65 febbraio

Feci giusto in tempo a ritirare la mano che le ombre arrugginite squartarono i calcinacci del sottoscala per venirmi a ricordare il loro sibilo stregato lungo le pendici del collo, sporche di saliva e cenere. Il tocco fu di un’intensità distratta, e mi commosse le maniche arrotolate lungo i gomiti con una certa, annoiata, semplicità. Rimbombavano le macchie di buio sulle tempie grattugiate nelle pareti spoglie del cantiere, e in qualche modo riuscivo a essere una volta ancora nel posto giusto, al momento giusto, con la terra sbagliata sotto ai piedi. Filtrava la sagoma di una grossa porta verdognola stuprata a spinta, in mezzo alla luce calda del pomeriggio, e da lì sotto finalmente vedevamo la prospettiva migliore degli scalini di cemento che portavano all’officina tinteggiata di rosso e celeste del piano superiore. Finalmente sapevamo di quei pezzetti di legno lasciati a supporto della struttura, finalmente le vedevamo fragili. E ci abbracciavamo, in mezzo ai colonnati semoventi e ai pacchetti vuoti delle sigarette, ancora fumanti a consumarci l’ossigeno dentro al cranio indolenzito. Non potrei ricordarmi, anche d’impegno, altro marmo più incandescente di quella frizione nascosta alla luce della realtà di cartone, l’impiccagione innocente di una scultura finalmente scappata rosacarne dalla scatola di vetro che la contiene, che la stritola, nei giorni al museo.

64 febbraio

Stavolta si faceva più fatica a sentire le vibrazioni perdersi nelle venature delle finestre. L’alveare mi aveva risucchiato nel suo grosso divano centrale, squarciato in sinuose schizzi di tela squadrata dal velluto rosso dei grossi cuscini rigidi. Visto che da soli s’era in troppi, stipendiare cinque rottami di schizofrenia nel posto di due era parsa la soluzione migliore, pagammo il taxi col fondo sferragliante della tasca e ci prenotammo il biglietto per il diretto notturno. Soprammobili fumanti rimpiangevano romanticismi torinesi, accompagnati da una voce calda di rassicurazioni e cadenze rintronanti. L’ape regina si ripiegava clandestina nelle pieghe della camicia, nascosta alla vecchia padrona di casa con l’osso in bocca. Rimbalzavo come scosse elettriche da un accendigas sui muri del cubo trascinato di forza dentro le retine, e cominciavo una decostruzione al gusto di papaya schizzata col rum da far rabbrividire le antenne dei palazzi più di quei grossi elefanti di marmo che a ritmo di metronomo scandivano le mezzore, intersecandosi d’assalto col segnale del satellite e le magnificenze invisibili dei wi-fi. Pisciavo noccioline al cherosene in faccia ai trecento gradi salati della notte, cercando soltanto di sbatterle come meglio mi riuscisse addosso alle pinne tricolore rimaste incastrate come lattine inconsapevoli tra i passeggeri intorpiditi e la frustrazione violenta dei reattori ubriachi. Si lasciavano sfuggire veri latrati da camerata, quando s’accorgevano delle noccioline e di come loro stessi non potessero farci niente, e cominciavano a cadere a picco nei territori dell’inceneritore, sotto lo sguardo nero, freddo, del padrone.

63 febbraio

Vapori di carne essiccata pendevano in forme plastiche lungo i corrimano d’ottone delle vecchie scale alla turca. Croste di sangue rappreso vomitavano rassegnazione in mezzo alle rughe di plastilina stampate sulle facce inermi delle donne sedute sulle pile di cassette di legno svuotate dalle compravendite. Cesti maciullati di insalate dimenticate rovinavano fragorosamente nella polvere del grosso chiostro, rotolando sulla terra battuta tra le fessure dei formicai e le chiazze di unto e salamoia del mercato. Una stampella del posto cominciò a correre tra le fila dei venditori abusivi, sputando l’ultimo vigore dalle palpebre socchiuse dell’infermiera. Lo scintillio delle monete frantumava il forte odore di spezie e conservanti chimici, liberando bagliori nauseanti nell’aria esasperata di un prima mattina rassegnata a un insolito silenzio mortuario. In lontananza, il risucchio delle cannucce ai tavolini d’alluminio levigato del piccolo bar all’antica risvegliava l’ultima disperata immedesimazione negli affari della vita quotidiana. Le apprensioni evaporate della calca si trasformavano in salivatori automatici al rallentatore, in mezzo agli sciatori di fondo della terza età, spremute nei succhi gastrici di un intera zona residenziale tirata su dalla saliva delle cavallette. Ogni respiro era inequivocabilmente convinto d’essere l’ultimo e tanto bastava per appiattire l’umore di tutti i presenti al minuto immediatamente precedente la soglia del dolore. Si vedevano crocifissi di bambini appesi alle parete in lontananza strofinarsi gli occhi arrossati dalla polvere e massaggiarsi il collo stretto dal guinzaglio con le dita sudaticce dei piedi. L’ossigeno era paura di aver a che fare con qualche riflesso di sé: si respiravano nugoli infranti di calme storte e naufragi falliti, schivando con cura odontotecnica ogni spiraglio di superficie riflettente. Non c’erano vetrate, né tantomeno specchi, e il piatto delle bilance era foderato da strati vellutati di moquette per pavimenti. Le facce senza volto delle espressioni tumefatte dei clienti venivano rinchiuse a gruppi di quattro per volta dentro il portafogli dell’ortolano, e in quella tasca dei pantaloni consunti venivano condannati al confino per l’eternità. Le parole si rincorrevano nelle trachee indifferenti delle controfigure, abbaiando ventiquattr’ore al giorno per andare a pisciare da qualche altra parte. Non c’era nemmeno l’ombra di una fonte di calore, ogni costruzione si basava sull’incapacità artigianale del vicino, e nel complesso, tutto il mosaico si reggeva intorno alla propria negazione. Il grande porticato dell’ingresso era un cumulo di macerie abbandonate al tempo, e pareva vederne fuoriuscire le grosse assi di legno massello di un tempo, come aggrappate alla memoria di un periodo vitale del passato. Il mercato era una basilica sconsacrata, ricolma di pietrisco grottesco e scritte oscene. Dalle grosse lampade appese al soffitto sfiorivano fuochi fatui dentro gli aspiratori per il fumo, e lo spirito all’ammoniaca delle suole delle scarpe calpestava le teste consumate dei vecchi aborigeni nella morsa di un marciapiede spigoloso e fuori controllo. La rabbia era muta. Piccoli animali di varie razze incrociate calpestavano i denti sparpagliati del teschio deforme dei vecchi rancori, con il loro insopportabile zampettio bastardo, ticchettante all’infinito sui gradoni della scalinata centrale. Dalla scalinata si accedeva al piano superiore, l’ultimo dell’imponente edificio, massacrato dalle ricostruzioni rituali che nel tempo le avevano divorato l’anima. Il piano superiore era costituito da un lungo corridoio, ai lati del quale s’infiocchettavano quantità incalcolabili di piccole porticine, ognuna l’accesso delle rispettive celle. Le celle erano la residenza estiva dei commercianti, l’ultimo posto fresco raggiungibile durante le temperature magmatiche delle settimane più calde. I commercianti erano riuniti in ordini religiosi di diverso tipo, e a ogni ordine spettava una sezione predefinita del corridoio. Chiazze confuse di ustioni silenziose e convulsioni notturne si alternavano il podio delle grandi sorprese di quel luogo segreto e inarrivabile. Pareva che si svolgessero vere e proprie ritualità di un malassortito entusiasmo esoterico, nel cuore della notte, che per loro valeva da addestramento psicologico pre-lavorativo. Nessuno, in ogni caso, sapeva come si procurassero la merce che puntualmente ogni giorno riempiva le loro cassette e i loro scaffali, dato che per la maggior parte del tempo se ne stavano rinchiusi nel grande albergo al mare o sparpagliati nel labirinto di quel corridoio nella basilica. L’albergo era la vecchia sede di un carcere di massima sicurezza. Venivano portati lì tutti coloro che dovessero scontare periodi di isolamento forzato o altre faccende simili. Una volta dismessi gli uffici e trasferiti i prigionieri, i commercianti vi si erano trasferiti in massa a giocare a dadi e rovinarsi in scommesse azzardate sui combattimenti delle nuove matricole. I commercianti, a loro modo, si divertivano, e avevano bisogno di quelle ritualità notturne lungo il corridoio per non lasciarsi annientare dai clienti. Nell’effettivo, quando decisero di addestrare quei vecchi rincoglioniti a fare i clienti non avevano idea che la loro mutilazione cerebrale potesse ritorcerglisi contro in termini di terribile noiosità e sfiancamento assoluto. La loro breve provincia autonoma senza appartenenza fu lo sbandamento di un millisecondo. Feci la tessera dell’ordine, fui iniziato lasciandomi ustionare l’interno coscia con un fiammifero, vendetti il primo cesto d’insalata a una delle salive della traiettoria orientale, e me la detti a gambe verso i misteri di Spagna da un’altra parte.

62 febbraio

Le file ai ristoranti si dimenavano come quaglie afrodisiache nel petto degli adolescenti, pochi tintinnii di telegrafo a disturbare il flusso delle coscienze disinibite. Ogni mercificazione profumava d’oro colato, sangue di vitello negli occhi di una ricerca d’approvazione. Le teste squadrate dei convenuti correvano a reclamare attenzione dalle compagnie geometriche che riuscivano a ritagliarsi intorno. Si rinchiudevano in figure apocalittiche da manuale di trigonometria e sconquassavano i perimetri degli altri con battute sagaci o peripezie pungenti. La nebbiolina leggera delle sigarette al mentolo svaporava tra le punte dei compassi come una banda di piccoli mammiferi a inseguire la noce di cocco della mensa universitaria. Ogni pericolo tirato a lucido dalle fotografie subliminali dei passanti se ne stava accucciato nel centro preciso della rigorosità matematica della folla. Le sillabe dei convenevoli si riunivano in bande di giovani disadattati e correvano lungo i muriccioli dei canali in cerca di qualche malcapitato da bullizzare un po’ alla meglio, quasi scherzosamente, innocentemente. Note di colore affollavano gli arcobaleni nell’aureola degli alcolizzati, e tranquilli e beati s’andava avanti tutti. Camminavamo in fila, ognuno nel microcosmo, ça va sans dire, a passo di sfilata, nell’onorificenza funebre in cui ci riconoscevamo e che tanto ci spaventava. Giocavamo a far finta di conoscersi, e non c’eravamo nemmeno messi d’accordo. Uno dei fari proiettati nella locanda, posizionato all’ultima fretta e furia disponibile, cominciava a surriscaldare uno dei cartonati portanti, e non ci volle molto prima che la notizia facesse il giro degli angoli del locale, fino all’ultima delle resistenze. Seguimmo tutti l’incedere incessante della marcia, qualcuno di scattò si lanciò dalle finestre socchiuse e venne raccolto nelle ceste dei portalettere e rispedito al deposito. Qualcun altro provava a trattenere il respiro per distrarsi dall’odore, e il più delle volte preferiva lasciarsi cadere, ammosciarsi svenuto per terra, piuttosto che presentare qualche sorta di reclamo. Raccolsi una gomma da masticare appoggiata alle macchie di rossetto di uno dei bicchieri vuoti e tanto mi bastò per prendere le gambe e schiaffarle dentro al sottoscala. Vidi piccole assi di legno sgraffiarsi a vicenda con le punte sporgenti dei chiodi, fino a consumarsi a sangue negli urti inevitabili con le pesanti superfici di marmo battuto. Mi rimase della cenere sul ginocchio, corsi a leccarmela e una delle assi mi si conficco lungo il solco di una vecchia cicatrice. Strinsi la mano al sottoscala, con aria di riverenza, e mi portai di nuovo verso la piccola porticina, chiusa a chiave dall’esterno. Mi abbassai sulle ginocchia, sfilando lentamente i pantaloni, e a costo di qualche sfregamento doloroso dei gomiti osservai la basilica sporgente della piccola toppa d’ottone con tutti i segreti pronti a non esser mai svelati che mi si attorcigliavano in mezzo al collo, ai peli pubici, ai genitali affranti dai brividi di freddo secco e pungente del legno. Ogni tanto alzavo lo sguardo verso il soffitto e mi sentivo libero. Per poco mi stupii dei cinque quarti di cielo che trasparivano dalla croce della grata di una finestrella scrostata dalla muratura. Fu quello il momento in cui conobbi il carcerato. Senza presentarsi né richiedere di palparmi le carni, come era diventata usanza fare in zona per assicurare sostanza alle rare narrazioni che avvenivano clandestinamente in luoghi e situazioni di fortuna, la fronte di quell’uomo era l’unica parte di sé che aveva conservato la memoria di una vaga sfocatura di colore. Tirò fuori la fiocina da dietro la lingua e mi conficcò sfumature di curaro dritte nell’interno coscia a peso di piombo. Sotto cosa si ripara il prigioniero quando viene il terremoto, maresciallo? Che fine fanno le matricole? Presi il passo di danza di uno dei rammenti arrotondati sui listelli e glielo tirai sulla faccia dalla paura. Sotto a cosa mi metto, brigadiere? Le chiazze neroverdi delle venature rimbombavano trombe da bersaglieri sulle pareti febbricitanti, fuori la marcia risuonava sulla porta nell’incedere continuo delle controfigure. L’odore di bruciato del cartone portante riempiva la clessidra di fumate di un denso nero appiccicoso, e i cardinali da capo col copione in mano si rituffavano sotto chiave nella salamoia di una nuova votazione. Guardia dimmi, e il terremoto? La marcia della tonnara vomitava il passo anfetaminico della prima sbronza cruenta, sputi sanguinolenti filtravano addosso agli osservatori come piovuti dalla picca di implacabili commilitoni asburgici. Il fracasso di un primo incendio doveva aver confuso la psiconautica militare, e restava una fronte sfocata a insidiarmi sotto tempia le sue contraddizioni al silicone. Sotto a cosa, appuntato, scusi?

61 febbraio

Blitz, perimetro di quelli da nonchalance. Qualcosa di grosso parte a perpendicolo per la tangente, e mi sfugge nel fracasso delle sirene. Correva l’anno, e qualcuno lo rincorreva pure, distratto dalla faccia da salmone che per tutta risposta gli schiaffavo addosso. Nascosto sotto i bidoni della spazzatura facevo amicizia coi ratti dell’umanità e sprizzavo sbuffi di alito al cherosene verso la luce umida dell’ultima sera. Sapore di fritto conficcato nelle costole, ruminavo la biada avanzata dal grosso pranzo rituale, e mi contorcevo sperando di ricordare il primo movente per vomitare. Un calcio a un sasso lo fece volare per qualche decina di cadaveri fino a farlo schiantare contro la paratia di una fermata dell’autobus, incrinando il vetro sozzo con tutta l’arroganza di un amante irrequieto. Qualcosa mi sfugge, qualcosa di grosso. Non sono una signora, mi dicevo, dai ricorda, fai uno sforzo. Nel piscio della luna, seguivo la faccia nelle vampe della grigliata mista che mi brulicava nei pantaloni. Qualcuno osservava. In ogni caso la sessualità è una formula magica troppo distante dal guinzaglio dei vostri righelli, lasciate fare a chi sa fare. Insegne di croci verdi sibilavano tra i piedi lunghi dei passanti coraggiosi. Padri pellegrini solfeggiavano marce militari dai grossi corni di polistirolo annodati al saio purpureo. Larghi sacchi di cemento armato penzolavano sulle teste degli autoferrotranvieri appollaiati sulle terrazze mansardate dei marciapiedi più lugubri, spersi in mezzo agli occhiali da vista dei cani randagi. Vecchie sartorie abbandonavano capannoni all’ombra polverosa degli imponenti svincoli autostradali, mentre soltanto due riuscivano a respirare nella cappa della noia, in mezzo a fango e detriti, si leccavano le ferite tanto per non dimenticarsi il rumore ferroso dei vetri rotti. Mandrie ordinate di souvenir salutavano il passaggio dei resistenti con levate fucsia di cappelli di vetro e palline di gommapiuma sotto ai materassi. Ogni lasciata è persa, presero la palla e se la conficcarono in gola per non smettere di incontrarsi tra i fumi confusi dell’aldilà. Le carcasse delle casse automatiche gli ridevano in faccia, con la presa di uno zaino che si lascia cullare dalla schiena dolorante del suo personale quindicenne di fiducia, e nell’aria vibravano condense amorose di dubbia provenienza. La diaspora dei bravi ragazzotti si avvicinava alle soglie ininterrotte di dolore, tra cristalli di rotture e punture di saldatrici. I chiodi del mondo, caro maresciallo, si arrotondano da soli; presto o tardi, non bucano più, me lo rammenti settimana prossima. I cartelli di divieto lasciavano il posto alle decappottabili luccicanti della prima periferia, ritirandosi a vita privata si slacciavano le cinte e picchiavano le mogli graciline per compensare le ore di fatica. Dov’è finita la tenerezza, maresciallo? Lasciarsi andare è una mangiatoia per gli occhi, compare, i chiodi. Pensa ai chiodi, quelli belli fatti di alluminio pieghevole, quanto mi fanno ridere i chiodi. Nel mezzo alle luci gialle dei semafori, i grassi venditori di rose si sistemavano il colletto davanti ai motociclisti nudi che si cavalcavano a vicenda emanando profezie oscene dai pruriti intimi. Sorpresi da tal maledizione, giravano lo sguardo lungo le pensiline degli avvocati in pensione, che riscattavano onorari immaginari dalle segnaletiche confuse agli incroci della città. Le finestre della chiesa rimbombavano mezzanine di colonne di pietra rinchiuse in abominevoli inferriate battute su misura, e un giovane pescivendolo disorientato le fissava abbracciarsi e infilarsi aghi nelle spalle tra di loro come forma di cortesia. Le spirali dei distributori automatici si accanivano tra di loro, si lamentavano del mal di testa e vomitavano schizzi di sangue sul vetro luminoso delle piccole vetrine, tra odori di scoiattoli e dita autolesioniste avvinghiate alla comodità di un pasto di mezza giornata. Sul bancone si consumavano spremute di frutti esotici incartati nel polistirolo, e pareva anche che nessuno se ne lamentasse. Cinque minuti alla chiusura, la cameriera urla ai clienti di venirsi a riscuotere i bicchieri da soli, che ormai si stanno abbassando le saracinesche e le cassette delle scope sono già ubriache della razione quotidiana di merda e insetti calpestati. Qualcuno intervenga, gridò un vecchio alla dentiera, gioco di squadra, è quello che ci vuole, la forza del gruppo dei trentadue di silicone. Il fischio dei treni in lontananza riportava aria di cartonati e brulicanti pedoni migratori si affollavano coi sacchi azzurri in spalla lungo le linee storte dei binari. Nessuno pensava al domani. Il domani piangeva in collo alla madre, una signorina alla buona rimasta incinta dopo aver leccato il pavimento di un cesso pubblico lungo la statale, tra il porto e il deposito degli autobus. Le scosse elettriche imbastivano sinistre paresi in faccia agli sconosciuti, e soltanto qualche controllore di passaggio si godeva il tempo fuori servizio lasciandosi trasportare dall’autocommiserazione. Notai che in quel momento per la prima volta non avevano nemici, e si divertivano a notare la totale incapacità degli altri di dosare la cattiveria. Loro ne sapevano qualcosa, involontariamente, erano tra i pochi abituati a conoscerla, la cattiveria. Tutti gli altri non ne avevano bisogno, alcuni addirittura ne dimenticavano a tratti l’esistenza per farsi cogliere del tutto impreparati alla prima occasione in cui avessero avuto bisogno di sfoderarne qualche manciata. Così dalle lingue arrotolate ne uscivano granelli da clessidra o tonnellate di liquami isterici da autobotti di cantiere, senza nessuna via di mezzo. I controllori da tramezzino questo lo sapevano, e lungo le panchine sovreccitate dalla folla rincorrevano le sillabe casuali della violenza incomprensibile degli altri.
Passammo tutti insieme un ottimo pomeriggio.

60 febbraio

Il sedile posteriore girava intorno a se stesso ruotando sull’asse delle mie spalle. Le radici di un godimento, una vorticosa debilitazione nelle meningi, si mescolavano al cranio traslucido delle nuove occasioni. Capitani invisibili lanciavano dritte tecniche feroci a conficcarsi nelle retine, in mezzo a chiasso di risa e velocità primordiali. A passo di valico la forcella del rabdomante guidava i pensieri distratti delle chiazze di colori. Unità di misura decimate dal conflitto d’attribuzione dei significati senza piombo di una serata sprecata dietro a rincorse infantili e minuti dispersi negli angoli smussati dell’ombra da marciapiede. Amplessi di vagabondi a tinteggiare le cornici del cielo in fetidi stordimenti profetici al sapore di naftalina e disgregazione. Coppie fradice di modeste vanità si rincorrevano sotto il brivido gelido degli pneumatici nei venticinque minuti di combattimento, dispersi tra le giostre casuali di una guerra di successione. Pochi ma buoni i sorsi di spirito, scornati, si intrappolavano lungo le caviglie ammorbidite dalla foschia dei viandanti. Vietato giocare a pallone con le mani insanguinate, parevano sussurrare le cinghie che ci stritolavano le caviglie della sera, entusiaste dalle loro circonvoluzioni forzate e irrefrenabili. Il mosaico delle mani pareva tenere il conto a pallottoliere delle vite sprecate dal mondo, cadute finalmente preda dei cacciatori di fantasmi. E c’era chi osservava, con l’adrenalina conficcata nelle sottocoppe di feltro di un tavolo incrostato a doppio malto. Tra i finestrini delle fronti appannate rimbalzavano gli odori delle basette fresche, il mentolo rarefatto dei dopobarba, allungati col passito e corolle di seta cucite intorno come madri compassionevoli. Per una nuova prima mossa, correvano flussi di casualità a riempire i margini vuoti e sconclusionati dell’entusiasmo prigioniero, che progettava l’evasione ticchettando le unghie rifinite sugli stemmi incisi ad alte temperature sulle brutte ghigne delle grate di scarico. Pacchi e pacchi da venti di teste di pesce si scagliavano di sotto dai terrazzi rimbalzando modi di dire, frasi lasciate a metà e risate viscerali, sputacchiando pezzetti di fegato e ghiandole surrenali dentro i calici di vetro accanto alla vetrata lussuosa dei lounge bar nelle piazze dell’antiquariato. Armonie in crisi d’identità sovraffollavano i centri di reclutamento e le caserme per l’impiego, e si scrollavano dalle spalle fino all’ultimo dei nostri personalissimi secondi di gloria. Del tutto non in vendita. A meno che l’offerta che non si può rifiutare non preveda un contrattino del tutto favorevole, una sistemazione vantaggiosa per tutti, non necessariamente legale, non si discute, un qualcosa di avvincente, uno stipendio fatto di caramelle e mozziconi bruciacchiati dal vento caldo del primo pomeriggio. Tu convincimi, caro amico, e poi dopo diventiamo sorelle d’amore e prostituzione minorile. Si sentiva in lontananza come l’eco di un cravattaro confuso che in preda al panico si fosse gambizzato le vene dell’interno coscia col suo stesso coltello incrostato di globuli epatici, cani randagi, che se lo trascinarono in un vicolo appartato e cominciarono a leccarlo dalla testa ai piedi, mentre lui schiamazzava per il solletico e reclamava progressismi interiori che ne rendessero sopportabile l’esistenza ravvicinata con se stesso. Ognuno se la godeva, a suo modo, e poi arrivarono i confessori, i ciarlatani porta a porta che correvano nudi sui marciapiedi intorno alla stazione per vendicare profeti massacrati centomila anni prima da camionisti distratti in preda a qualche famelico colpo di sonno. Le croci diventavano asterischi, i chiodi andavano verso la fine, e si correva ai grandi magazzini per riempirsi le tasche di nuovi sacchetti porta-chiodi da rubare sotto gli occhi della cassiera nevrastenica che ormai parla da sola, si chiede consigli, si ringrazia per le dritte al momento giusto, poi corre a casa a stritolare i bambini con cappi ben arrotolati di file di scontrini non battuti e chiavi inglesi trovate in mezzo agli ultimi scatoloni abbandonati nel magazzino. Poi tornammo tutti sulla strada giusta, nel quartiere che ci spettava, e corremmo a mandare i confessori in visita dai loro padri, avvinghiando viscere e chiodi in sovraccarichi ormonali di ustioni notturne. A noi piaceva, a loro faceva godere, e nell’orgasmo di un millisecondo, c’era chi osservava, chi si impiccava all’elastico delle banconote, chi ululava pietà e chi se ne leccava le mani distrattamente, altri si sporgevano dalla punta della lingua e si lasciavano vomitare sull’orlo d’una teca di vetro da acquario ricolma di binari vivi e treni in malattia. Nelle corsie del reparto si vedevano file di passaggi a livello in attesa spasmodica che un dottore qualsiasi, o anche un semplice millantatore a caso che se ne appropriasse dell’identità, li andasse a tranquillizzare sulle condizioni fisiche del loro caro amico, compagno di tante avventure. Così in preda al panico mi ci buttai io e cominciai a rasserenare le acque con orde di misticismo laido sull’importanza del loro livello, che mantenessero sia il livello che il passaggio, o magari anche solo il passaggio ma che il livello non superasse tot predefinito di decibel, che altrimenti avrebbero svegliato la discepola quindicenne dei confessori, e sarebbero stati nell’effettivo, guai per tutta quanta la baracca. Così loro mi dettero la mano, io le strinsi tutte una per una, divincolandomi in mezzo alle strutture cercando di salvarmi la testa dai traumi cranici in cui m’avrebbero abbracciato quelle loro sbarre altalenanti, che non riuscivano a trattenere dall’alzarsi e abbassarsi frenetico continuo. Mi tolsi la vestaglia lilla che spacciavo per camice e tornai nell’auto in corsa, saltando al volo dentro al finestrino chiuso del sedile posteriore. Un lampione s’intromise di colpo, spostandosi sulla carreggiata e intimando l’alt. Mi chiamò per nome, mi sussurrò le solite paroline sconce dritte nel cervello e mi convinse a scendere dal veicolo, strangolato nel cappuccio della felpa. Lo punii per quella sua stramaledetta classica impudenza, e passammo le successive otto ore a farci massaggi intimi e complimenti per lo stato di forma vicendevole. Qualche tempo dopo tornai in clinica per farlo abortire e mi intravide la quindicenne, così scappai e raggiunsi finalmente i miei amici in mezzo alla brughiera. Accendemmo un falò e mi cicatrizzai le ferite sul fuoco. Poi mi alzai e feci il bagno in un pozzo naturale che si era formato in un’insenatura carsica leggermente spaesata. Quella sua indecisione, tipica del turista disperso in mezzo a terre sconosciute, fatte di palazzoni e musi lunghi dal coltello facile, mi convinse a molestarla, così persi le successive diciannove ore nel tentativo di trovare una drogheria ancora aperta che mi vendesse un costume da lupo cattivo. Non la trovai e mi lasciai convincere a tornare verso il tepore domestico del mio sedile, fratello posteriore.

59 febbraio

Nel Maggio della prima periferia disegnavano linee dorate sui gradoni scomposti del centro storico. Capannelli con l’autorizzazione per il suolo pubblico si scambiavano segni di sussultorie esistenze ipotetiche. C’era chi osservava. Nel mezzo, fetore di cadaveri e vetri rotti, si concretizzava il mosaico silenzioso di uno scultore pirotecnico. Sensibilizzatori infranti lasciavano nuda la voglia inesauribile degli autocomunicatori, pronta a prendersi a testate con l’incapacità più assoluta di contegno e ricordanza. Avevo fame. Muscolature intiepidite salutavano zaino in spalla le vecchie croste sui lineamenti amici, e non c’era bisogno di controllare il cielo sulla testa per camminare dritti. Fusi orari scorrevano in biciclette arrugginite intorno ai passanti spaventati. Palpare non era ormai diverso dal respirare il cartone gelido delle pareti schiaffate sui palazzi. Ogni freddo era lasciava in bocca sapori diversi; dalle lamiere ai mattoni vandalizzati, persino i cani avevano un freddo più umidiccio e sovreccitato degli altri. Rapinatori invisibili di gradi centigradi scassavano le vetrine spremendo sottopelle il concerto degli antifurti. Premevano, appena all’interno, l’ultima superficie di carne secca verso l’esterno, lasciando tremiti di palpitazioni elettriche. Un foglio di carta, e c’era chi osservava. Il vetro dimenticato sul marciapiede contendeva il sonno del padrone, reclamando attenzioni dai guinzagli più agguerriti. Un rapido cenno di saluto al sapore di colesterolo riportava le planimetrie nell’ordine sparso di un segno verbale, senza cronologie consultabili in tempi ritrovati. Un accenno di colore, canaglie rivelate attanagliano il consueto alternarsi delle comparse. C’era chi osservava, destabilizzato. Tremava, dei vapori acidi di una gelida felicità al gusto d’ammoniaca. Le prospettive scoperchiavano i resti stropicciati delle pagine di Scuola, residui di antichi modelli, e cominciare significava smettere di chiedersi da dove cominciare. Faune scalpitanti di plastiche violacee tenute per mano da frasi di circostanza, prosciugavano i reni leccandone la punta affranta dalle circonvoluzioni del ventre. Dormire non era mai stato più nauseante e fascinoso. Finalmente liberi, scariche continue di occasioni future rimbalzavano contro il muro delle traiettorie costituite. Senza affanno, un cortocircuito silenzioso pendeva dal contagocce della flebo e risaliva fino a tamburellare con le nocche da dietro il timpano, bussando nervosamente sulla pelle di tamburo. Contingenti militari possedevano le carni e costruivano i girarrosti in rapida successione, come catene di montaggio a violentare le Sorelle. C’era chi osservava, e reclutava parenti da sottoporre a trapianto osseo. Famiglie di donne incinte partorivano dietro alla corteccia cerebrale, schiamazzando nel dolore di cocktail di liquore e placenta che filtravano via dai pori del cuoio capelluto, immobilizzando gli arti sul lettino del chirurgo. Camici amici tradivano, e se la ridevano tra loro nell’incoraggiarmi. Non avevo mai partorito prima di allora, e pensai fosse un modo per cavarmela, ingannare il tempo nel ritorno sulla via del caldo. Trapanai la punta metallica di uno schienale e mi ci infilai per i piedi, facendo attenzione a non rigare la scatola cranica. Subito dopo arrivò la notizia che il silenzio era tornato ad assillarmi coi suoi tondi occhi verdi. La follia di un pallino verde. Conficcato nei polmoni ricoperto di glassa a frammentazione. Ero rimasto invischiato, forse una trappola, una fodera di gesso stretta intorno agli occhi rimbuzzati dalle anfetamine di un solo, preciso, indirizzo stradale. Dal Profondo Stop del sistema immunitario, mi incatenava i polsi alla punta tiepida di una lingua meravigliosa.

58 febbraio

Vivevo conficcato nello stantuffo di un cancro alla moquette. Colate di specchi colorati rimbombavano immagini sbiadite nell’aria densa di fumo, a intervalli regolari di vulcani inattivi di legno e mostri di carta a fare la guardia, pronti a risvegliarsi da un momento all’altro. I millimetri dell’usufruibile si frazionavano con la violenza del parto subacqueo di uno storione in nuove indecifrate unità di misura, accaparrandosi solide provocazioni di plastiche ferrose, lamine multiforma multimateriale, lega di finto PET, accartocciate sotto forme diverse e diverse funzionalità, si proiettavano nelle pareti tappezzate a compensazione del midollo spinale mutilato. La loro esatta posizione, all’interno del polmone d’acciaio quattro per tre, era quasi sempre molto più importante della loro funzione o dell’uso specifico per cui erano state razionalizzate in qualche capannone a chilometri di zone industriali più distanti. L’armonia delle forme si reggeva ubriaca su un gioco d’equilibri e di scenografie, con la funzione d’un cartonato a grandezza naturale della propria partitura bidimensionale. Un modo come altri di schiaffarsi da soli olio su tela nell’Ottocento di civiltà sconosciute, coincidenze senza tempo capaci di dimostrare equazioni esatte di ciascun mattoncino di cartone, senza mai la voglia effettiva di tirar fuori tutta la cattiveria potenziale. Il campo di battaglia a mezz’altezza piegava la testa all’unica sostanza dell’abitacolo, il suo vincolo di mistica osservanza luminosa. Ogni riflesso aveva più concretezza delle pupille strangolate che se ne lasciavano impossessare, e ogni condomino, più o meno ammanicato col Consiglio d’Amministrazione, doveva rimettersi al comandamento. Ogni devianza, ogni perdizione che si lasciasse lascivamente trascinare dalle manie di solidità veniva annientata dalla moquette, impregnata di polvere nera e cenere dal profumo sabbioso, come forze di polizia pronte all’azione, come fosse il turno d’un Natale senza scrupoli nell’uso della violenza gratuita, feticisticamente intrecciate col rumore metallico del sangue rappreso, scivolava dalla testa del padrone lungo le fessure lasciate dal fumo. I liquami pendevano dal soffitto fino a stuzzicarmi le radici del collo in nugoli contraffatti di eritropoietina ricca di fibre e flore di fermenti in subbuglio, e ciò che vedevo bastava a nascondermi tutto il resto, con aria compiaciuta. Non si sentivano le differenze. La stanza era un silos di cattive intenzioni sciolte nell’alcol.

57 febbraio

Grosse attrici si infilano marmitte alla vaselina nella stilografica, nascoste dietro una grondaia. Resto a vedere sdraiato a prendere il sole sul tetto catramato della ciminiera in disuso. Passano le Sorelle col solito carrello della spesa pieno di taniche di plastica da riempire alla fontana municipale, e incendiano d’invidia le punte dello scappamento. Le attrici si sporcano di bruciature e si sfilano le parrucche di scena per solleticare le membrane ustionate con un altro pezzo di ghiaccio. Dall’altro lato della strada orde di sedicenni escono di scuola. Una ragazzina si avvicina a un pustoloso e gli fa pesare di essersi dimenticato di grattarle la schiena per quindici minuti tra la terza e la quarta ora. Lui tira fuori una vanga dall’abbecedario, si scava una fossa e ci spara dentro le carcasse dei genitori. La ragazzina lo distrae, prende per mano il testicolo sinistro e comincia a fissare la ciminiera. Vecchi guardiani protomorfi abbozzano movimenti circolari con le mani increspate dalle rughe e sputano chiazze di densa bava arancione dalle gengive. L’ora di geometria esce dalla finestra e conficca un goniometro nell’addome di un automobilista frettoloso per condirsi l’insalata. Il semaforo riprende vita e la ciminiera riempita dalla ragazzina mi comincia a gemere saliva sulla schiena fino a slegarmi la cintura. Nel frattempo sotto sfilano, nell’ordine, una carovana di negrieri nordamericani, i tre figli froci del capomafia cinese, uno sniffatore di naftalina col naso afflosciato sulla guancia destra, un prete col complesso di castrazione e il cappio d’un guinzaglio tatuato sotto l’ombelico, un tabaccaio che accompagna il registratore di cassa nella sala aborti, una coppia di giovani geometri che si misurano a vicenda con un compasso di plastica, una ventina di gnu fuori programma, tre bersagli mobili inseguiti da una banda di cacciatori olandesi, un cane che porta il padrone morto in bocca per regalarlo al tappeto nuovo di una famiglia di sorci, otto nani impilati uno su l’altro per un totale di un metro e cinquanta di pensionata col bastone, l’ombra di una guardia che se ne va da sola spiaccicata sui muri dopo aver preso a manganellate il legittimo proprietario. Sulla ciminiera, la ragazzina arrampicata apre la bocca e dentro si intravedono, nell’ordine, una voliera lasciata all’abbandono con sette condor boliviani e rispettive consorti, l’addetto alle pulizie dello spogliatoio della polisportiva, la salma di un direttore di gara pedofilo appesa a un cordino di nylon rivestito di peluche rosastro, un anziano ferroviere ritornato nel periodo del righello, reparti interi di feti abortiti dalla cocacola. Inizia il pomeriggio.

56 febbraio

Sassofonisti slavi sputavano nei clavicorni con la ferocia di cravattari sifilitici. Mi tenevano il fiato appiccicato al cavallo e se la ridevano sconquassando la segnaletica con larghi rondò andanti da spumeggiare addosso, sguardi di passanti, scavavano e furie di mentolo e piano bar a ricoprire. Quando mi distraevo, il passo mi si regolarizzava e loro smettevano di biascicarmi cattiverie nell’orecchio. Cammini come un albero che insegue i flussi migratori delle resine in mezzo a un deserto roccioso, amico, lo dico per te, e ridevano. Ehi amico, lo sapevi che quelle palle strane che c’hai sotto la coscia si possono anche articolare, mi sembri un centauro paraplegico che si cerca le goccine per dormire in fondo alle tasche della pelliccia e si scopre le caviglie, e ridevano, intermezzando a turno con stacchetti musicali. Gente, piano con sti cazzo di cornivendoli che non sento bene la vergogna dietro ai timpani, e ridevano. Guarda, ti insegno un trucco, fai finta di sentire sulla testa il peso del mondo, come se il cielo ti schiacciasse per terra, e vedrai che ti verrà fuori una camminata più spontanea lungo sti marciapiedi ostili, e gli altri lo chiamavano frocio, così ricominciava, sempre con quel suo accento slavo da gatto randagio. Ehi amico, ma ci sei diventato da solo così o c’hai la madre di bricolage?, e ridevano. Uno di loro si sfilò la grossa custodia rigida che teneva a tracolla e tirò fuori un sussidiario medico, da cui estrapolò la ricetta del pollo alla naftalina, e si convinse intimamente dell’argomento. Ehi carogna, lo sai come si fa il pollo alla naftalina? Si prende uno stronzo figlio di un cane che cammina come una stramaledetta quercia secolare irrancidita, con un piccolo falcetto da conciatori gli si staccano le palle di netto, per non incattivire il sapore della carne. Si scuoia e si butta rosmarino quanto basta dentro le pupille dissanguate e con una cannuccia infilata nel buco del culo si soffia dentro la naftalina fino a riempire tutto l’intestino. Volendo si può aggiungere del bianco frizzante o dello spumante secco sulla pelle scoperta per insaporire, poi con la stessa cannuccia, una volta passato al girarrosto, si soffia dentro burro d’arachidi o passato di pomodoro, cosicché la naftalina possa risalire nelle viscere fino a riempire il cervello. Un paio di patate di contorno e sei fatto. Lo stacchetto venne interrotto prima del previsto da una casalinga di passaggio che malmenò il sassofonista con un coltello, si fotté il sussidiario e scappò via ammonendo gli altri, ragazzi però mi raccomando, non vi fate ingannare dai lampioni, viene freddo stanotte, fateci caso. E ridevano. Davanti alla sala prove dell’orchestra sinfonica mi presero per un braccio, mi infilarono un sughero in bocca e una sigaretta nelle mutande. Lo sai, caro, vieni sempre a girovagare da queste parti ma questa è zona nostra. Una volta un tipo più simpatico di te venne a importunarci all’angolo della drogheria. -Non potete sputare così in quei clavicorni, maledetti viscidi- diceva, e bestemmiava come il portiere di notte del bordello delle asiatiche. Gli feci cenno di avvicinarsi e gli sputai in gola. Lui si bagnò di sperma senza nemmeno togliersi i vestiti, continuando a bestemmiare ma con un tono di voce più coinvolto. Lo incatenammo a un palo della luce con un santino gigante appeso al collo, e ce lo lasciammo tre settimane, fino alla sera dello spettacolo. L’andammo a recuperare trascinandolo per i piedi fino sul palco, davanti al pubblico delle grandi occasioni gli risputai in gola, e altro sperma si mescolò alle croste maleodoranti di quello vecchio, liberando applausi e gran chiasso dalle ultime file del pubblico. Da quel giorno mi lava il cesso strusciando il culo per terra come i cani. Stai attento a dove passeggi, rischi d’innamorarti, amico. E ridevano, masturbandosi a vicenda seduti in terra con le gambe incrociate, come raccolti intorno al caldo focolare delle Vecchie Storie. Tolsi il sughero, lo infilai nel corno più vicino e mi sputai in gola da solo. Andai fino alla drogheria per cambiarmi le mutande, mentre loro mi inseguivano a passo di bassotuba col santino di sartoria già perfezionato per adattarsi al collo dello straniero. Cambiai semaforo, col peso del cielo che mi schiacciava per terra, e ripresi a camminare dritto.

55 febbraio

Vetrine umide, condensa di mani umidicce di bambino sui muri traslucidi, Pazienza termina e scuote roccaforti sommerse e fabbriche di bollicine. Tonni di cartongesso annusano l’alito ai passanti, parentesi quadre galleggiano sul pelo dell’acqua come kayak ammosciati nel gin. Stormi di vecchie carampane brancolano vedove tra gli addetti della vigilanza, incattivite da pere d’ammorbidente ruminano, bestemmiano, in faccia al Futuro e alla sagoma ingiallita di un colonnello della marina, amante dei piedi e della nafta sotto la lingua. Autocisterne d’alluminio svuotano mangime e carcasse di selvaggina, che si sciolgono in ustioni di terzo grado dentro le vasche acide. Un tossicomane della seconda media fischietta il motivetto da piano bar della filodiffusione in bocca all’accendino, e si chiede quanto tempo gli sia sfuggito da qui alla navigazione. Martelli e seghetti penzolano dalle narici incrostate d’alghe sott’olio dei manichini più stravaganti, davanti alla vetrina, due suore inorridite dai possibili riferimenti espliciti delle loro giravolte fantasiose. Come d’incanto appare la fatina dei denti, e uno squalo toglie il chiavistello dall’oblò per andarsene con la ventiquattrore e il sorrisetto all’ingiù di un grosso fuoristrada. In una delle casette galleggianti, una delle famiglie tropicali piange la dipartita dello sciamano-pesce, che s’era spiegato finalmente la ragione del vino bianco, al posto della solita acqua sporca della vasca, e del lontano fetore di fritto; non aveva retto il colpo e s’era portato il segreto con sé, dentro lo scarico, nello sgomento generale degli apostoli. Una donna sulla cinquantina si è arrampicata sul tetto e ha cominciato a pisciare sul lucernario; i riflessi di luce acquistano nuove e irriverenti tonalità giallognole, ammorbidendo la distanza dell’orizzonte, tra la sabbiolina del fondale e il rombo torbido della pompa dell’acqua. Una coppia d’orate lesbiche staccano una lisca da un merluzzo di transito e si cercano le vene sotto le squame cianotiche. Il pesce rosso spennella un cartello di protesta per farsi cambiare sistemazione, dato che la boccia ormai non attira più nessuno, e dove un tempo giravano vita e locali notturni adesso si spegnevano in coro alle sette di sera i negozi di vestiti e le profumerie da sogliole figlie di papà con la frangia conficcata nella borsetta. I tonni di cartongesso hanno cominciato a tirare il mangime addosso alla comitiva dei bambini sotto contratto con la maestra, e mangiano popcorn inzuppati nella chiazza di sangue di un delfino passato al turno di notte. Per fortuna mi sporgo sul parapetto del lavandino e faccio amicizia con un paio di vongole di quelle giuste, che mi portano una coppetta e un tubetto vuoto di dentifricio per l’ossigeno, e mi spiegano la situazione.

54 febbraio

Sputi di cloroformio nel polso dolente. Macchie di sole in fila alle tabaccherie per reclamare l’ora d’aria e cambiarsi i pantaloni. La lama dell’apribottiglie penzola distratta sulle gengive con movenze da uccello della brughiera. Rantoli di bile a scuotere intestini sovreccitati da missioni disperate. La carta intestata col rosa delle multe alle auto in sosta ostruisce le obliteratrici della stazione, e sfavillano puntini rossi e lampeggi di allarmi confusi tra i binari. Fregole nervose sperse nella goduria di rifiuti dispersi nell’ambiente. Sassi pesanti rimbalzano sotto le caviglie. Tisane allucinogene da venti centesimi al grammo spintonano d’arroganza il mercato dei contraccettivi in braccio a checche quindicenni con la tessera fedeltà dell’accademia allievi. Ponti levatoi senza porte né infissi abbracciano il castello di mattoni di bigiotteria della Psiconautica Militare. Le grosse lettere cattive dello stemma veleggiano spensierate nelle mutande delle palpebre, e non resta che scuoiargli addosso mozziconi vivi. Gomitoli interi di filo logico sprecato nella bava incandescente dei ratti randagi, invocano semidivinità sconosciute chiamandole con soprannomi di vecchie ganghe da bar. L’alito delle preghiere appanna i finestrini, e le manovelle incastrate nei lacci delle cinture volteggiano al contrario come sperma di pedofilo nello scarico di un cesso sudafricano. Voglie insoddisfatte si rinchiudono nel privilegiato godimento di una scarica irraggiungibile, con la ghigna del naufrago in un’isola deserta, mille scatoloni di travestiti gonfiabili che salutano le rondini. L’alternativa insegue le traiettorie della marcia da parati, come una donna fascinosa rimasta zitella che si lancia disperata alla ricerca di tutti i giovani arrapati un tempo rifiutati, prendendosi in testa lapidi di marmo incise di tempus fugit e bicchierini di plastica incrostati di caffè e liquori secchi alla papaya fermentata. Dai lampioni argentati pendono grappoli di raspi dalle coscienze disinibite degli allievi-maresciallo, mentre grossi piedi senza testa risucchiano tutto nell’imbuto conficcato in gola dalla tracheotomia della prima mattina di insonnia. Merda di Jack Russell, il Nano della TV, zampetta su sé stessa sbranando il guinzaglio del marciapiede, e ogni quindici chilometri passa una cameriera a versare per terra scatolette di stuzzicadenti usati per strozzare il cane col suo stesso rumorino fastidioso di ossa stritolate nel fegato. Una bambina in pensione riempie palloncini colorati col gas dell’accendino e si scioglie in grosse bestemmie nel vederli incapaci di volare via, suscitando l’ilarità delle numerose bande di mariti armati che passeggiano distribuendo mazze nodose e cornucopie di biscotti avvolti in farina di castagne. Manuali d’istruzioni avviano i passanti allo studio delle lingue antiche, sotto gli sguardi severi dei cassonetti. Carte di credito buttate in gola ai metropolitani si strusciano gli occhi a mezz’asta sul velluto delle tasche, riempiendo l’aria di odore di chiuso e gridolini scomposti dalla frenesia erogena. Ventitreenni antropomorfe migrano stampe digitali di nostalgia al profumo di rugiada dagli atelier di grossi pittori eunuchi della Bassa Continentale, richiedendo indietro i bei cazzi andati laddove la moda opaca lasciava perdite di incontinenza lungo i pavimenti moquettati, come bava vomitata da ghiandole urlanti d’una lumaca impazzita, mentre agli indiani restavano sottoscala pieni di cartelloni pubblicitari, con le mandibole spaccate delle giovani esploratrici esclamative. Messi comunali si arrampicano sugli enormi scalei, con pennelli incollati e secchi di targhe immatricolate da inchiodare sulle cornici delle loro avventure all’estero, piangendo striscioline di vomito violaceo dai contorni umidi dell’opale graffiato dietro agli occhi. Cappotti verdognoli riempiti di affaristi metrosessuali scuotono le tasche piene di tasti numerati, frantumi di calcolatrici come maracas cangianti venute dalla campagne a riempire le città-noia di funzionari e dipendenti. Prenditela calma, dicevano parlando con le vetrine dei concessionari, le esche vive, prenditela calma e fammi un resocontino veloce per i fornitori, che poi domani ti spiego. Un attimo che qui si muovono tutte, ‘ste cazzo di esche, ne compro dieci per lubrificare l’asilo di quel parassita di Metronal Jr. Comunque capito, una robina veloce, che sai come son fatti loro, il feticismo è il modo usa e getta di scontare il peso d’essersi fatti nascere, c’han sempre la paraffina nelle narici e talvolta perdono sangue dai frigoriferi da quanto mi cercano. La Madonna sulla due, correre.

53 febbraio

Mi asciugai le chiazze di bava bianca ai bordi della bocca strusciandomi sulla grattugia del marciapiede. L’elegante chauffeur privato m’aveva scatarrato fuori dalla bara di famiglia, un lungo sarcofago nero a rumore, non appena uscito dalla zona di sua giurisdizione, e stavolta di nuovo mi toccava farmela a piedi fino alla stanza. Ritirai la mano nella tasca del cappotto e presi a massaggiare il sasso. Lo stringevo tra le punte arrotondate del pollice e dell’indice, mentre col terzo dito compievo ritmici movimenti ondulatori sulla superficie liscia e biancastra. Infilai dentro al primo bar sulla destra con la stessa naturalezza spontanea con cui si ritirano su i pantaloni dopo aver intasato la tazza del cesso. Lo portai al tavolo all’angolo dello spazioso locale in stile moderno del quartiere bene della cittadina, cosparso di bianchissimi rosari al neon che rimpallavano impazziti sulla carta da parati rosa argentata, aggrappata al muro nel mezzo a ingombranti specchi inchiodati a casaccio lungo l’intero labirinto delle pareti. Sprofondai nell’imbottitura della panca e reclamai da bere. Mi divertivo a farlo arrabbiare roteandolo confusamente sul piano del tavolo, grondante vecchi strati di birra appiccicosa che gli si incrostavano addosso otturandone la dura pelle porosa. Lo guardavo mentre senza riuscirci cercava dentro di sé uno strillo da potermi conficcare in fronte; sorridevo e mi ripagavo d’ogni sforzo, nascosto dietro all’odio tenero che tentava in tutti i modi di sputarmi sulle mani, in improbabili tiri al bersaglio che mi facevano uccidere dal ridere. Intorno, frangette allineate scomode di disinvolte quindicenni a ultrasuoni spiccavano dagli alti sgabelli d’alluminio, riflessi dorati di ciuffi biondi sprecati nelle macchie di fango del pavimento, gelide maniglie penzolanti facevano da ornamento agli sbalzi di volume delle conversazioni. Sottili manici di penne stilo tentavano la sorte gettandosi nel vuoto dalla tasca del grembiule che ricopriva la mise da discomusic del giovane barista. Orchestre sinfoniche evacuavano sfregamenti di suole a ritmo sostenuto sul tappetino dell’ingresso, mentre appassiti inservienti di leva infilavano e sfilavano senza tregua lo stipendio dai portaombrelli, spiaccicandosi sorrisetti compiaciuti sul volto lapidario. Sbornie vergognose si nascondevano in tragiche sottolineature rosse sotto gli occhi schizofrenici del pubblico più contenuto, liberando nell’aria vorticosi avanzi di frasi sconnesse che si mescolavano ai cappotti e alle pelliccette spruzzate di fucsia in disorientanti, equilibrate, armonie. Una lunga tavolata di una decina di piante carnivore lanciava occhiatacce in cagnesco ai giovanotti ben integrati nella seconda stanza. Il maschio alfa era un trentenne sbarbato con un occhio gonfio di birra appoggiato sulla lunga mascella affilata, svaccato sulla schiena d’un ragazzotto stondato coi ricci castani, mentre il più magrolino di loro, esile figurina ebraica con file prominenti di denti da squalo tenuti in bella mostra e due baffetti neri pieni di schiuma e briciole, fischiettava sermoni che non facevano ridere nessuno. Abbracciato al sasso, mi godevo silenziosamente uno di quei posti in cui non si può star da soli nemmeno rinchiudendosi dentro le vertebre della propria fronte, uno di quei posti di cui si sentiva parlare da certi tizi spericolati che frequentavano le altre stanze. Mi avevano parlato di grosse teche di vetro opaco sulle cui pareti venivano riflesse le ombre cinesi di spogliarelliste sedute su raffinati cessi di cristallo, testimoniando il brivido di quella sottile linea di piscio che si riusciva a intravedere. Giravano voci che i tavoli fossero gabbie traslucide di grossi cobra in combattimento tra di loro, che li si potesse osservare mentre si inghiottivano per intero a vicenda e che ci fossero anche apposite griglie perforate per raccogliere sangue, veleno e squame dei serpenti, da aggiungere all’alcol per correggere gli aperitivi. Un tale mi parlò di una cameriera che scorrazzava nuda per il locale con un grosso cartello appeso al collo, con su annotato un registro dettagliato di tutto ciò che aveva tenuto in bocca nei suoi intensi sedici anni, anche se le aspettative più comuni erano rivolte a quelle sedute collettive di vivisezione dal vivo di seni umani sorteggiati tra il pubblico. Forse in particolare per quella delusione fummo subito inquadrati da altri due con tutti i crismi del novizio, in divisa da giovane coppia di adolescenti vagabondi, ripiegarono le labbra sul vetro caldo dei grossi calici e giusto per osservanza religiosa verso il locandiere vennero a sedersi con noi. La ragazza aveva l’aria silenziosa e pareva volercisi appostare in attesa di sedurre il prossimo con la malignità della sua risata cavernosa. Il ragazzo emetteva grugniti da paramilitare da una bocca slabbrata da overdose di grasso e coltelli. Il suo commento mi sbalordì: Una cameriera un giorno mi rivelò che nel linguaggio dei sordi l’attività del ‘lavorare’ si traduce con un gesto molto simile a quello universalmente noto come simbolo del buttanculo. Occhio a scopare con le sorde, che poi ti risvegli sotto contratto. Rimasi a interrogarmi dentro gli occhi della ragazza, mentre quello si trangugiava una birretta squallida quasi quanto le sue squallide pupille, spente come i fanali d’un vecchio motorino spazzato via da un treno deragliato. Mi accorsi solo dopo che quella ragazza era molto più di quanto mi entrasse nella testa e che riuscivo a contenerla soltanto sotto le attenzioni della lingua. Teneva una mano infilata nella tasca del paramilitare e una nella mia, e doveva aver ritenuto non fosse ancora il momento di mettermi finalmente a parte delle sue capacità. Aprii la bocca del sasso a forza e chiesi di rispondere: “Tempo fa conobbi una ragazzina sorda. Dalla faccia non le davo più di tredici anni e aveva trasformato la camera da letto della nonna morta da poco nella sua sala giochi personale. Passava il tempo costruendo e disfacendo casette di plastica di mattoncini componibili. Nella più grande delle casette aveva ricomposto la struttura esatta di casa sua, e nella stanza della nonna di lego morta aveva piazzato una mia controfigura legata alla rete del letto e imbavagliata. Tutt’intorno, dalle pareti pendevano lunghe picche di ferro battuto, fionde avvelenate, freccette con la punta arrotondata svitata, cinture sfibrate con fibbie a entrambi i lati del cuoio, statuette indiane in ceramica, gomitoli interi di corde logore da pianoforte, un paio di attizzatoi per carboni ardenti, arpioni slegati dalla collezione di fiocine del vecchio padre, borracce in alluminio piene del sangue che si era prelevata e thermos ancora caldi, scatole intere di lime per le unghie, tagliasigari, pomate e forbicine, lame svitate dai temperini rubati, resistenze da forno a incandescenza rapida, piccole betoniere piene di lacrime e peluches in continuo movimento, set di fialette piene di sudore e rispettive siringhe, tavolette del cesso colorate a pastello, aeroplanini di carta arrotolati sulle pagine del corano, collane di perle incrostate d’escrementi, termometri incrinati da cui spuntavano goccioline di mercurio come rugiada sulla punta di un cazzo orientale, pezzi di ringhiera con carcasse di cani ancora legati al guinzaglio, martelli pneumatici a forma di vibratore, candele nere a forma di piede di porco, formine da torta a forma di formine da torta rotte, chiavi inglesi infilate in toppe spagnole, spirali da cavatappi infilate alla meglio in una piccola piazza di materasso disteso sul pavimento sotto grossi paioli di saliva bollente lasciati penzolare a mezz’aria dalle funi inchiodate al soffitto. Ogni volta che la bambina entrava nella sala giochi, mi slegava una mano, cominciava a gattonare nuda intorno al letto chiedendomi a ripetizione senza mai zittirsi come mi trovassi a lavorare con lei e aspettandosi in cambio punizioni sempre più rigide e fantasiose”. Niente male, la nonna mi ricorda lo spacciatore di borocillina dello stadio, mi fece lui, solo non vorrei che poi la bambina di lego cominciasse a sua volta a giocare coi mattoncini mentre la sodomizzi. Alla fine le stanze sarebbero troppo piccole per infilarci il cazzo. Gli riconobbi col capo un segno d’intesa col resto di mancia, andai a pisciare gli altri spiccioli e in breve tempo l’effetto della confusione lasciò il posto a qualche fitta militare, un cesso di cristallo e qualche applauso.

52 febbraio

Una grassa balia messicana spalancò la zanzariera nuova del baldacchino rosso bordeaux, incorniciato di listelli di plastica dorata e vistose crepature ficcate intorno alle inchiodature nel legno. Portava la colazione al piccolo rampollo prima della cavalcata mattutina. Schioccai la nuca e fecero il loro ingresso tre tenori in tenuta da dame di cortesia, che presero la balia di peso e la cosparsero di cenere e sanguisughe al riparo del nascondiglio ricavato da un logoro separé macchiato di flaccido. Svogliato pesticciai le ciabatte di velluto, scaraventai dietro al separé pure la vestaglia sudaticcia e cercai di riprendermi dalla nottata febbricitante scorrazzando nudo tra le argenterie luccicanti dei corridoi. Incrociai il caponegro, che svelto corse a tirar fuori dalla cassaforte il guanto di velluto bianco delle grandi occasioni e iniziò il suo lavoro, mentre ancora in piedi appoggiato al muro mi interrogavo sul significato della filosofia. Una bella scarica di prima mattina ci vuole sempre. Lasciai che ripulisse il guanto e le macchie che annebbiavano le sfumature cangianti degli intricati intrecci del tappeto persiano. Non sopportavo le volte in cui succedeva, e avevo lasciato precise disposizioni che ogni singolo episodio della grande battaglia ricamata sul tessuto fosse sempre chiara e ben visibile, nonostante le incrostature giallognole che sciaguratamente non riuscivo a risparmiargli. Si sentiva sotto le unghie, poter riconoscere ogni qual volta lo desiderassi la mia indiscutibile epifania, stesa a medaglia nella tasca di tutte le luccicanti armature di ferro lucido, sbattute sul petto irrigidito dei vigorosi eroi del passato. Mi portai nella sala della lettura, e in mezzo agli scaffali della biblioteca rinvenni la soffocante figura di mia madre. Lo scorrere degli anni e dei liquidi organici del padrone di casa l’aveva ridimensionata alla squallida controfigura della sua stessa nausea, incarnata in vesti sformate e perdite di piscio. L’odore della sua incontinenza mi graffiava in profondità dietro gli occhi con vampate acide da roditore. Le era pure spuntata una grossa coda rosastra da ratto, che le si notava chiaramente nonostante si sforzasse continuamente di mascherarla con grossi fiocchi ornamentali alla vestaglia, o più spesso annodandosela in vita o tenendosela attorcigliata intorno a una delle sue gambe sformate dalle giornate sedentarie. Mi prese per mano e mi trascinò verso le stanze superiori, il suo terreno di caccia personale, per la cavalcata mattutina. Era quello da molto tempo ormai l’obbligo raccapricciante servito a contratto sotto la firma estorta di quella vita nel lusso. Lo stordimento dovuto alle dosi massicce di sonniferi e tranquillanti le aveva inchiodato nella testa che per strane ragioni costituzionali, in fin dei conti, le mie lacrime nascondevano eiaculazioni interiori inconfessate e inconfessabili, ma supreme. Io più semplicemente non ci facevo più caso, e mi prestavo annoiato alla sindrome del missionario che sembrava coinvolgerla così appassionatamente, come fossi io stesso l’unico individuo al mondo da salvare dalle proprie repressioni psicofisiche. Caritatevole, così tenera e apprensiva a preoccuparsi di me. Mi ripugnava. Mi legò uno spago di cuoio nero intorno ai testicoli, si sfilò una spilla da balia che teneva conficcata tra la carne della punta coda e l’ombelico e mi arpionò un lembo di pelle della palpebra destra per costringerla sullo zigomo. Estrasse una seconda spilla da balia, che non avevo idea di dove avesse conservato ma che sembrava maleodorare ancora più intensamente dell’altra, e ripeté la stessa pratica dall’altra parte. Con le mani rugose e sudaticce mi sfilò le ciabatte dai piedi, dato che erano l’unico indumento che avessi ancora addosso, e cominciò a sbattermi la coda su una coscia mentre con le dita cominciava a massaggiare le caviglie, conficcandomi le dure unghie rinsecchite in profondità fino alle cartilagini ormai prive di sensibilità a ritmo di severe strattonate di spago. Si rialzò scrocchiandosi le ossa consunte, e guinzaglio alla mano mi trascinò nella sala degli ospiti, una grossa sala polverosa che si avviluppava intorno a spirali di odori paranoici, rossori alcolici, rumori di persiane chiuse e colori spenti nelle miserabili tonalità di grigio che riuscivano a filtrare dalle incrinature delle finestre perennemente sprangate. A guidarla nella penombra, solo la luce di una torcia ricavata incendiando uno stoppino, imbevuto di benzina e attorcigliato a un grosso vibratore a manovella di legno e ferro arrugginito rubato tra gli scarti d’una collezione privata. La torcia, e il suo sporco sesto senso da bestia notturna. Al centro del locale, arredato in stile famigliola classe media della Polonia primonovecentesca, una grande vasca da bagno colma fino all’orlo trasudava stoffe insanguinate e clisteri galleggianti lasciati all’ammollo, nel disprezzo della mobilia circostante. Mi strappò via dai candelabri d’ottone a sette braccia e dalla patetica carta da parati scrostata dell’ingresso, con una tale violenza che per poco non mi sradicò di netto la fertilità; una volta raggiuntala dentro la vasca ebbe addirittura l’ardire di scusarsi, sussurrando parole senza senso, come se ne sputavano altre in faccia agli sfortunati neonati che in chissà quale infimo ospedale di periferia, s’erano ritrovati in quel momento a stringere la mano alla luce del neon per la prima volta. Il liquido stantio, esondato a litri al nostro ingresso, aveva riconquistato sul pavimento tutto l’antico fetore di piscio, sudore e vomito sanguinolento. Si abbassò verso i peli del pelo dell’acqua, con una mano nascosta negli abissi che mi accarezzava il sedere, e coi suoi osceni incisivi da topo in bella mostra risucchiò le macchie di sperma ingiallito che galleggiavano senza vita nella vasca. Con un rumoroso gargarismo inghiottì, e prese a leccarmi la faccia, fin sopra i capelli. Allargò le gambe e defecò dentro la vasca, invitandomi a fare altrettanto e cercando di stimolarmi con due dita infilate nell’ano. Massaggiava con l’altra mano lo stomaco e il basso ventre, con movimenti rotatori che si facevano più pressanti quando andavano dall’alto verso il basso. Impotente, mi sforzai e la feci contenta. Afferrò orgogliosamente i due nuovi ospiti galleggianti, uscì per avvicinarsi al grosso tavolo da lavoro e con un cucchiaio ne versò un po’ di ognuna in ciascuno dei sette piccoli calici di uno dei candelabri. Raccolse altrettante piccole candele e le accese conficcandole negli escrementi. Radunò poi gli avanzi, e li mise a scaldare in un pentolino insieme a dei rimasugli di brodo avanzati dalla colazione di chissà quanti giorni prima. Riempì di caffè e di assorbenti tagliuzzati le due piccole tazzine di vetro, e controllò che trangugiassi la mia razione senza fare domande poco opportune. I testicoli strangolati mi si erano gonfiati come due rossi copertoni pulsanti sotto lo sguardo diligente d’una vigilessa obesa, chiamata a dirigerne il traffico delle semenze affaticate. Nascosi sotto la lingua quanti più coriandoli insanguinati mi riuscisse di trattenere per non soffocare, e non appena se ne rese conto, appesantì la tensione dello spago, stringendo ancora di più il cappio sui testicoli, mi afferrò la testa e se la scaraventò sui peli pubici crespi e rossicci. Il puzzo fetido di fogna mi si avvinghiò fino al midollo spinale, e caddi svenuto, stordito fin nell’identità. Mi risvegliai di soprassalto pochi istanti dopo, soffocato. La testa immersa nel piscio e nei fragorosi gorgoglii che sbattevano di qua e di là sui bordi, la bestia fossile sopra di me, tenendomi schiacciato sul fondo della vasca, mi imprecava contro violentemente di vomitargli in corpo. Sapeva perfettamente che per come mi stringeva con lo spago non sarei stato capace di accontentarla, e in quell’agonia si ritagliava buona parte di tutto il suo godimento. Di colpo spostò il peso di lato urtando la vasca con una pesante spallata, e ci ribaltammo entrambi mentre tutto il liquido acido si dimenava a impregnare il tappeto lungo tutta la stanza. Mi sfilò una delle spille da balia dalle palpebre, avvicinò il mento ai coglioni e li trafisse con la punta del chiodo, riempiendosi la bocca col sottile getto persistente di sperma e sangue che fuoriusciva dalla spaventata sacca pulsante d’acido, lancinandomi i fianchi di dolore assoluto. Finalmente soddisfatta, accorse al pentolino ormai in ebollizione, dette una mescolata all’intruglio e mi lanciò una scodella, che mi riempì insieme alla sua, per la seconda colazione, di metà mattinata. Mi dette un bacio sulla fronte, grattandosi le orecchie pustolose, slegò lo spago e mi indirizzò a sculacciate verso le pantofole. Lungo le scalinate di marmo ripensai per un attimo che stare da mia madre mi veniva comodo, mi piaceva l’idea di non dovermi occupare personalmente di tutte le faccende di casa, a costo di rimetterci in intimità. Mi accesi un mozzicone avanzato e andai in giardino a perdere il tempo prima del combattimento, ripulendomi la bocca a champagne.

51 febbraio

Ossigeno rotto di collo, sabbia incrostata fin sulle radici dell’ugola. Argilla fusa gocciola sulle labbra screpolate, le palpebre inaridite si infrangono in mille pezzi nel tentativo di aprirsi. Una grossa zebra impaurita dal rumore di cocci si allontana in gran fretta con la lingua ancora srotolata sulla mascella. L’impugnatura di una carcassa nuda di carne essiccata mi si avviluppa lungo il polso, e si contorce in dolori intramuscolari. D’intorno, il piatto vuoto dell’orizzonte s’impicca con le ultime energie al manto ipocalorico del cielo violaceo. Per pietà gli tiro addosso una merendina, diventata un tutt’uno con la sua confezione di plastica liquefatta. Lo scossone mi scaccia di dosso il manto di sabbia e terra carbonizzata, liberando lo strato abbronzato di frastagliate insenature e spigolature pungenti di affilata roccia carsica. Raggrumo tutti i sassi del corpo, rimontandoli assieme distrattamente, mi rannicchio sulle gambe durissime e comincio a scavare una buca davanti a me, violentando l’equilibrio della desolazione completa. Un profondo cono rovesciato nascosto in mezzo al sole del deserto. Con le dita rocciose non faccio molta fatica a cavarmi l’occhio destro dalla grotta oculare in cui se ne stava riposto, così ancora insopportabilmente acquoso e umidiccio. Lo faccio rotolare con cura nella polvere, per poi rovinarlo in centinaia di sottilissime fettine azzurrognole macchiate di sangue. Una accanto all’altra, le dispongo a mosaico sopra un intricato telaio composto da un reticolo di pietruzze simili a dita dei piedi, e dispongo il fragile coperchio sopra la buca appena ultimata. Un pizzico leggero di granelli di sabbia a ricoprire il tutto, facendo attenzione a lasciare qualche piccolo stralcio di retina come indizio. Finalmente soddisfatto da qualcosa, mi allontano per vedere l’effetto che avrebbe avuto sul primo ignaro avventore, che avvicinandosi incuriosito dai bizzarri luccichii si sarebbe sfracellato la caviglia nel vertice irregolare del grosso cono. Dopo quelle che dovevano essere tre o quattro ore d’attesa, non si fa vivo nessuno. Comincio a girovagare nella strisciolina di terreno che componeva il diametro di un cerchio immaginario tracciato a qualche centinaio di metri dalla buca, nella disperata ricerca di un cespuglio, un albero, un sasso più grande di me, un nascondiglio qualsiasi dietro cui appostarmi. Ma non c’era assolutamente un cazzo di niente. Mi accovaccio tenace lungo le disposizioni orografiche del culo violato dalla schiena, vicino all’unico amico che mi riesco a trovare, un piccolo sasso rotondo dalla superficie biancastra e porosa. Con tutta la complicità che ha in corpo, quello mi avverte di stare attento alla buca cilindrica che ha innescato qualche metro alla mia sinistra. Mi dice che da quelle parti non c’è molto da fare e che ognuno dei sassi s’è messo da parte almeno una decina di buche da tenere d’occhio; entriamo in simpatia e aggiunge che prima lui era il figlioccio illegittimo di un trafficante di coltelli e di una giovane ragazzina svedese che un gruppetto di cinque petrolieri omosessuali si erano trascinati dietro fin dalla vecchia residenza estiva nel loro viaggio in sidecar, alla ricerca di nuovi mercati neri dove scambiare gioielli e fare affari con qualche teppista locale. In una catapecchia avevano incontrato un vecchio sordo che si unì a loro con la promessa di guidarli fino al capozona del posto. Lungo la strada avevano trovato uno dei sicari che lavorava per il capozona, il quale si innamorò di uno dei petrolieri e convinse tutti gli altri a fermarsi da lui. Una di quelle sere di tempeste di sabbie ormonali, la ragazzina sgattaiolò fuori da una porticina che dalla lurida cucina del sicario portava ad una tremolante scalinata metallica. Inforcò i gradini presa dalla curiosità e in mezzo alle colonie di ratti idrofobi trovò una cantina sommersa per metà dalla ghiaia, da cui spuntavano la testa e le mani, incatenate al grosso tubo dello scarico, della giovane moglie del sicario. Lui aveva cominciato a ripudiare le donne da quando aveva scoperto che per una qualche malformazione congenita la moglie soffriva di una crisi particolare che la obbligava a spruzzare una volta al mese centinaia e centinaia di ovetti infertili, quasi come si impossessasse ciclicamente delle gonadi d’uno storione gigantesco e partorisse puntualmente ogni mese tonnellate di durissimo caviale inutile. Con le piccole manine la ragazzina cominciò a scavare in mezzo alla ghiaia, e riuscì a liberare le braccia consunte e mezze putrefatte della donna, che ormai s’erano rinsecchite e rammollite sufficientemente da permetterle di divincolarsi dalle catene. Le promise di riaccompagnarla a casa, così ne conobbe il padre, il trafficante di coltelli, e se ne innamorò. Sciaguratamente il trafficante aveva fatto voto di misoginia con rituale sacro durante l’iniziazione all’harem dei trafficanti, e non potendola riconoscere la imbarcò su una carovana di negrieri, che una volta accortisi della gravidanza avevano gettato dalla carrozza in corsa il piccolo feto deforme in pasto ai licaoni. Così, nel tempo, era cresciuto il mio amico, adattandosi al territorio e costruendo buche, sempre più articolate e originali, divertendosi ad aspettare le vittime. Deve essere proprio quella tenacia a incuriosirmi così tanto. Abbagliato da grossi spasmi di fascino, rotolo accanto al racconta-storie e cerco di leccarlo con una delle estremità di pietra. Da molto tempo non lo faccio, così nelle mutande ritrovo una moneta lituana rimasta lì dall’incontro con il primo frammento della storia nascosta dell’incantatore. Appena la vede gli si accende qualcosa sotto la fronte levigata, come stuzzicato da strani ricordi congeniti, ma l’unica cosa che sono in grado di comprendere è che adesso si fida pienamente di me, per qualche ragione incomprensibile. Si avvicina e dalle rugosità porose lascia fuoriuscire una tiepida schiuma lattiginosa. Nel deserto ho scoperto perché si decide di diventare sassi.