Io sapevo di quello fenico, ma poco importa se il tradimento è la via della sussistenza. Lentamente mi scesi di bocca il combustibile e la memoria gusto lime prese possesso delle mucose, lievemente frizzante intorno alle pareti della lingua. Quando ripresi a guardare verso la strada mi resi conto che la storia stava procedendo verso un cambio di direzione. La lasciai perdere e mi infilai in un bar-macelleria affrescato a olio, stile vecchio condominio e nobiltà palermitana. Le file al ristorante si dimenavano come quaglie afrodisiache nel petto degli adolescenti, pochi gorgoglii telefonici a disturbare il flusso delle coscienze disinibite. Ogni mercificazione profumava d’oro colato, sangue di vitello negli occhi di una ricerca d’approvazione. Le teste squadrate dei convenuti correvano a reclamare attenzione dalle compagnie geometriche che riuscivano a ritagliarsi intorno. Dietro di loro, i grossi rasoi d’acciaio tintinnavano sul costato gelido delle carcasse gocciolanti in un coro di silenzi di cristallo, lasciando nell’aria solo uno strano odore di umido e di moquette.

La nebbiolina leggera delle sigarette al mentolo svaporava tra le punte dei compassi come una banda di piccoli mammiferi a inseguire la noce di cocco della mensa universitaria. Ogni pericolo tirato a lucido dalle fotografie subliminali dei passanti se ne stava accucciato nel centro preciso della rigorosità matematica della folla. Le sillabe dei convenevoli si riunivano in bande di giovani disadattati, figure apocalittiche ripiene di battute pungenti che correvano lungo i muriccioli dei canali in cerca di qualche parola a piede libero da torturare un po’ alla meglio, quasi per scherzo, innocentemente. Note di colore affollavano gli arcobaleni nell’aureola degli alcolizzati, e tranquilli e beati s’andava avanti tutti. Camminavamo in fila, ognuno nel microcosmo, ça va sans dire, a passo di sfilata, nel perimetro dell’onorificenza funebre in cui ci riconoscevamo e che tanto ci spaventava. Giocavamo a far finta di conoscersi, e non c’eravamo nemmeno messi d’accordo.

Lentamente, uno dei fari proiettati nella locanda, posizionato all’ultima fretta e furia disponibile, cominciò a surriscaldare più del solito il bordo dei cartonati portanti, e non ci volle molto prima che la notizia facesse il giro degli angoli del locale, sconcertando le voci stridule fino all’ultima delle resistenze. Seguimmo tutti l’incedere incessante della marcia, qualcuno di scatto si lanciò dalle finestre socchiuse e venne raccolto nelle ceste dei portalettere e rispedito nella confezione. Qualcun altro provava a trattenere il respiro per distrarsi dall’odore, e il più delle volte preferiva lasciarsi cadere, ammosciarsi per terra e svenire tra le fiamme, piuttosto che sobbarcarsi la fatica di qualche inutile reclamo.
Ci volle solo un lieve riavvicinamento alla vita, da parte del gracile macellaio, prima di sospendere gli occhi a mezz’asta e incorniciarci dentro la mia figura confusa, e probabilmente anche troppo poco integra rispetto a quella che potesse aspettarsi da un semplice cliente. Domandai la porta del bagno con una lamina di sillabe quasi impercettibile a orecchio nudo, dopodiché trascinai gli occhi lungo la sua lama fino alla punta del coltello, che m’indicava una tromba metallica di scalette a chiocciola che si diramavano dall’angolo della carne di maiale fino al luminosissimo sotterraneo. Uno stretto corridoio bagnato al neon rifletteva nevrosi clandestine di corrente alternata, lungo la ceramica delle piastrelle tirate a lucido. Un tappeto invisibile stuprato da continue cascate di basalto fuso. I miei passi non riuscivano a far rumore, soverchiati di riverenza per l’assoluto silenzio di quella cornice.
Raccolsi una gomma da masticare dal rossetto della manica e tanto mi bastò per prendere le gambe e schiaffarle contro l’oblò della porta scorrevole, che dava fino al sottoscala col vespasiano.

Accanto a me, in equilibrio sul buio, le sagome ingiallite di milioni di incontinenti, veloci ombre innervosite, mi fissavano a scatti i volti di tutti quelli che erano passati di lì prima di me. Mi si stringevano al collo nella morsa di antichi spiriti, insoddisfatti dalle generazioni concepite. Vidi tra di loro piccole assi di legno sgraffiarsi a vicenda con le punte sporgenti dei chiodi, fino a consumarsi a sangue negli urti inevitabili con le pesanti superfici di marmo battuto. Mi rimase della cenere sul ginocchio, corsi a leccarmela e uno di quegli uomini mi si piantò davanti, senza presentarsi né chiedere spiegazioni. Ansimava, con gli occhi spalancati, e mentre gli altri lo spintonavano una delle assi mi si strusciò lungo il solco di una vecchia cicatrice. La fronte di quell’uomo era l’unica parte di sé che avesse conservato la memoria di una vaga sfocatura di colore. Tirò fuori la fiocina da dietro la lingua e mi conficcò vari gradi di veleno dritti nell’interno coscia, a peso di piombo. Sotto a cosa si ripara il carcerato quando viene il terremoto, capitano? Che fine fanno le matricole? Gli tirai una mano sulla faccia, senza precisione, senza riuscire più a vederlo. Sotto a cosa mi metto, brigadiere? Come risciacqui gengivali in lontananza finalmente riuscivano a riemergere i primi suoni, simili a martellate d’ovatta sulla pelle d’un tamburo tribale, e nessuno chiedeva in cambio una mezza sigaretta o uno spicciolo per fare festa, per potermi osservare, impiccato all’interruttore, mentre affogavo. Mi abbassai sulle ginocchia, sfilando lentamente i pantaloni. Tutti gli occhi addosso, e in pochi possono sapere quanti, a rubarti a gratis le soddisfazioni di una pisciata isolata. Veleggiavano intorno con pupille affilate, nelle loro orbite celestiali, sventrando i grossi nervi del muro come la corteccia di una quercia secolare. Senza controllo, ogni tanto alzavo lo sguardo verso il soffitto e mi sentivo libero. Veniva quasi da domandarsi come mai girasse in entrambi i sensi, il vortice dello scarico. Non avrei saputo descrivere fino a che punto esatto di collisione potesse confermarsi quella verità, e tra le unghie bagnate di mousse delle schiere profanate dei pisciatori, chiamati a raccolta da incastramenti superiori, realizzai una mezza spiegazione solo quando già non riuscivo più a vedere altro sotto le caviglie se non il cadavere rigonfio dei pantaloni sfribrati, lasciati liberi a marcire sul pavimento, bagnati della più divertita desolazione. Un brivido gelato lungo l’interno coscia sinistro, mentre li tiravo su. Strinsi la mano alla piccola porticina del sottoscala, chiusa a chiave dall’esterno, e cambiai direzione.

Risollevai l’oblò dal suo paradiso di distrazioni e con qualche sforzo navigai fino a raggiungere nuovamente la tromba delle scale. Continuai a scendere seguendo i pendii traballanti degli scalini metallici, dai quali esalavano lontane eco, come di confusi mazzi di chiavi violentati dal pollice del guardiano, a ogni rintocco di suola. Il piano al di sotto del sotterraneo; nuovamente i piedi si saldavano nell’asciutto, l’aria viziata e in un lato del piccolo bunker squadrata la figura rifinita di quella che dalla cicatrice sul collo riconobbi come la moglie del macellaio. Stava in piedi dietro alla robusta vetrata di un casottino, improvvisato biglietteria, e dal piccolo forellino rotondo posto all’altezza del mento mi chiese di svuotare almeno una delle tasche di famiglia, e poi di procedere verso delle striscioline di plastica trasparente raccolte in una specie di macabra tendina. Di là dal muro ritrovai Georg il sasso, imbustato dentro una sacchetta di quelle per i prelievi del sangue e riposto accuratamente dentro una cassaforte lasciata col coperchio socchiuso. Lo presi per mano, lo rinfilai nella tasca e imboccando nuovamente la tendina mi riportai verso le scale a chiocciola e continuai a scenderle, un piano ancora, verso l’uscita.

Le chiazze neroverdi delle venature rimbombavano trombe da bersaglieri sulle pareti febbricitanti, sbattute sulla porta a colpi di ferro, nell’incedere continuo delle controfigure. L’odore di bruciato del cartone portante riempiva la clessidra di fumate di un denso nero appiccicoso, e i cardinali da capo col copione in mano si rituffavano sotto chiave nella salamoia di una nuova votazione. Guardia, dimmi, quando viene il terremoto? La marcia della tonnara vomitava il passo anfetaminico della prima sbronza cruenta, sputi sanguinolenti filtravano addosso agli osservatori come piovuti dalla picca di un’implacabile falange romana. Il fracasso di un primo incendio doveva aver confuso la psiconautica militare, e restava una fronte sfocata a insidiarmi sotto tempia le sue contraddizioni al silicone. Quando viene il terremoto?

Il mondo all’esterno s’era fatto giallo e umido; le nuvole riflettevano i primi raggi del sole, sortiti in ritardo dal mosaico delle nubi per rischiarare gli ultimi traffici del tramonto. Fuori da quella baracca infernale, affrescata alla palermitana, un Cristo irredentista versava fialette d’orina infetta nella gola dei mendicanti, e cercava poi di convincerli a sputarmi in faccia. Fortunatamente, bagnato fino al cavallo dei jeans fuori dalla macelleria, dovevo pur contare qualcosa più di lui, e nessuno s’azzardò a dargli retta. Qualcuno tra i più orgogliosi continuò ad osservarmi ancora per qualche momento, poi anche loro realizzarono, e fu calma piatta fino al sopraggiungere della stanchezza. Mi strinsi la tasca in una risata e c’addormentammo entrambi sul primo sedile macchiato di sperma della carrozza per le biciclette d’un treno in demolizione, al deposito della stazione centrale. Nel bel mezzo della demolizione.