Stavolta si faceva più fatica a sentire le vibrazioni perdersi nelle venature delle finestre. L’alveare mi aveva risucchiato nel suo grosso divano centrale, squarciato in sinuose schizzi di tela squadrata dal velluto rosso dei grossi cuscini rigidi. Visto che da soli s’era in troppi, stipendiare cinque rottami di schizofrenia nel posto di due era parsa la soluzione migliore, pagammo il taxi col fondo sferragliante della tasca e ci prenotammo il biglietto per il diretto notturno. Soprammobili fumanti rimpiangevano romanticismi torinesi, accompagnati da una voce calda di rassicurazioni e cadenze rintronanti. L’ape regina si ripiegava clandestina nelle pieghe della camicia, nascosta alla vecchia padrona di casa con l’osso in bocca. Rimbalzavo come scosse elettriche da un accendigas sui muri del cubo trascinato di forza dentro le retine, e cominciavo una decostruzione al gusto di papaya schizzata col rum da far rabbrividire le antenne dei palazzi più di quei grossi elefanti di marmo che a ritmo di metronomo scandivano le mezzore, intersecandosi d’assalto col segnale del satellite e le magnificenze invisibili dei wi-fi. Pisciavo noccioline al cherosene in faccia ai trecento gradi salati della notte, cercando soltanto di sbatterle come meglio mi riuscisse addosso alle pinne tricolore rimaste incastrate come lattine inconsapevoli tra i passeggeri intorpiditi e la frustrazione violenta dei reattori ubriachi. Si lasciavano sfuggire veri latrati da camerata, quando s’accorgevano delle noccioline e di come loro stessi non potessero farci niente, e cominciavano a cadere a picco nei territori dell’inceneritore, sotto lo sguardo nero, freddo, del padrone.