79 febbraio

Soffio di fremito, abitudini sbagliate che si consolano delle preoccupazioni altrui, quant’è verde il vento stanotte, non mi sono mai sentito le pupille sudare tanto, Nina d’Amore dell’Est, quello che dici risuona di cattedrale-miniatura nella teca del Museo Etnografico ma ti assicuro che non me ne importa, basta qualche rimbombo per giustificare tutto quel che ti parla, e resta il catrame sull’amaro, le gole sono aperte, srotolate, sullo spiedo rotante del kebab austrungarico, prendono caldo e si girano dall’altro lato, distese sui sassolini sgretolati della lunga strada camionata della prima periferia, come volerseli assorbire se li mangia e aspetta che qualcuno se la venga a riprendere, senza troppe ambizioni di riarrotolarla di nuovo, a ritmo di musica si contorce e grida, muta, non te l’aspetteresti un accendino che schiocca scintille preciso a tempo del ritmo da osteria, senti adesso il violinista che ti guarda, sentilo come si avvicina per implorarti monete con valori inesprimibili in valuta corrente, lo senti sgomitare la fisarmonica e tutte insieme si tirano dietro il coro dei compassati ululanti che con la testa squadrata vengono alla balaustra delle tavolate condivise con la coppia di Gemelli Occidentali, che pure riescono a trovarsele da qualche parte quelle monete, non si sa come, il fracasso che fanno i musici non si può sopportare amico, dagli qualcosa, dai, crocerossismi tipo le Bulgare Nuove accomodate con gli stipendi esternalizzati che trovano modi di riempire i boccioni di plastica da tre, quattro, cinquecento litri di birra calda, ispirata dalle goccioline della condensa amarissima che risuona nelle teste dei volenterosi come siringhe di insopportabilità da parco divertimenti, nel parco, la panchina è abbastanza comoda per chiedere informazioni, prima di essere invitati a soffiare nei tamburi degli imbuti rovesciati, prima di vederci rosso da tutte e due le orecchie un momento prima di ingoiare il panino con la salsiccia di porco marinata nel cumino e i cani si avvicinano, e i cani vengono chiamati per nome da ignoti proprietari improvvisati, e i cani vogliono il cumino, e i cani sentono le voci, e i cani obbediscono, e pensano al cumino cinquecento chilometri più lontani dal guinzaglio dei colleghi dell’autogrill, e quando ancora non se ne riescono a dare spiegazioni nuovi canotti di pane gelido sfilano palle di carne e verdure grigliate mesi e mesi e anni prima, e ricotta e pomodori tutto insieme alla senape di una panca più lontana, fitte nell’addome e un caffè stabilizzatore, e ancora quelli se ne pensano al cumino, come si fossero persi episodi intergalattici di qualche racconto interessante davanti al focolare del Kyuboto con le terrazzine per fumare senza andare in strada, e quando ti risvegli, qualcuno più interessato di te la coperta l’ha trovata e te l’ha messa addosso senza badare troppo ai cani, finalmente.

78 febbraio

L’odore di funghi non si sente più sotto il mentolo delle domande dell’Istituto Nazionale di Teologia Marziana, ancora non si vedono passeggeri o turisti che si fermino cinque minuti a parlare col Demonio mentre la metropolitana sbaglia tutto e ti porta al terminal più avanti, dopo cresce l’odore di tabacco, il tappo svitol della bottiglia da cestino che ti insegue in mezzo alla tappezzeria stile Sessanta delle panche del vagone di terza classe, e l’ossigeno fresco evapora sotto il Sole del Tredicesimo Reich, e guardarlo da lontano significa esserci affogato dentro con tutte le carni che qualcuno ha marcabollato preciso apposta per le tue esigenze, il divano e un senso di vuoto, in mezzo ai documentari natgeo.bg, un vecchio uomo con la coperta del Poeta, ti mette in guardia dalle risate sciocche che ti partono dal naso quando vorresti non dover avere un corpo da tenere al guinzaglio, le parole del vecchio tramontano sul mare insieme alle sue ginocchia, che si piegano per dormire lì dove dorme qualcuno che si è imparato un paio di libri a memoria e non ha nessun motivo di fartelo sapere, un nudo gomito femminile, elegante braccio aristocratico, s’intreccia con l’incidente diplomatico caduto fra collo e cranio, indica città di mari lontani e si arrotola alle strane pendici della carne, che poi non si ricorderà come mai non aveva voluto chiamarti, non si ricorderà come mai poi ti ha chiamato, come mai poi i gatti randagi ululano in faccia ai cani stupidi delle cicatrici che ti porti in fronte come segno inevitabile dei sagrestani che ti sei scopato sulla via di Damasco, insieme a qualche Samaritano di passaggio che ti faceva la spremuta col succo e polpa d’anguria mentre te ne stavi a fissare la lama con cui tagliava gli spicchi e pensavi, sognavi ti tagliargli le ossa dei capelli e delle unghie, e i denti frizzavano davanti alle zampe impallottolabili del sacro divenire delle angustie terrene, un momento nuovo che sembrava non potesse avere l’ardire di finire dentro il cerchio ruvido d’un ex pozzo venerando, rimasto incinta di cemento armato sul più bello della tovaglia di stoffa, rossa e verde senza rispetto per il buongusto, e qualche cucchiaio bastava di nuovo per tornare fuori dalle allucinazioni, un nome, un cognome distinto e indistinguibile tra mille altri che ti girano in testa insieme a un taglio degli occhi che ormai vedi dovunque e chissà fino a quale argine lontano dei tuoi desideri possa continuare a fidarti di lui, e poco lontano un fagiano non c’entrava niente, un nome, un desiderio altrui, un paio di tempie terremotate, un sogno di naftalina che stringe i pantaloni senza fibbie valide da contenere, chissà quale malattia venerea poteva portarsi via Tolstoj, la sera che se la svignava, e amava, amava tanto, povero coglione di un veritiero, Karenina, e il posto resta libero, un volto di Nina che spiaggiato lontano lungo sassi bagnati e plastiche insabbiate, per un secondo netto, non riesce a fare a meno di pensare ai colleghi, teneramente.

77 febbraio

Nessuna importanza, teschi di voci ravvicinate si alternano lungo i muriccioli della darsena sovietica, inciampando nelle zampe molli dei cani randagi, croci di sapone, tumuli gialli di neon e luci verdi domandano il listino prezzi all’avvocato e riattaccano il telefono per farti salire sulla giostra, le voci rimangono a metà, sortite maldestre dalle gole sudate, ogni qual volta ringrazi Lawrence e la tazza d’arabica per la stimolazione febbrile, e quando meno te l’aspetti lamine d’oro perfetto scolpiscono il naso delle Madonne Ricurve dell’Est, e prima d’allora non ti rendi conto, non vedi le telecamere, fino a quando non incroci il soffio illegale d’una Signora che ti offre bicchieri di plastica e posaceneri col coperchio abbinato alla tappezzeria, e volano voci di sagome spaventose, linee di simmetria che partono dalla testa e se ne vanno a inumidire i piedi sotto tonnellate di grasso animale e denti rovinati dalle fibre delle arance fuori stagione, vedi la cannuccia sul tavolo e una lingua stentata che rincorre gli sbagli sempreverdi lungo le ringhiere gialle delle cancellate delle scuole, ogni mattone si muove, ogni pietra sul selciato della Rambla Nera ti scorre sulle caviglie per darci rapide puntine d’occhiatacce e predominio, in fondo il parco, di là la chiesa, tutto si definisce nella geometria dei Leoni del tribunale, ogni sasso ti rotola addosso insieme ai pezzi di ferro appesi ai commilitoni, che ti seguono con lo sguardo come appestati fuori misura, e solo tempi perduti da ringraziare prima d’essersi ritrovati, e qualcuno insiste a tornare indietro fino a morsicarmi il futuro, affogato nello yoghurt saporito d’una zuppa al prezzemolo, ogni tanto volano le lettere centrali d’un grande palazzo di Stato, e non sarebbe meglio domandarsi quanto una panchina fuori dalla porta di ritorno non dovrebbe ritornare a ingrandirsi, a farti spazio mentre te ne scorrazzi intorno parlando delle inquietudini dei mondi di mezzo, dei lampioni senza interruttori da sconvolgere, con solo qualche altro adesivo in tasca e le sigarette senza filtro che ti mangiano le labbra sotto l’insegna cirillica della stenta, quella clinica, che ti rincorre dal sagomato del cadavere sul tavolo al pezzo di intonaco sfregiato, e poi fin sui cartelli dell’uscita d’emergenza e sulle lampadine spente che non si capisce bene da dove provengano, sempre che si dia per scontato che poi il passo successivo è un altro pezzo di tavolo da fracassare con le ossa dei capelli, ogni arcivescovo si porta dietro il coro più buffo che si possa sentire, dritto davanti al serissimo corteo nuziale di vestitini rosa e fiori sparsi lungo le navate rotonde dell’organo, e poi già arriva l’ora d’uscire dalla macchina fotografica, tanto per tornare a viversi da un’altra parte, con qualche insegna in meno, meno pastelli laminati sottili come spilli da dentista, e gengive che sanguinano al tocco dell’asciugamano quando poi ci ripensi e capisci che già t’andava bene, [quando non è il caso non è il caso, forse sportività significa anche stringere la mano all’imbuto che non si riesce a rovesciare, quando non si riesce a rovesciarti la pupilla sgozzata in conversazioni postume e immagini di frustate sui piedi, pronte a sfidarti di nuovo].

76 febbraio

Deserti, non più cantine d’Occidente, sogni di scriba, amanuensi piegati in due dall’insofferenza, parlare di sé, termini di cosmogonia irrimandabili, soffi morbidi sul pendio della testa, piccoli segni di denti rotti che graffiano la pelle sensibile, senza bagno schiuma tutto diventa più reale, e solo quando si sorpassano i limiti dell’eccedenza pare che ritornino i sacerdoti dall’aldilà della vita quotidiana a benedire profumi d’incenso e stupratori con la mirra nelle mutande che ti guardano dall’alto in basso con la semplicità di una bambina che si morde la lingua davanti all’insegnante di ginnastica, il giorno degli esercizi difficili, della prova cronometrata che altro non ricorda se non quando eri piccolo, in piedi sulla sedia della cucina, davanti alla finestra col telescopio puntato sui passanti, e le cornici diventavano sogni di cera e scintille luminose che divampavano fino a quando non si abbassava la saracinesca e le sedie e i tavoli di ferro rosso restavano incompiuti dentro un garage di primissima periferia, addobbato a santi monaci e crisantemi d’edilizia troppo moderna anche per le schiere infinite dei cinesi troneggianti, che contavano gli spiccioli da rinchiudere nei piccoli tubi di plastica dentro un furgone con la targa coperta e le coperture di nylon sfilacciate intorno ai finestrini, che ti risucchiavano lungo la polvere dei sedili, e di nuovo veniva l’altalena del tuo piazzale personalissimo a ritirarti da ogni scena abominevole nel silenzio della Domenica rovinato da spasmi di pistole giocattolo e cartelli stradali ammaccati nell’orgoglio, nella divinità, nel ruolo dei più istituzionali che altro non rimaneva se non linee, piccole linee di svolgimento pari alle code mozzate delle lucertole, senza per fortuna voler dir più niente che l’ansia di un ragazzino sfuggito dagli zii intorno al tavolo della cucina e pronti a soffiarti via il salotto con la partita di calcio rituale che segnava il confine tra i mattoni rossi della grande scuola pubblica di stato e tutto quello che davvero ti scorreva lungo i fianchi insieme al sudore freddo sotto al sole caldissimo dei pomeriggi interminabili, fatti di macchine fotografiche senza rullino e frustrazioni di gatti dentro un altro garage che piangevano, piangevano continuamente, e mangiavano, mangiavano continuamente, e da fuori potevi sentirli, li sentivi continuamente, e mozzavi code di lucertole, e mozzavi code di cartelli stradali, e mozzavi code di mattoni rossi, in piedi alla finestra della cucina, e il vicino con il gelato da servire al cane, morto d’infarto per colpa del tempo, e continuamente li seguivi dalla bicicletta che si allontanava nel nuovo minuto raccomandato, e ti lasciavi raccomandare dai passanti, da quello vestito di nero che ti guardava con occhi da sellino e barba lunga fino all’angoscia dei malleoli, e volevi morderli, volevi mordere i malleoli anche se ti faceva paura, e le credenze erano soltanto mobili di legno che non avevano altra certezza se non quella del tuo futuro, misurato in centimetri e tacche progressive immaginarie, e chissà che aria, chissà quale aria da lassù, da dove lo specchio non si piegava nella cornice bassa del muro, ma si lasciava servire dai volti di pietra imbiancati dalle schiume della vita, che non era la tua neanche stavolta ma che di sicuro non sarebbe potuta esser altro che il tuo migliore amico per il resto dei giorni, la tua esistenza che mangiava biscottini al sapore di pollo gironzolandoti intorno a forza di colpetti di coda, e ogni tanto ti tiravi in faccia qualche secchio di bastonate da riportare indietro prima di sera, prima che facesse buio e non si vedesse più in terra in mezzo ai fili d’erba che crescevano sulla fronte di chi li guardava, e ti dava l’idea che quel posto fosse infinitamente più enorme, più infinito delle ghiande che raccoglievi dalle altre parti, e non sapevi perché tutto era così zitto, e non ti spiegavi come mai fosse tutto silenzioso fino all’alba dei cadaveri dei giorni dopo, giorni che non c’erano neppure per un errore strano e imprevisto dei calendari, e ogni attesa era la verità della tua persona, coi pantaloni corti, la bicicletta verde preferita e il cambio a rotelle che si insinuava in mezzo alle dita per rivalità d’un campanello rotto e canne infinite che si sotterravano da sole dalla paura di cadere, e quando cadevi volevi rifarlo e l’innaffiatore automatico ti irrigava i pantaloni della faccia e tutto si faceva stretto e breve intorno ai misurini di medicinali sparsi sulle piastrelle malconce della cucina, lì di nuovo alla finestra, in mezzo alle scintille, telescopiche, e ti si chiudeva il bandone sul naso e gridavi, zitto, nel bagno, nuove scoperte che misuravano a forza di finestre incrinate la veranda della tua genialità perversa, fino a quando non ti crollava addosso pure lei e te ne tornavi a perderti nel letto, le mattine con la testa al posto dei piedi, i pompieri che non si sapeva da che parte fossero entrati, fascicoli aperti e fogli sdraiati per terra come carcasse di orsi polari in una fossa comune della grande Austria dell’inizio del secolo, e nuovi millenni in un singolo cigolio ti spalancavano le palpebre su una maniglia che non poteva esser lei ma che continuava a muoversi, a piegarsi senza ritegno senza aprirsi mai, e a volte sembrava dovesse farlo e ti mettevi a sedere sui fragilissimi divanetti vellutati di rosso, lì dove giocavi di nascosto con la palla di gommapiuma per terrore che si rovinassero i musei con tutte le loro perline sacre di plasticaccia viola e scaffali pieni di pezzetti verdi che dovevano essere del tutto particolarmente intoccabili, e ti sembrava buono, che ci fosse sempre un letto, per tener la testa al posto dei piedi, e dormire.

75 febbraio

Ritorna, nel completo abbandono di sé, ogni primavera di luce a sprecarsi di fatiche inutili per ritrovare il sostegno di mille e mille fiumi, dei miei occhi a planisfero, rotondi come carta da forno immacolata di annunciazione, e sarebbe meglio proibire, con leggi di Stato e carte bollate di altissimi ministeri da sottaceto, a costruirmi recinti intorno alle pupille con tanto di guardiani armati di torce e pistole elettriche con la punta arrotondata conficcata nei cadaveri vivissimi di nuovi e nuovi suicidi sempre freschi, sempre col gambo appeso all’albero di legno della fucina dell’abbandono, nuove carte spese a giocarsi in giochi antichissimi, ripetuti per l’Eterno, in ogni assaggio di primavera ritorna a marcire l’angosciante banalità del continuo ritorno, della mediocrissima reincarnazione, resurrezioni fuori moda, abituate ai colori dei minimarket bengalesi, a pochi centesimi quadrati di cavatappi rubati e zaini ricolmi di tempo risparmiato, ritorna sempre da capo, la forza di un inizio già finito in tempi non sospetti, quando ancora non si parlava, e non se ne parlava davvero, di ricordarsi dei contenitori degli altri come se avessero una qualche continuità col tetrapack del proprio cervello, annodato intorno a slogature di polpacci e caviglie malconce sporche di granelli di sabbia e polverine calcaree sgretolate dalle marmitte calde e dai fermagli slabbrati delle carrozzerie rigate, con soffi di luce che rimbalzano fin dentro l’abitacolo e si sperdono sul tettuccio in cristalli di milioni di rifrazioni sbagliate, a inseguirsi per l’infinito sotto l’ombra sagomata dei cartonati della Natura, che frastagliano l’ultimo ricordo di un tempo possibile solo nel futuro, rendendo omaggio alla devastazione di pochi passi successivi al monastero, là dove verso Rila sorge il sole in forme di aspettative, e ancora non se ne sa niente se non che forse qualcuno ti ci porterà e ti ci farà aspettare il prossimo ritorno alle lavastoviglie, alle ganasce sempiterne degli sbavatori assoluti, pochi assaggi di cortesia perdute nelle mance, e in un colpo solo niente di corporale mantiene più una sua qualche forma d’orgoglio tradito, se non ancora vivido nuovissimo ferro da combattimento, nei cappi appesi ai soffitti delle segretissime Segreterie di Stato, lì dove ogni riflessione cade nei pezzi di vetro incocciati sul pavimento a righine colorate, e per sempre continuerà ad aspettare la nuova primavera, con un sussulto di leggerissimo vomito ambrato, colare lungo i bordi della bocca in perle di rugiada e sudore, raccolto da fialette chirurgiche, specializzati dottori di Comprensione che tutto vedono anche senza nervi ottici saldi e manomessi, bypassarti non è mai stato così soddisfacente, e adesso farlo è un obbligo morale, comandamento sacro e inviolabile a suon di lavagna e unghie gessate per una trentina di giorni almeno, fino a quando poi un altro infermiere a bastonate sul prefabbricato verrà con la gola calda e umida a urlarti nell’occhio che tutto va bene fino a che la sala d’aspetto sarà piena e niente e nessuno, lo dice il sussidiario, niente e nessuno, secondo il sussidiario, dovrebbe poterti convincere a non replicarti nel cerchio, nel pendolo a muro della nuova primavera, seriamente, cosa può esserci di meglio del canto degli uccellini del Natale floreale, e perché non starsene seduto davanti alla fauna cittadina a guardare di segreto tra gli spifferi dei palazzi geometrici tutto quello che di nostalgico e derubato adesso non si riconosce più, ma che ancora deve avere qualche valore, deve avercelo per forza, altrimenti non avrebbe senso tutta la nostra storia, tutta la letteratura, che ci siamo finiti a fare sull’argine di un fiume se non era forse per bere, e chi se lo ricorda più perché ci piaceva, però a tutti piace e gondole di nausea attraversano le tribune degli spettatori, mentre tutti seduti a gambe incrociate dopo l’orario d’ufficio si sperticano lungo i cornicioni per trovare nuove e nuove e nuove forme da modellarsi addosso, sui propri cartonati immensi, fino a che non sarà la gondola stessa, a piacerti, a riempirti di sperma le pupille con le sue nerissime doppie dimensioni, spiaccicate su una carta d’identità scaduta, valida per l’espatrio, ma chi vuole espatriare, e dove, dove dovrebbe andare se non verso il cucinotto, la lampada alogena reclinabile che si può mettere esattamente dove ti pare, e ogni angolo buio si metterà insieme a te sull’argine, dopo l’orario d’ufficio, a pensare alle raccomandate di ritorno e a incrociare le gambe lungo se stesse per lasciarsi riempire, riempire fino all’ultima goccia di spazio disponibile, dalle sacre icone dipinte a mano e sfoglie d’oro, che si riversano lungo le moschee delle strade secondarie, senza fondo ma con un qualche ricordo di quando eri bambino, di cani che ti inseguivano fin sulla porta di casa di qualche parente lontano che nel frattempo sgozzava le galline, e tirava il collo fino a non riuscire a sentirti, e per fortuna c’erano portoni, portoni immensi con maniglie da cassettiera che si blindavano tra te e il cane, e lo lasciavano fuori, libero d’andarsene sull’argine se volesse, che tanto ricomincia l’orario d’ufficio, e se anche non ricominciasse, c’è comunque sempre il cane, e di sicuro è meglio aspettare.

74 febbraio

Vidi salire la valigia dell’architetto fino a scomparire sui tetti innevati della prima estate d’amianto, l’ombra di Dio trafitta dal cranio della polvere suonava l’armonica a bocca soltanto per noi soldati del futuro, sugli scalini si appoggiava alle ringhiere l’insegna luminosa di una tabaccheria in orario prolungato fino a dopo le redenzioni di un sonnambulo, ogni particolare sedeva al suo posto come in un mosaico di lasciate speranze e consigli provvisori, niente di quello che potevate sentire allora vi sarebbe rimasto da qualche parte nella tasca, insieme a me, un prete in vestaglia e sigaro ammezzato vagava sotto i lampioni sparlando del Verbo e dell’oscurità, quasi non si sentiva altro che la montagna dei suoi rifiuti umani accorrere fino a stringergli le ginocchia in un muro del pianto genovese che mi lasciava in bocca come un senso di latte e miele e germogli di sale marino essiccato, l’imbuto restava sospeso, non c’era collegamento diretto, non abbastanza veloce, all’infinito lo sbattere di un rumore, contro i veli appassiti delle testuggini, mentre arriva la Madonna vestita di candido e salmonella a cambiarmi il secchio sotto la grattugia per il cranio, qualcosa di meglio mi promette che dovrà arrivare, mi guarda con un sussulto di improvvisazione e rimanda tutto a dopo l’intervallo, quando un signore di poco più di un’eternità da masticare si alzerà sulle spalle e togliendosi il cappello finalmente ci lascerà entrare, con tanto di mostrine e sacchi neri intorno al collo, dritti fino al bancone del bar, a ordinare camomilla per tutti e doppie dosi di caffè misto alla frutta che nessuno era riuscito a trovare giù nella bassa campagna, intorno alle pareti limacciose del fiume libero, quando ancora si portavano gli occhiali alla moda di Parigi e tutti si accontentavano di avere un quadro elettrico da saper gestire e tornare a casa sporchi di fango e con la tanica della camicia macchiata fino all’orlo della disperazione, le famiglie li guardavano allora, e li vedevano brutti come di una bruttezza segnata a inchiostro di verità nelle cornici di un siero sintetizzato in fretta e furia sulla riva di un mare bianchissimo e con la febbre a novanta che portava nuovi amici dentro i saccappelo dei traditori e delle donne di pubblicità, rossetti da grande schermo che sfilavano su vestiti inadeguati e grasse risate, intorno alla corte ripetuta di qualche grasso paramilitare vestito da Gabibbo che portasse ancora sicurezza e gelido tepore domestico nelle corti della Francia più rassegnata, e quando ancora poteva sembrare che bastasse non se ne usciva mai, e ancora di nuovo una volta ancora serviva replicarsi, anche senza faccia bianca e inchiostro da progettatore genetico spalmato intorno agli occhi, bastava lanciare eserciti di grida scomposte per tagliare tutto in un misto nylon di specialissima rassicurazione, e quasi tutto sembrava come prima, e ancora si era sereni, perché alla fine migliori, perché alla fine i migliori della fogna, e la fogna serviva per guardare giusto mezzo centimetro liquido più lontano della miseria delle scarpe da montagna ricucite che mi nascondevano il cadavere dal fiume, giusto che se ne accollasse finalmente una qualche responsabilità, non viveva nessuna delle restanti, nessun parametro, questa è la via, il salvacondotto per un prossimo coinvolgimento maggiore, due libertà che si scontrano, si danno morsi sul collo come fossero cani finalmente lasciati umani a gioire del guinzaglio pendolante dalla ringhiera di un grosso palazzo di mezzo piano sotto la terra, lasciato a marcire nei relitti di bottiglie di vetro e mozziconi di sigarette in autocombustuione che facevano perdere l’orientamento fin sopra la tastiera del divano senza uno dei tre cuscini, quello dove dormivi, pensando al terzo, al figlio forse più importante che ti ascoltava da sotto il terrazzo come orda di eserciti in pensione che si fanno le parole crociate di ritorno dalla Guerra Santa, e i denti che si staccano dalle gengive e finiscono sul collo, via dalle bocche umide dei vecchi tabagisti e fanno la tracheotomia alla sussistenza nevrotica, tintinnano il clitoride della Zita fino a stuzzicarle la radice del cranio con punte di trapano a manovella e segatori finlandesi di montagna che si abbracciano a fine giornata vestiti da sarcofagi dissacrati, spolverati da bande di sciacalli in tenuta antisommossa, grasse risate e vestiti inadeguati, e poi ancora ritorna l’ombra, spolverata via, dal cranio, di qualcosa che ancora non esiste se non nella tua testa, nella tua, nella testa, solo dove l’hai lasciato solo, ancora ti fissa, continua a farlo perché tu le vuoi che si abbracciano, che si abbracciano per te, per una pace nuova e tempestiva dopo le punte affilate dei coltelli a spalancarti alfabeti in costruzione di ponteggi di vetro e camicie da notte rosso umide, dietro cancelli aperti e auto in fuga nelle sirene della notte, che seguono per la loro grassa strada con lo stereo a tutto volume e i volumi incorniciati da un color rosso simmetrico come il punto nero che esplode sul volto ogni volta che si sente parlare di persone che non dovrebbero parlare se non quando il maestro le mette in punizione per aver fatto troppi, veramente troppi, davvero esageratamente troppi compiti a casa, senza che nessuna nonna morisse d’invidia a pensare al corso di laurea d’un affogato, strette intorno a nuove palme da quarto piano a fissare passanti albanesi con le dentiere bianche e i vestiti brizzolati dalle rughe della strada, quando ancora una strada non era niente di meno che una feritoia nel mondo verticale, un supporto alle esigenze di un disegnatore quattordicenne ricoperto d’ovatta e gommapiuma, e a forza di movimenti nuovi i tendini continuavano a replicare al mondo a microfoni spenti e con l’autoradio rubata, soli dove solo qualche altro curioso ricercatore d’interruttori li ha lasciati a implorare perdono dai passanti, dalle catene divelte della sera tarda, dalle limousine interminabili dei vecchi amici seminati lungo le rotaie a forza di fischi e botte d’asfalto, lungo i corridoi delle visioni del futuro, tutto quello che inevitabilmente dovrà succedere adesso per non succedere mai, e quando ti vedi, ti vergogni.