcosa,
qualcosa per continuare a correre
e rincorrerti.
Ancora.

Ci provi senza riuscire,
adesso senza nemmeno volerci provare,
e continui a sentirle,
strette come corone nella tua carne,
le sue labbra,
gonfie di sorrisi maledetti,
di risate infami e meravigliose.

E adesso nient’altro.
Nient’altro, inquieto,
come sempre, nient’altro.
Oltre l’oceano del sangue,
caldo lungo la schiena
come freddo il tuo sudore,
perso e incontrollabile.

Una tempesta addomesticata,
mentre soffochi nella deriva delle tue vene maltrattate
e aggrappate ai suoi denti,
ancora divertiti nella carne,
stretti nella danza,
fermi sulle ferite di una ferocia ammutolita,
in caduta libera attraverso la spirale
di una nausea ordinaria.

Allevia, quello che non riesci a dire;
consola, nel vortice di elastici che risuonano contro loro stessi
in orge festanti di sguaiata depravazione.
Tanto perduto, tutto conquistato,
nei corpi sventrati dei tuoi pochi superstiti,
e ancora ferro,
morbido sotto la lingua,
che non ha tempo per ascoltarti,
nessuna voglia di purificarsi.

E non lo farà,
certo non lo farà;
non per questa tua calma guerra,
né per il rumore pallido delle tue cicatrici,
assordanti nel sogno di un mistero svelato,
di un nodo sciolto sopra la fiamma della
tua realtà.

Quella vera,
a spasso con la prima,
si tiene per braccio e
fortificando ride,
sicura della propria esaltazione;
arde nel braciere inciso sulla tua fronte,
logora ancora per lei.

Se loro mordono,
mordi anche te,
finiscigli i denti e sapranno come ringraziarti.
Sapranno come sdebitarsi,
e allora sarà gioco,
insieme per mano,
a braccetto con i tuoi mostri.

Come fa un bambino
che frenetico insegue il padre
nella sola speranza di una risata più forte,
e scappando si sazia del suono tiepido
di un’espressione complice,
di una smorfia potente ma ancora una volta amica,
alleanza di vita.

E una volta ancora piangi,
nell’isteria di un ultimo,
infuocato,
fremito inorganico,
incatenato alle pareti
di uno stomaco dolorante,
chiuso in trappola dalle tue abitudini
devastanti.

E una volta ancora respiri,
tenendo per mano le pulsazioni
dei tuoi prossimi cinque minuti;
aspettando all’ombra di un’incertezza,
sotto il portone di una dimensione privata,
il riflesso di quel sangue che instancabile
mescola ossigeno e riempie i polmoni.

E una volta ancora danzi,
sul pianto versato del mio vino caldo,
vomitando via l’ultima delle sensatezze
dal riparo dei luccicanti disorientamenti,
in balia dei nervi, nell’abbraccio di una promessa
nascosta e segreta,
in cui torno ad affogare.

E una volta ancora ridi,
violentando l’ultima sopravvissuta ferita,
che ti aspetta, ti riconosce e crolla,
adesso che smette di chiederne il permesso;
d’istinto si libera, intorno alla sua improvvisa frenesia,
primitiva schizofrenica tenerezza,
e parla con voce sincera una fantasia di ribellione.

E una volta ancora cado,
preda della tua giocosa spietatezza;
il sogno antico di una perversione più vicina
ora che mastica rabbia e sovverte.
E ridi mentre rido,
delirando vita,
sconvolti di roço e d’amore.

giuditta klimt

Dalla parte giusta

Ci sono cose di cui non parla mai nessuno.
Per esempio, esistono persone con un profilo migliore.

Una volta avevo un’amica, una vecchia conoscenza dei banchi di scuola, che aveva trovato lavoro come casellante all’autostrada. Un lavoro tranquillo, senza troppe responsabilità, pagato ragionevolmente e soprattutto l’unico impiego più o meno fisso che era stata in grado di trovare in anni di ricerche, grazie alla buona parola messa da amici di amici presso le persone giuste. Così, senza fare troppe storie, si presentò negli uffici appositi per ritirare la divisa e prese posto nella sua cabina, all’uscita dell’autostrada. Dopo qualche giorno, però, dovette cominciare a fare i conti con un serio problema, un tarlo nel cervello ben difficile da estirpare.
Ora, come tutti sanno il casellante dell’autostrada ha una posizione standard da tenere durante il servizio in postazione: seduto davanti a monitor e pulsantiera, allunga il braccio attraverso la finestrella situata alla propria sinistra, per ritirare il biglietto insieme al denaro del pedaggio e consegnare l’eventuale resto all’automobilista in coda dietro la sbarra.
Senz’altro a molti questo potrebbe sembrar affare di poco conto, fatto sta che proprio a causa di questa situazione, la ragazza cominciò ad accusare una forte contraddizione con se stessa: fin da quando era piccola aveva vissuto nella più totale e assoluta convinzione di avere un profilo migliore, in particolar modo quello destro. In ogni fotografia dell’adolescenza, in ogni filmino del compleanno in famiglia, in ogni autoscatto delle vacanze con il fidanzato, mai la si era vista consegnare un lato sinistro a favore di camera. Non si era mai riuscita a spiegare esattamente per quale motivo, forse per la piega dei capelli e per la forma che le dava al viso, sta di fatto che quel lato della sua faccia non lo aveva mai potuto sopportare. Nessuno, tra familiari, amici e parrucchieri, era riuscito a toglierle quel problema dalla testa, e lei si era ormai rassegnata a ricorrere a strategie del tutto particolari, come ad esempio camminare sempre accostata al muro del marciapiede sinistro della strada, non salire mai sul sedile del passeggero davanti, e tanti altri piccoli accorgimenti simili.

Quando alla fine realizzò che anche lei si sarebbe trovata inevitabilmente costretta a sottostare alla posizione standard del casellante dell’autostrada, esibendo giocoforza il profilo sinistro per gran parte della giornata e lasciando così stampata nei ricordi dei viaggiatori quell’immagine laterale del suo viso, venne puntualmente travolta da un vortice di gravi frustrazioni e molteplici imbarazzi. Giorno dopo giorno cresceva in lei uno strano senso di inadeguatezza, il quale presto la portò a non sostenere più il peso di quel disagio continuo. Non poche volte si trovava a dover affrontare tanti piccoli istintivi nemici, impercettibili scatti del corpo, movimenti fisici spontanei, tra cui un leggero affossamento verso sinistra del bacino accompagnato dalla duplice torsione combinata del collo e del mento in direzione dell’interlocutore, in modo tale da annullare il più possibile gli effetti nefasti del profilo sbagliato, favorendo una più neutra, seppur innaturale, espressione frontale; ma la strategia nel giro di poco ebbe a rivelarsi controproducente, in quanto la posizione scomoda e legnosa del corpo non tardava ad assumere proporzioni di ridicolezza pari o addirittura superiori a quelle del semplice profilo sinistro di per sé.
Dapprima, pur di dare una svolta alla situazione, provò a cambiare pettinatura, a truccarsi in maniera diversa; poi tentò più drasticamente di studiare un modo per ruotare direttamente l’intero tavolo della postazione. Ancora niente sembrava poterla aiutare, pertanto, per uscire dall’impasse, provò anche a rivolgersi a uno psicologo, che la seguiva instancabilmente perfino durante i turni di lavoro, ma l’unico risultato di ogni suo sforzo era sempre e solo un progressivo e inesorabile crollo di autostima, a livelli decisamente preoccupanti. Tanto preoccupanti da convincerla a cercare un nuovo lavoro, e successivamente, in seguito a ogni ulteriore fallimento, a rivolgersi sciaguratamente alla professionalità di un chirurgo estetico, dal quale si presentò con la richiesta disperata di farle assomigliare, una volta e per tutte, il profilo sinistro a quello destro.

Il medico, senza troppe preoccupazioni, non mancò di stilarle un preventivo, fortunatamente troppo salato per le sue tasche; così la mia amica si rassegnò, fino al giorno in cui, durante un momento di desolazione notturna, fu colta da un’illuminazione improvvisa, un’idea pazza e decisiva per risolvere il problema direttamente alla radice. Decise di simulare una sua conversione spirituale all’Islam, di rimediare da qualche parte un velo integrale, una sorta di burqa o la prima cosa simile che avesse trovato, e di fingere, durante le ore lavorative, la necessità di portare tale indumento per motivi incontestabilmente religiosi. La prospettiva le piaceva, magari avrebbe sofferto un po’ di caldo nei periodi estivi, però almeno aveva la sicurezza di poter finalmente lavorare, durante quelle ore che adesso le parevano supplizi interminabili e angosciose mortificazioni, con serenità e spensieratezza, al riparo da tutti quegli sguardi severi che la tormentavano insopportabilmente.
Superate le prime momentanee ritrosie, comunicò la novità ai suoi superiori, i quali seppur infastiditi non avevano nessun pretesto a disposizione per allontanarla, né potevano rischiare pubbliche accuse di discriminazione o fastidi del genere, cosicché la mia amica poté cominciare a intraprendere una nuova routine quotidiana: la mattina si alzava e, dopo essersi sistemata e aver fatto colazione, infilava il burqa, per toglierlo solo una volta tornata a casa, dopo il lavoro. E così via per settimane: il velo le piaceva, le dava una forza nuova, la faceva sentire finalmente sicura di sé, determinata, e gradualmente ci si appassionò sempre di più, provando addirittura a tenerlo per più tempo, anche fuori dall’orario lavorativo, fino al giorno in cui decise definitivamente di cominciare a indossarlo con regolarità, tutto il giorno, senza interruzioni. Imparò a conviverci, a svolgere tutte quelle piccole azioni della quotidianità, senza rinunciare a niente: si allenò perfino a mangiare gli spaghetti, infilando la forchetta attraverso la fessura per gli occhi. Sempre più affascinata da quell’indumento, decise di cominciare a frequentare il gruppo di fedeli musulmani che glielo avevano venduto, dopo esser venuta a sapere che si riunivano settimanalmente in città, a casa di uno dei membri, per le preghiere e le altre forme di socialità tradizionali. In mezzo a loro sentiva addosso meno problemi, si vedeva accettata in pieno, senza critiche o pettegolezzi, e finalmente adesso sapeva di mostrare agli altri il suo profilo migliore, di essere dalla parte giusta.

Per molto tempo continuò a frequentare quel gruppo, dopo il lavoro: era sempre più presente in ogni attività, e un giorno fu invitata a partecipare a una manifestazione pubblica sotto al Comune, per richiedere che fosse loro riconosciuto ufficialmente un vero e proprio luogo di culto e poter così evitare di doversi continuare a ghettizzare in un garage privato. Lei si sentì fin da subito molto coinvolta e, quasi per sdebitarsi con quelle persone che erano state capaci di farla sentire così bene risolvendole col burqa quel brutto problema del senso di inadeguatezza, presa da moto istintivo si lanciò sui giornalisti presenti, non distanti dal gruppo di locali razzisti contestatori, e con tutta la passione e la foga del momento si aprì con la massima sincerità ai loro microfoni e alle loro telecamere, raccontando per filo e per segno tutto quello che le era successo da quando li aveva conosciuti. Convinta di testimoniare l’accoglienza e la disponibilità di quel gruppo di persone perbene, l’insolita storia consegnata alla stampa finì presto invece per ritorcersi drammaticamente contro la sua stessa protagonista: una volta uscita pubblicamente diventò molto conosciuta in città e, quando la voce arrivò alle orecchie dei dirigenti dell’autostrada finalmente regalò loro un appiglio burocraticamente valido per togliersi dai piedi la casellante islamica. Si dichiararono offesi dalla truffa subita, dall’inganno iniziale del velo che veniva tolto dopo il lavoro e della finta conversione, e a nulla valsero le repliche nel momento in cui le comunicarono, a mezzo stampa e di fronte a tutta la città, il licenziamento definitivo e irrevocabile.
La sera stessa la mia amica, disperata per aver perso il lavoro e avvilita dalla pubblica umiliazione subita, si andò a ubriacare, tanto grande era il suo dispiacere e, sopraffatta da uno scatto di rabbia improvvisa, di colpo prese la macchina e si lasciò andare lungo la sua amata autostrada a tutta velocità, fino a perdere il controllo della vettura nel tentativo di strapparsi di dosso quel vestito che alla fine dei giochi l’aveva condannata a rimetterci lo stipendio che le serviva per campare, restando fatalmente coinvolta nello schianto fulminante contro la monovolume di una famigliola felice, con tre bambini piccoli a bordo, di ritorno dalla settimana bianca.

Da allora ho capito che è meglio diffidare delle persone con un profilo migliore.

caselloautostrada2 bn