68 febbraio

Io sapevo di quello fenico, ma poco importa se il tradimento è la via della sussistenza. Lentamente mi scesi di bocca il combustibile e la memoria gusto lime prese possesso delle mucose, lievemente frizzante intorno alle pareti della lingua. Quando ripresi a guardare verso la strada mi resi conto che la storia stava procedendo verso un cambio di direzione. La lasciai perdere e mi infilai in una macelleria affrescata a olio stile condominio di una vecchia nobiltà palermitana decaduta. I grossi rasoi d’acciaio tintillavano sul costato gelido delle carcasse gocciolanti in un coro di silenzi di cristallo, lasciandosi dietro solo uno strano odore di comodino e moquette impolverata. Ci volle solo un lieve riavvicinamento alla vita, da parte del gracile macellaio, prima di sospendere gli occhi a mezz’asta e incorniciarci dentro la mia figura confusa e probabilmente anche troppo poco integra rispetto a quella che potesse aspettarsi da un semplice cliente. Domandai la porta del bagno con una lamina di sillabe quasi impercettibile a orecchio nudo, dopodiché seguii la punta della lama fino a una tromba metallica di scalette a chiocciola che si diramavano dall’angolo delle bistecche di maiale fino al luminosissimo sotterraneo. Uno stretto corridoio bagnato al neon rifletteva vampate metropolitane di elettricità clandestina lungo la ceramica delle piastrelle tirate a lucido. Un tappeto invisibile stuprato da continue cascate di basalto fuso. Ogni passo poteva sorprendere anche il più avventuriero degli imperturbabili, dall’assoluto silenzio metafisico di quella cornice. L’impotenza di turbarsi le orecchie al suono dei tacchi a spillo mi diresse a velocità crescente verso l’oblò della porta scorrevole che dava fin sul vespasiano. Accanto a me, le sagome ingiallite di milioni di incontinenti, come ombre polverose tutti quelli che erano passati di lì prima di me, alcuni addirittura provvisti d’accompagnatore adeguatamente prescelti per l’occasione tra le fila dei parenti stretti, mi si stringevano al collo nella morsa di antichi spiriti insoddisfatti dalle genie concepite. Come risciacqui gengivali in lontananza finalmente riuscivano a riemergere i primi suoni, simili a martellate d’ovatta sulla pelle d’un tamburo tribale, e nessuno ti chiedeva in cambio una mezza sigaretta o uno spicciolo per fare festa, per poterti osservare, affogato nell’ovatta. Tutti gli occhi addosso, e in pochi possono sapere quanti, a rubarti a gratis le soddisfazioni d’una pisciata isolata. Veleggiavano intorno, nelle loro orbite celestiali, con pupille affilate a sventrare a metà certi grossi occhi di quercia secolare, puntati dritti sulle strettoie della piccola grata metallica dello scarico. Veniva quasi da domandarsi come mai pareva girasse in entrambi i sensi, il vortice del risucchio. Non avrei saputo descrivere fino a che punto esatto di collisione potesse confermarsi quella verità, e tra le unghie bagnate di mousse delle schiere profanate di pisciatori, chiamati a raccolta da incastramenti astrali epici o qualcosa di simile, preferii rimandare la questione del risucchio fino a quando non fossi riuscito a interrompere il risciacquo gengivale. Se non il mio, perlomeno il loro. Realizzai questa speranza quando già non riuscivo più a vedere altro sotto le caviglie se non il riflesso esausto del cadavere rigonfio del vespasiano perduto in melmose rive di ambrata desolazione. Continuai a non credermi fino a quando non ebbi modo di sentire il primo brivido gelato lungo l’interno coscia sinistro, nell’atto di ritirare su i pantaloni lasciati sfibrati a marcire liberi sul pavimento. Chinai il capo in un cenno di saluto, raccolsi con soddisfazione il reciproco ricambio dei coinquilini, e cambiai direzione. Risollevai l’oblò della finestra dal suo oblio di disinteresse assoluto e con qualche sforzo navigai fino a raggiungere nuovamente la tromba delle scale. Continuai a scendere seguendo i pendii traballanti degli scali metallici, dai quali esalavano lontane eco come di confusi mazzi di chiavi violentati dal pollice del guardiano, a ogni rintocco di suola. Il piano al di sotto del sotterraneo, nuovamente i piedi si saldavano nell’asciutto, l’aria viziata e in un lato del piccolo bunker squadrata la figura rifinita di quella che riconobbi come la moglie del macellaio, dalle descrizioni della cicatrice sul collo che se ne facevano nei passaparola del bar. Stava in piedi dietro alla robusta vetrata di un casottino, improvvisato biglietteria, e dal piccolo forellino rotondo posto all’altezza del mento mi chiese di svuotare almeno una delle tasche dei pantaloni, di lasciarle il contenuto qualsiasi cosa fosse e procedere verso l’apertura del muro coperta dalle striscioline di plastica trasparente di quella specie di macabra tendina. Di là dal muro ritrovai Georg, imbustato dentro una sacchetta di quelle per i prelievi del sangue e riposto accuratamente dentro una cassaforte lasciata col coperchio socchiuso. Lo presi per mano, lo rinfilai nella tasca e imboccando nuovamente la tendina mi riportai verso le scale a chiocciola e continuai a scenderle fino all’uscita. Il mondo all’esterno s’era fatto giallo e umido; le nuvole riflettevano i primi raggi del sole, sortiti in ritardo dal mosaico delle nubi per rischiarare gli ultimi traffici del tramonto. Fuori da quella baracca infernale, affrescata alla palermitana, un Cristo irredentista versava fialette d’orina infetta nella gola dei mendicanti, e cercava poi di convincerli ad alitarmi in faccia. Fortunatamente, bagnato fino al cavallo dei jeans fuori dalla macelleria, dovevo pur contare qualcosa più di lui, e nessuno s’azzardò a dargli retta. Alcuni, i più orgogliosi, continuarono ad osservarmi ancora per qualche momento, poi anche loro realizzarono, e fu calma piatta fino al sopraggiungere della stanchezza. Mi strinsi la tasca in una risata e c’addormentammo entrambi sul primo sedile macchiato di sperma della carrozza per le biciclette d’un treno in demolizione, al deposito della stazione centrale.
Nel bel mezzo della demolizione.

67 febbraio

La grata metallica nera della sala d’attesa, uno schienale insospettatamente gelido, maglie fitte impediscono ai granelli di sabbia di farmi compagnia di qua dal muro. Una mano sopra l’altra, entrambe sotto il ginocchio, si scambiano saliva calda e stanca nell’abbraccio di due morbidissime manette, sguardi contriti e gridolini moralizzatori, intere coltivazioni di occhialini tondi come pannocchie al sole, puntano dritti verso il fegato con occhio di siringa e sovrastrutture. Il pavimento non ha mai tenuto di conto della pesantezza del passo, e adesso meno che mai, si contorce sul cadavere degli internati come macchia di Sole pronta alla fuga, tira occhiatacce di sfida alla penombra della prima mattina. Poco distante gorgogliano i camici pettinati e imbellettati, in riluttanti profferte amorose e pratiche orgiastiche di autocelebrazione. I numeri delle cabine partono dal centinaio, come camere d’un albergo per aspiranti suicidi, si appiattiscono su elenchi paradisiaci di affermazione progressiva e numerata, come lapissini temperati ciucciano la gonna della madre a filo di mediocrità. Schedari digitali sbattono in faccia al mondo il casellario giudiziario della proiezione distaccata di sé, al seguito ogni fila indiana di vecchie signore vaccinanti e pochi altri condottieri del corridoio. Di sicuro non si tiene di conto di come, nella realtà rovesciata, anomala e virulenta, uno sputo in faccia al poliambulatorio dà ripetizioni gratuite di divertimento, scavando a cucchiaio fuori dal bunker delle linearità ambrate ai fiori di gelsomino del deodorante per ambienti di un cesso ambulante. Ogni frazione resta sospesa, come ammutolita a mezz’aria, e di là dalla scrivania mi si conosce meglio che di qua. Sogghignare significa mangiarsi le manette, e le chiavi le lasciano a chi ancora non lo sa.

66 febbraio

Interrogarsi sulle monete di plastica dell’Occidente a volte porta meno soddisfazioni di quante non ne sbandierassero i vecchi marinai dell’Oltrebar, e fu così che il giorno dopo me ne andai sotto il ponte delle chewingum a strisciolina per divorziare. Era una giornata rassicurante, stesa come un’enorme matassa di minuscoli tappeti polverosi cuciti insieme, brillando l’umidità delle piogge precedenti al vapore accentratore della sgonfia palla di Sole. Lampeggiavano ombre sonore di dita in movimento sugli schermetti retroilluminati che qualcuno m’aveva appiccicato sui nervi, e la distanza era diventata fragile come una pala meccanica di gommapiuma. Si riversavano addosso alle barriere dei sensi di colpa parole stupide, strappate dalle lacrime come pietre da un rene malato, e cadevano tintinnanti sul pavimento gelido, a disegnare contorni evanescenti d’una favola mal raccontata, una barzelletta col finale sbagliato, un vangelo senza verità. Non è facile infilarsi le lenti a contatto quando si piange sulla sponda sinistra d’un cornicione. Qualcuno prima o poi dovrà ricordarselo.

65 febbraio

Feci giusto in tempo a ritirare la mano che le ombre arrugginite squartarono i calcinacci del sottoscala per venirmi a ricordare il loro sibilo stregato lungo le pendici del collo, sporche di saliva e cenere. Il tocco fu di un’intensità distratta, e mi commosse le maniche arrotolate lungo i gomiti con una certa, annoiata, semplicità. Rimbombavano le macchie di buio sulle tempie grattugiate nelle pareti spoglie del cantiere, e in qualche modo riuscivo a essere una volta ancora nel posto giusto, al momento giusto, con la terra sbagliata sotto ai piedi. Filtrava la sagoma di una grossa porta verdognola stuprata a spinta, in mezzo alla luce calda del pomeriggio, e da lì sotto finalmente vedevamo la prospettiva migliore degli scalini di cemento che portavano all’officina tinteggiata di rosso e celeste del piano superiore. Finalmente sapevamo di quei pezzetti di legno lasciati a supporto della struttura, finalmente le vedevamo fragili. E ci abbracciavamo, in mezzo ai colonnati semoventi e ai pacchetti vuoti delle sigarette, ancora fumanti a consumarci l’ossigeno dentro al cranio indolenzito. Non potrei ricordarmi, anche d’impegno, altro marmo più incandescente di quella frizione nascosta alla luce della realtà di cartone, l’impiccagione innocente di una scultura finalmente scappata rosacarne dalla scatola di vetro che la contiene, che la stritola, nei giorni al museo.

64 febbraio

Stavolta si faceva più fatica a sentire le vibrazioni perdersi nelle venature delle finestre. L’alveare mi aveva risucchiato nel suo grosso divano centrale, squarciato in sinuose schizzi di tela squadrata dal velluto rosso dei grossi cuscini rigidi. Visto che da soli s’era in troppi, stipendiare cinque rottami di schizofrenia nel posto di due era parsa la soluzione migliore, pagammo il taxi col fondo sferragliante della tasca e ci prenotammo il biglietto per il diretto notturno. Soprammobili fumanti rimpiangevano romanticismi torinesi, accompagnati da una voce calda di rassicurazioni e cadenze rintronanti. L’ape regina si ripiegava clandestina nelle pieghe della camicia, nascosta alla vecchia padrona di casa con l’osso in bocca. Rimbalzavo come scosse elettriche da un accendigas sui muri del cubo trascinato di forza dentro le retine, e cominciavo una decostruzione al gusto di papaya schizzata col rum da far rabbrividire le antenne dei palazzi più di quei grossi elefanti di marmo che a ritmo di metronomo scandivano le mezzore, intersecandosi d’assalto col segnale del satellite e le magnificenze invisibili dei wi-fi. Pisciavo noccioline al cherosene in faccia ai trecento gradi salati della notte, cercando soltanto di sbatterle come meglio mi riuscisse addosso alle pinne tricolore rimaste incastrate come lattine inconsapevoli tra i passeggeri intorpiditi e la frustrazione violenta dei reattori ubriachi. Si lasciavano sfuggire veri latrati da camerata, quando s’accorgevano delle noccioline e di come loro stessi non potessero farci niente, e cominciavano a cadere a picco nei territori dell’inceneritore, sotto lo sguardo nero, freddo, del padrone.

63 febbraio

Vapori di carne essiccata pendevano in forme plastiche lungo i corrimano d’ottone delle vecchie scale alla turca. Croste di sangue rappreso vomitavano rassegnazione in mezzo alle rughe di plastilina stampate sulle facce inermi delle donne sedute sulle pile di cassette di legno svuotate dalle compravendite. Cesti maciullati di insalate dimenticate rovinavano fragorosamente nella polvere del grosso chiostro, rotolando sulla terra battuta tra le fessure dei formicai e le chiazze di unto e salamoia del mercato. Una stampella del posto cominciò a correre tra le fila dei venditori abusivi, sputando l’ultimo vigore dalle palpebre socchiuse dell’infermiera. Lo scintillio delle monete frantumava il forte odore di spezie e conservanti chimici, liberando bagliori nauseanti nell’aria esasperata di un prima mattina rassegnata a un insolito silenzio mortuario. In lontananza, il risucchio delle cannucce ai tavolini d’alluminio levigato del piccolo bar all’antica risvegliava l’ultima disperata immedesimazione negli affari della vita quotidiana. Le apprensioni evaporate della calca si trasformavano in salivatori automatici al rallentatore, in mezzo agli sciatori di fondo della terza età, spremute nei succhi gastrici di un intera zona residenziale tirata su dalla saliva delle cavallette. Ogni respiro era inequivocabilmente convinto d’essere l’ultimo e tanto bastava per appiattire l’umore di tutti i presenti al minuto immediatamente precedente la soglia del dolore. Si vedevano crocifissi di bambini appesi alle parete in lontananza strofinarsi gli occhi arrossati dalla polvere e massaggiarsi il collo stretto dal guinzaglio con le dita sudaticce dei piedi. L’ossigeno era paura di aver a che fare con qualche riflesso di sé: si respiravano nugoli infranti di calme storte e naufragi falliti, schivando con cura odontotecnica ogni spiraglio di superficie riflettente. Non c’erano vetrate, né tantomeno specchi, e il piatto delle bilance era foderato da strati vellutati di moquette per pavimenti. Le facce senza volto delle espressioni tumefatte dei clienti venivano rinchiuse a gruppi di quattro per volta dentro il portafogli dell’ortolano, e in quella tasca dei pantaloni consunti venivano condannati al confino per l’eternità. Le parole si rincorrevano nelle trachee indifferenti delle controfigure, abbaiando ventiquattr’ore al giorno per andare a pisciare da qualche altra parte. Non c’era nemmeno l’ombra di una fonte di calore, ogni costruzione si basava sull’incapacità artigianale del vicino, e nel complesso, tutto il mosaico si reggeva intorno alla propria negazione. Il grande porticato dell’ingresso era un cumulo di macerie abbandonate al tempo, e pareva vederne fuoriuscire le grosse assi di legno massello di un tempo, come aggrappate alla memoria di un periodo vitale del passato. Il mercato era una basilica sconsacrata, ricolma di pietrisco grottesco e scritte oscene. Dalle grosse lampade appese al soffitto sfiorivano fuochi fatui dentro gli aspiratori per il fumo, e lo spirito all’ammoniaca delle suole delle scarpe calpestava le teste consumate dei vecchi aborigeni nella morsa di un marciapiede spigoloso e fuori controllo. La rabbia era muta. Piccoli animali di varie razze incrociate calpestavano i denti sparpagliati del teschio deforme dei vecchi rancori, con il loro insopportabile zampettio bastardo, ticchettante all’infinito sui gradoni della scalinata centrale. Dalla scalinata si accedeva al piano superiore, l’ultimo dell’imponente edificio, massacrato dalle ricostruzioni rituali che nel tempo le avevano divorato l’anima. Il piano superiore era costituito da un lungo corridoio, ai lati del quale s’infiocchettavano quantità incalcolabili di piccole porticine, ognuna l’accesso delle rispettive celle. Le celle erano la residenza estiva dei commercianti, l’ultimo posto fresco raggiungibile durante le temperature magmatiche delle settimane più calde. I commercianti erano riuniti in ordini religiosi di diverso tipo, e a ogni ordine spettava una sezione predefinita del corridoio. Chiazze confuse di ustioni silenziose e convulsioni notturne si alternavano il podio delle grandi sorprese di quel luogo segreto e inarrivabile. Pareva che si svolgessero vere e proprie ritualità di un malassortito entusiasmo esoterico, nel cuore della notte, che per loro valeva da addestramento psicologico pre-lavorativo. Nessuno, in ogni caso, sapeva come si procurassero la merce che puntualmente ogni giorno riempiva le loro cassette e i loro scaffali, dato che per la maggior parte del tempo se ne stavano rinchiusi nel grande albergo al mare o sparpagliati nel labirinto di quel corridoio nella basilica. L’albergo era la vecchia sede di un carcere di massima sicurezza. Venivano portati lì tutti coloro che dovessero scontare periodi di isolamento forzato o altre faccende simili. Una volta dismessi gli uffici e trasferiti i prigionieri, i commercianti vi si erano trasferiti in massa a giocare a dadi e rovinarsi in scommesse azzardate sui combattimenti delle nuove matricole. I commercianti, a loro modo, si divertivano, e avevano bisogno di quelle ritualità notturne lungo il corridoio per non lasciarsi annientare dai clienti. Nell’effettivo, quando decisero di addestrare quei vecchi rincoglioniti a fare i clienti non avevano idea che la loro mutilazione cerebrale potesse ritorcerglisi contro in termini di terribile noiosità e sfiancamento assoluto. La loro breve provincia autonoma senza appartenenza fu lo sbandamento di un millisecondo. Feci la tessera dell’ordine, fui iniziato lasciandomi ustionare l’interno coscia con un fiammifero, vendetti il primo cesto d’insalata a una delle salive della traiettoria orientale, e me la detti a gambe verso i misteri di Spagna da un’altra parte.

62 febbraio

Le file ai ristoranti si dimenavano come quaglie afrodisiache nel petto degli adolescenti, pochi tintinnii di telegrafo a disturbare il flusso delle coscienze disinibite. Ogni mercificazione profumava d’oro colato, sangue di vitello negli occhi di una ricerca d’approvazione. Le teste squadrate dei convenuti correvano a reclamare attenzione dalle compagnie geometriche che riuscivano a ritagliarsi intorno. Si rinchiudevano in figure apocalittiche da manuale di trigonometria e sconquassavano i perimetri degli altri con battute sagaci o peripezie pungenti. La nebbiolina leggera delle sigarette al mentolo svaporava tra le punte dei compassi come una banda di piccoli mammiferi a inseguire la noce di cocco della mensa universitaria. Ogni pericolo tirato a lucido dalle fotografie subliminali dei passanti se ne stava accucciato nel centro preciso della rigorosità matematica della folla. Le sillabe dei convenevoli si riunivano in bande di giovani disadattati e correvano lungo i muriccioli dei canali in cerca di qualche malcapitato da bullizzare un po’ alla meglio, quasi scherzosamente, innocentemente. Note di colore affollavano gli arcobaleni nell’aureola degli alcolizzati, e tranquilli e beati s’andava avanti tutti. Camminavamo in fila, ognuno nel microcosmo, ça va sans dire, a passo di sfilata, nell’onorificenza funebre in cui ci riconoscevamo e che tanto ci spaventava. Giocavamo a far finta di conoscersi, e non c’eravamo nemmeno messi d’accordo. Uno dei fari proiettati nella locanda, posizionato all’ultima fretta e furia disponibile, cominciava a surriscaldare uno dei cartonati portanti, e non ci volle molto prima che la notizia facesse il giro degli angoli del locale, fino all’ultima delle resistenze. Seguimmo tutti l’incedere incessante della marcia, qualcuno di scattò si lanciò dalle finestre socchiuse e venne raccolto nelle ceste dei portalettere e rispedito al deposito. Qualcun altro provava a trattenere il respiro per distrarsi dall’odore, e il più delle volte preferiva lasciarsi cadere, ammosciarsi svenuto per terra, piuttosto che presentare qualche sorta di reclamo. Raccolsi una gomma da masticare appoggiata alle macchie di rossetto di uno dei bicchieri vuoti e tanto mi bastò per prendere le gambe e schiaffarle dentro al sottoscala. Vidi piccole assi di legno sgraffiarsi a vicenda con le punte sporgenti dei chiodi, fino a consumarsi a sangue negli urti inevitabili con le pesanti superfici di marmo battuto. Mi rimase della cenere sul ginocchio, corsi a leccarmela e una delle assi mi si conficco lungo il solco di una vecchia cicatrice. Strinsi la mano al sottoscala, con aria di riverenza, e mi portai di nuovo verso la piccola porticina, chiusa a chiave dall’esterno. Mi abbassai sulle ginocchia, sfilando lentamente i pantaloni, e a costo di qualche sfregamento doloroso dei gomiti osservai la basilica sporgente della piccola toppa d’ottone con tutti i segreti pronti a non esser mai svelati che mi si attorcigliavano in mezzo al collo, ai peli pubici, ai genitali affranti dai brividi di freddo secco e pungente del legno. Ogni tanto alzavo lo sguardo verso il soffitto e mi sentivo libero. Per poco mi stupii dei cinque quarti di cielo che trasparivano dalla croce della grata di una finestrella scrostata dalla muratura. Fu quello il momento in cui conobbi il carcerato. Senza presentarsi né richiedere di palparmi le carni, come era diventata usanza fare in zona per assicurare sostanza alle rare narrazioni che avvenivano clandestinamente in luoghi e situazioni di fortuna, la fronte di quell’uomo era l’unica parte di sé che aveva conservato la memoria di una vaga sfocatura di colore. Tirò fuori la fiocina da dietro la lingua e mi conficcò sfumature di curaro dritte nell’interno coscia a peso di piombo. Sotto cosa si ripara il prigioniero quando viene il terremoto, maresciallo? Che fine fanno le matricole? Presi il passo di danza di uno dei rammenti arrotondati sui listelli e glielo tirai sulla faccia dalla paura. Sotto a cosa mi metto, brigadiere? Le chiazze neroverdi delle venature rimbombavano trombe da bersaglieri sulle pareti febbricitanti, fuori la marcia risuonava sulla porta nell’incedere continuo delle controfigure. L’odore di bruciato del cartone portante riempiva la clessidra di fumate di un denso nero appiccicoso, e i cardinali da capo col copione in mano si rituffavano sotto chiave nella salamoia di una nuova votazione. Guardia dimmi, e il terremoto? La marcia della tonnara vomitava il passo anfetaminico della prima sbronza cruenta, sputi sanguinolenti filtravano addosso agli osservatori come piovuti dalla picca di implacabili commilitoni asburgici. Il fracasso di un primo incendio doveva aver confuso la psiconautica militare, e restava una fronte sfocata a insidiarmi sotto tempia le sue contraddizioni al silicone. Sotto a cosa, appuntato, scusi?

61 febbraio

Blitz, perimetro di quelli da nonchalance. Qualcosa di grosso parte a perpendicolo per la tangente, e mi sfugge nel fracasso delle sirene. Correva l’anno, e qualcuno lo rincorreva pure, distratto dalla faccia da salmone che per tutta risposta gli schiaffavo addosso. Nascosto sotto i bidoni della spazzatura facevo amicizia coi ratti dell’umanità e sprizzavo sbuffi di alito al cherosene verso la luce umida dell’ultima sera. Sapore di fritto conficcato nelle costole, ruminavo la biada avanzata dal grosso pranzo rituale, e mi contorcevo sperando di ricordare il primo movente per vomitare. Un calcio a un sasso lo fece volare per qualche decina di cadaveri fino a farlo schiantare contro la paratia di una fermata dell’autobus, incrinando il vetro sozzo con tutta l’arroganza di un amante irrequieto. Qualcosa mi sfugge, qualcosa di grosso. Non sono una signora, mi dicevo, dai ricorda, fai uno sforzo. Nel piscio della luna, seguivo la faccia nelle vampe della grigliata mista che mi brulicava nei pantaloni. Qualcuno osservava. In ogni caso la sessualità è una formula magica troppo distante dal guinzaglio dei vostri righelli, lasciate fare a chi sa fare. Insegne di croci verdi sibilavano tra i piedi lunghi dei passanti coraggiosi. Padri pellegrini solfeggiavano marce militari dai grossi corni di polistirolo annodati al saio purpureo. Larghi sacchi di cemento armato penzolavano sulle teste degli autoferrotranvieri appollaiati sulle terrazze mansardate dei marciapiedi più lugubri, spersi in mezzo agli occhiali da vista dei cani randagi. Vecchie sartorie abbandonavano capannoni all’ombra polverosa degli imponenti svincoli autostradali, mentre soltanto due riuscivano a respirare nella cappa della noia, in mezzo a fango e detriti, si leccavano le ferite tanto per non dimenticarsi il rumore ferroso dei vetri rotti. Mandrie ordinate di souvenir salutavano il passaggio dei resistenti con levate fucsia di cappelli di vetro e palline di gommapiuma sotto ai materassi. Ogni lasciata è persa, presero la palla e se la conficcarono in gola per non smettere di incontrarsi tra i fumi confusi dell’aldilà. Le carcasse delle casse automatiche gli ridevano in faccia, con la presa di uno zaino che si lascia cullare dalla schiena dolorante del suo personale quindicenne di fiducia, e nell’aria vibravano condense amorose di dubbia provenienza. La diaspora dei bravi ragazzotti si avvicinava alle soglie ininterrotte di dolore, tra cristalli di rotture e punture di saldatrici. I chiodi del mondo, caro maresciallo, si arrotondano da soli; presto o tardi, non bucano più, me lo rammenti settimana prossima. I cartelli di divieto lasciavano il posto alle decappottabili luccicanti della prima periferia, ritirandosi a vita privata si slacciavano le cinte e picchiavano le mogli graciline per compensare le ore di fatica. Dov’è finita la tenerezza, maresciallo? Lasciarsi andare è una mangiatoia per gli occhi, compare, i chiodi. Pensa ai chiodi, quelli belli fatti di alluminio pieghevole, quanto mi fanno ridere i chiodi. Nel mezzo alle luci gialle dei semafori, i grassi venditori di rose si sistemavano il colletto davanti ai motociclisti nudi che si cavalcavano a vicenda emanando profezie oscene dai pruriti intimi. Sorpresi da tal maledizione, giravano lo sguardo lungo le pensiline degli avvocati in pensione, che riscattavano onorari immaginari dalle segnaletiche confuse agli incroci della città. Le finestre della chiesa rimbombavano mezzanine di colonne di pietra rinchiuse in abominevoli inferriate battute su misura, e un giovane pescivendolo disorientato le fissava abbracciarsi e infilarsi aghi nelle spalle tra di loro come forma di cortesia. Le spirali dei distributori automatici si accanivano tra di loro, si lamentavano del mal di testa e vomitavano schizzi di sangue sul vetro luminoso delle piccole vetrine, tra odori di scoiattoli e dita autolesioniste avvinghiate alla comodità di un pasto di mezza giornata. Sul bancone si consumavano spremute di frutti esotici incartati nel polistirolo, e pareva anche che nessuno se ne lamentasse. Cinque minuti alla chiusura, la cameriera urla ai clienti di venirsi a riscuotere i bicchieri da soli, che ormai si stanno abbassando le saracinesche e le cassette delle scope sono già ubriache della razione quotidiana di merda e insetti calpestati. Qualcuno intervenga, gridò un vecchio alla dentiera, gioco di squadra, è quello che ci vuole, la forza del gruppo dei trentadue di silicone. Il fischio dei treni in lontananza riportava aria di cartonati e brulicanti pedoni migratori si affollavano coi sacchi azzurri in spalla lungo le linee storte dei binari. Nessuno pensava al domani. Il domani piangeva in collo alla madre, una signorina alla buona rimasta incinta dopo aver leccato il pavimento di un cesso pubblico lungo la statale, tra il porto e il deposito degli autobus. Le scosse elettriche imbastivano sinistre paresi in faccia agli sconosciuti, e soltanto qualche controllore di passaggio si godeva il tempo fuori servizio lasciandosi trasportare dall’autocommiserazione. Notai che in quel momento per la prima volta non avevano nemici, e si divertivano a notare la totale incapacità degli altri di dosare la cattiveria. Loro ne sapevano qualcosa, involontariamente, erano tra i pochi abituati a conoscerla, la cattiveria. Tutti gli altri non ne avevano bisogno, alcuni addirittura ne dimenticavano a tratti l’esistenza per farsi cogliere del tutto impreparati alla prima occasione in cui avessero avuto bisogno di sfoderarne qualche manciata. Così dalle lingue arrotolate ne uscivano granelli da clessidra o tonnellate di liquami isterici da autobotti di cantiere, senza nessuna via di mezzo. I controllori da tramezzino questo lo sapevano, e lungo le panchine sovreccitate dalla folla rincorrevano le sillabe casuali della violenza incomprensibile degli altri.
Passammo tutti insieme un ottimo pomeriggio.

60 febbraio

Il sedile posteriore girava intorno a se stesso ruotando sull’asse delle mie spalle. Le radici di un godimento, una vorticosa debilitazione nelle meningi, si mescolavano al cranio traslucido delle nuove occasioni. Capitani invisibili lanciavano dritte tecniche feroci a conficcarsi nelle retine, in mezzo a chiasso di risa e velocità primordiali. A passo di valico la forcella del rabdomante guidava i pensieri distratti delle chiazze di colori. Unità di misura decimate dal conflitto d’attribuzione dei significati senza piombo di una serata sprecata dietro a rincorse infantili e minuti dispersi negli angoli smussati dell’ombra da marciapiede. Amplessi di vagabondi a tinteggiare le cornici del cielo in fetidi stordimenti profetici al sapore di naftalina e disgregazione. Coppie fradice di modeste vanità si rincorrevano sotto il brivido gelido degli pneumatici nei venticinque minuti di combattimento, dispersi tra le giostre casuali di una guerra di successione. Pochi ma buoni i sorsi di spirito, scornati, si intrappolavano lungo le caviglie ammorbidite dalla foschia dei viandanti. Vietato giocare a pallone con le mani insanguinate, parevano sussurrare le cinghie che ci stritolavano le caviglie della sera, entusiaste dalle loro circonvoluzioni forzate e irrefrenabili. Il mosaico delle mani pareva tenere il conto a pallottoliere delle vite sprecate dal mondo, cadute finalmente preda dei cacciatori di fantasmi. E c’era chi osservava, con l’adrenalina conficcata nelle sottocoppe di feltro di un tavolo incrostato a doppio malto. Tra i finestrini delle fronti appannate rimbalzavano gli odori delle basette fresche, il mentolo rarefatto dei dopobarba, allungati col passito e corolle di seta cucite intorno come madri compassionevoli. Per una nuova prima mossa, correvano flussi di casualità a riempire i margini vuoti e sconclusionati dell’entusiasmo prigioniero, che progettava l’evasione ticchettando le unghie rifinite sugli stemmi incisi ad alte temperature sulle brutte ghigne delle grate di scarico. Pacchi e pacchi da venti di teste di pesce si scagliavano di sotto dai terrazzi rimbalzando modi di dire, frasi lasciate a metà e risate viscerali, sputacchiando pezzetti di fegato e ghiandole surrenali dentro i calici di vetro accanto alla vetrata lussuosa dei lounge bar nelle piazze dell’antiquariato. Armonie in crisi d’identità sovraffollavano i centri di reclutamento e le caserme per l’impiego, e si scrollavano dalle spalle fino all’ultimo dei nostri personalissimi secondi di gloria. Del tutto non in vendita. A meno che l’offerta che non si può rifiutare non preveda un contrattino del tutto favorevole, una sistemazione vantaggiosa per tutti, non necessariamente legale, non si discute, un qualcosa di avvincente, uno stipendio fatto di caramelle e mozziconi bruciacchiati dal vento caldo del primo pomeriggio. Tu convincimi, caro amico, e poi dopo diventiamo sorelle d’amore e prostituzione minorile. Si sentiva in lontananza come l’eco di un cravattaro confuso che in preda al panico si fosse gambizzato le vene dell’interno coscia col suo stesso coltello incrostato di globuli epatici, cani randagi, che se lo trascinarono in un vicolo appartato e cominciarono a leccarlo dalla testa ai piedi, mentre lui schiamazzava per il solletico e reclamava progressismi interiori che ne rendessero sopportabile l’esistenza ravvicinata con se stesso. Ognuno se la godeva, a suo modo, e poi arrivarono i confessori, i ciarlatani porta a porta che correvano nudi sui marciapiedi intorno alla stazione per vendicare profeti massacrati centomila anni prima da camionisti distratti in preda a qualche famelico colpo di sonno. Le croci diventavano asterischi, i chiodi andavano verso la fine, e si correva ai grandi magazzini per riempirsi le tasche di nuovi sacchetti porta-chiodi da rubare sotto gli occhi della cassiera nevrastenica che ormai parla da sola, si chiede consigli, si ringrazia per le dritte al momento giusto, poi corre a casa a stritolare i bambini con cappi ben arrotolati di file di scontrini non battuti e chiavi inglesi trovate in mezzo agli ultimi scatoloni abbandonati nel magazzino. Poi tornammo tutti sulla strada giusta, nel quartiere che ci spettava, e corremmo a mandare i confessori in visita dai loro padri, avvinghiando viscere e chiodi in sovraccarichi ormonali di ustioni notturne. A noi piaceva, a loro faceva godere, e nell’orgasmo di un millisecondo, c’era chi osservava, chi si impiccava all’elastico delle banconote, chi ululava pietà e chi se ne leccava le mani distrattamente, altri si sporgevano dalla punta della lingua e si lasciavano vomitare sull’orlo d’una teca di vetro da acquario ricolma di binari vivi e treni in malattia. Nelle corsie del reparto si vedevano file di passaggi a livello in attesa spasmodica che un dottore qualsiasi, o anche un semplice millantatore a caso che se ne appropriasse dell’identità, li andasse a tranquillizzare sulle condizioni fisiche del loro caro amico, compagno di tante avventure. Così in preda al panico mi ci buttai io e cominciai a rasserenare le acque con orde di misticismo laido sull’importanza del loro livello, che mantenessero sia il livello che il passaggio, o magari anche solo il passaggio ma che il livello non superasse tot predefinito di decibel, che altrimenti avrebbero svegliato la discepola quindicenne dei confessori, e sarebbero stati nell’effettivo, guai per tutta quanta la baracca. Così loro mi dettero la mano, io le strinsi tutte una per una, divincolandomi in mezzo alle strutture cercando di salvarmi la testa dai traumi cranici in cui m’avrebbero abbracciato quelle loro sbarre altalenanti, che non riuscivano a trattenere dall’alzarsi e abbassarsi frenetico continuo. Mi tolsi la vestaglia lilla che spacciavo per camice e tornai nell’auto in corsa, saltando al volo dentro al finestrino chiuso del sedile posteriore. Un lampione s’intromise di colpo, spostandosi sulla carreggiata e intimando l’alt. Mi chiamò per nome, mi sussurrò le solite paroline sconce dritte nel cervello e mi convinse a scendere dal veicolo, strangolato nel cappuccio della felpa. Lo punii per quella sua stramaledetta classica impudenza, e passammo le successive otto ore a farci massaggi intimi e complimenti per lo stato di forma vicendevole. Qualche tempo dopo tornai in clinica per farlo abortire e mi intravide la quindicenne, così scappai e raggiunsi finalmente i miei amici in mezzo alla brughiera. Accendemmo un falò e mi cicatrizzai le ferite sul fuoco. Poi mi alzai e feci il bagno in un pozzo naturale che si era formato in un’insenatura carsica leggermente spaesata. Quella sua indecisione, tipica del turista disperso in mezzo a terre sconosciute, fatte di palazzoni e musi lunghi dal coltello facile, mi convinse a molestarla, così persi le successive diciannove ore nel tentativo di trovare una drogheria ancora aperta che mi vendesse un costume da lupo cattivo. Non la trovai e mi lasciai convincere a tornare verso il tepore domestico del mio sedile, fratello posteriore.