73 febbraio

Continuava diritto, non era nuovo per lui. Il mento di tre quarti rifletteva pallido nello specchio convesso, disperso tra sfumature ingrandite e lo sguardo disperso nella chiara luce dei quattro fari al neon. La voce della radio resisteva tra le pale innervosite del ventilatore, da cui sprigionava un ronzio sordo come il pomeriggio di metà luglio. Dietro lo specchio, pochi barattoli, e lui seduto di fronte ai segni rossastri dei gomiti disegnati sulle cosce nude. Si respirava aria gonfia e appesantita di monotonia, non c’era da sottrarsi alle intemperie della noia. Ogni passo spiccato verso il mare era frutto di terze possibilità, mai concretizzate nel lusso di un’immaginazione vaga. Soffrire era rimasto privilegio di pochi benefattori, e quel che più induceva in tentazione era la fila di turisti davanti alla cassa del bar, che sembrava messa lì apposta per riempire di schiaffi le facce dei disperati e poi supplicarli di scappare con le tasche piene verso tutti i finalmente di una mezzora successiva nella latitanza latinoamericana. Arrivò il giorno del bagno nudi nel mare: sembravano le due o le tre di notte, se non fosse per la luce della radio e i fiotti di bambini dissanguati che scorrazzavano sotto il cielo asfaltato. Pochi spiccioli nella mano, un soffio di vento e la sabbia che li divora, che viene a leccare la punta della mano con le sue grosse fusa al sapore di nylon e lamiera. Una carrozzeria che accumula gradi centigradi per il solo gusto di tenersi compagnia. Ogni memoria è il richiamo di una foresta incendiata, diventa il segno di un incubo recente, di quelli che tengono sveglie le persone migliori per una quarantina di minuti, agonizzanti, sotto il riflesso dell’occhio assassino che dal quadro sopra il letto ritorna ogni volta a morsicarti il collo, per poi uccidersi nel ventilatore. Ogni passo di felicità diventa panico e disorientamento, la fatica una dolorosa abitudine, la nausea il compagno di viaggio dall’uscita del carcere fino alla prima macchina rubata intorno a un cassonetto vuoto. La forza di un castello di carte che si agguanta alla radice delle unghie e ci sbatte la punta del naso, alternando leccatine veloci e risate spaventose. Ogni ringhiera resta ferma. Ogni ringhiera resta sufficiente per se stessa, e chiama qualcuno. Svuota qualcuno. Un cane senza ombra né affetto, alza le virtù e ci mette la parola fine, come segno di compassione. Continua dritta nella corrente misteriosa delle segnaletiche, gli spasmi di tamponamenti mancati, le angosce del ritratto in salamoia di un passato scomparso.

72 febbraio

Salì di lontano un’ombra di ripetizione, cresceva lungo le pozze d’acqua dei marciapiedi e ci fissava da lontano con occhi di sogno, vestito di speranze ammuffite nei frigoriferi al metanolo delle pause pubblicitarie. Se ne percepiva la presenza osservandosi i piedi, in serate fredde e pungenti della tarda età. Tutto inutile, sforzi clandestini per trattenersi le mutande con gli avambracci, e finivano sempre per tremare e screpolarsi, sotto il peso delle forzature, delle pantomime notturne, il caos degli animi ordinati. Venne in su fino al naso col portamento distinto e la resurrezione da gratta e vinci, coi cinquanta centesimi ancora invischiati nella polverina grattata via, e si presentò ai fratelli dei lampioni. L’odalisco era un mezzo di sovranità, una vettura termovalorizzata di arie condizionate e sputi di vanità in faccia al vetro specchiato dell’orologio da tasca, accanto al pugno. Succedeva spesso, succede ancora, ogni volta che i girasoli si prendono malattia e si tranquillizzano i nervi del collo, una volta tanto. Succede ogni volta che nei campi coltivati i fiori clandestini sbocciano bianco frizzante e la condensa cola lungo le terre sassose e sconnesse, in rigoli di puro estratto, piccole boccette di assoluta e inviolabile nostalgia. Il genocidio loro lo conoscono bene, e se ne rammentano quando passa il motore una volta ancora a scuotere le teste con guantino di lattice e occhio severo, mille alveari dal passo incerto e compassionevole che tirano fuori il bisturi dalla cravatta e lo tengono saldo, nella crepa chiusa dentro la tasca, pronta a uscire, a salutare a festa grande gli oceani coagulati del prossimo, amato come se stesso, come se fosse disteso, e tanto alla fine è lo stesso. La calcolatrice batte ticchettii senza tregua, conta i millimetri degli scontrini, i litri e litri di cotone misto nylon ammatassati in gola, e tutto quel che si raccontano, cullati dai pezzi di vetro della moquette, in giorni profumati di nuovo vomito da bestia domestica, animali in fuga verso la reincarnazione che si distinguono per l’eleganza e per l’inimitabile aristocratica vicinanza con le loro feci solidificate dalle settimane di polvere e pulviscolo ardente.

71 febbraio

Bitmap esadecimali, suoni d’esasperazione psicotronica. Contare le tabelline sulle dita della manica, sognando tuffatori di Giappone insinuarsi nel fresco limo di un Nilo disorientato. La vasca del pesce richiama tentazioni proibite, tutto si fa metro quadro. Intanto sotto al ponte, miliardi di minuscole lampadine s’accendevano e si spegnevano al ritmo cardiaco dei tecnici parolieri, a veleggiare in comitive di tre dalla centralina fino al bancone dei tatuaggi. Codici identificativi, numeri di serie e licenze d’autore a inchiostro colorato. Una seria ragione per accettare l’incarico, il salario e tutto il resto. Ancora una volta, eccovi in prima linea, pronti a morirci tutti d’amianto e considerazione. Dal ponte, sedicenni si scambiavano occhiate languide, sicuri di non esser riconosciuti, e le aspettative dei più si fermarono a un ghigno veloce e un nuovo tuffo carpiato dritto nel torrente senza fine né quadratura delle speranze future. Occhi verdi di smeraldo trovarono insegne luccicare senza posa, mostrare riguardo alle sole vecchie conoscenze di tempi andati e carezze che furono. S’intenerivano al solo pensiero di nuovi tramonti che potessero acconsentire alle ricapitolazioni di quanto non fosse già stato dimenticato in abbondanza. In lontananza le sagome scure dei portatori di piombo sforzavano i muscoli facciali in manovre contrite di ordinaria disperazione. Poco distante, omuncoli in miniatura si lasciavano vivisezionare dai microscopi dei grossi pali portanti d’acciaio, dall’intelaiatura impigliata nel cemento armato. Uno di loro si chinò per terra, e con le ginocchia infuocate ebbe virtù di tirar fuori la lingua e abbandonarla, finalmente rinsecchita, lungo le asperità dell’asfalto. Ne uscì inghiottendo sospiri di sollievo e lisciandosi il pelo sul pietrisco liquefatto dalle manie di protagonismo del Sole. Posizione di riguardo quella dei rispettivi centralinisti, che sotto alla grande campata del ponte, si radunavano nelle roulotte di servizio a scansionare le minacce della loro permanenza. Uno di questi signori giurava d’aver sentito parlare un bullone, una volta, e non la smetteva mai di raccontarne ai quattro venti i frutti della conversazione. Diceva che il bullone si era lamentato della sua funzione, della sua stessa origine di vita, monouso, insignificante e ben poco remunerata. Invidiava le sacre virilità dei cacciaviti, dei martelli e persino delle più ambigue chiavi inglesi che lo avevano accompagnato durante l’ultimo viaggio. Non si seppe molto del resto, ma pare che poi quel bullone sia rimasto esattamente inchiodato dove l’avevamo lasciato, borbottando in altre lingue qualche verso sconosciuto e incomprensibile, affidato all’atmosfera come alle cure d’una madre apprensiva. Il frastuono dei grossi cavalloni dell’Oceano Pacifico risputava a nuova vita le rimembranze lontane dei pozzi di periferia, i quali assunsero sempre nuovo potere, diritti sociali e capacità amministrativa. Di lì a breve, si riuscì a stordire a tal punto il maestoso tirante principale del ponte da farlo vacillare più di una volta, in occasione del passaggio dei treni sul binario centrale della grande opera. Starsene seduti lontani significava starsene ad aspettare. Aspettare il momento del crollo, della rivelazione, del niente di fatto che finalmente poteva mescolarsi liberamente con un nuovo e ritrovato senso di colpa, personale a tutti gli effetti. Non si poteva chiedere di meglio da una sbirciatina rapida e indolore. Il ponte dichiarò la propria resa, le roulotte si scoperchiarono lasciando abbronzature irrispettose sui capi dei funzionari, e tutto si risolse con qualche deceduto contenibile e nessun ferito. Nuovo giro e nessuno dei nostri colleghi restò presente abbastanza da potercelo raccontare.

70 febbraio

L’eco bisticciata dei cardinali rintoccava sulle guglie dei marciapiedi fin dal fondo della strada. Le prime requisitorie formali avevano già lasciato il posto alle consuete messinscene della controffensiva d’ufficio. Si sentivano alcune punte a spillo soffocarsi in gridolini sommessi da dietro le facce punto croce del banco degli imputati. Tutt’intorno, si respirava disapprovazione, reprimenda e buona educazione. Il mogano delle rosse tappezzerie circoncideva ogni sorriso al gergo amorfo delle circostanze. Le folte chiome biancastre della stanza ripugnavano gli astanti a suono di fumo impregnato e tanfo di unto, che rimaneva ad aleggiare tra le teste dei giurati fin nelle pieghe delle camicette, sbottonate al petto come giovani apprendiste. Una di loro aveva l’aria d’esser particolarmente contrariata dall’aria viziata dell’aula, e cercava nuove vie respiratorie continuando a sfilacciare sempre di più la camicetta sul corpo. Continuavo a chiedermi per quanto tempo avrebbe resistito, si tenevano delle vere e proprie scommesse sottobanco tra il macellaio e il paramilitare, sotto la telecamera di sorveglianza del veterinario. Una bisca clandestina, tenuta in piedi in buona regola dalle frenesie di quel benedetto pomeriggio di tempo perso. Alzai gli occhi verso lidi più felici e accoglienti, un posto dove le camicette avrebbero parlato anche di me, e dove magari l’avrebbero fatto pure in mia presenza, magari proprio per farmi felice, tutto per conto mio. Strattonai le caviglie e rimontai i malleoli verso direzioni più propizie. Abbandonai l’aula del tribunale per rigettarmi nuovamente in strada. La strada era l’obiettivo spontaneo, involontario e incontrollabile di ogni mio abbozzato tentativo di fuga o simili. Mi rendevo conto già all’epoca di quanto fosse semplice e scontato rimettere tutto alle casualità e alle mediocrità della pubblica piazza, del brodo comune, ma tanto mi aiutava a risolvere i problemi, e tanto bastava assai per rigare dritto. Rivoltai le maniche della cravatta e subito lì sotto ad aspettarmi c’erano i profumi del mercato dei fiori di Taipa. Le bancarelle parevano ricoperte d’una specie di ottone sbruciacchiato, corroso dal tempo acido delle piogge della Cina indonesiana. Se ne stavano disposte in geometrie impeccabili lungo i mattoni sconnessi del pavimento lastricato, infiltrando rigagnoli di fango e liquido di governo a conserva del microclima, che qualche buon santone della tradizione doveva aver tramandato loro, probabilmente con un certo velato disprezzo e svariate insidie umorali dell’età, mascherate in un nodo di curcuma riparato dallo zucchero a velo. Al di là di quanto ci si possa aspettare da un mercato rionale, tutta la grande piazza addobbata era deserta, e alla mercanzia abbandonata a se stessa altro non riuscì di meglio che starsene a ragionare col tempo delle vecchie spasimanti di parecchi novembri migliori. Girai il dente sulla mandibola e dalla cima del lampione, intiepidita di jeans e di sudore, si odoravano adesso gemiti quasi impercettibili di dolore fisico. La cena era finita e s’era portata via pure tutte le indiscrezioni del caso, lasciando l’amaro in bocca al pubblico improvvisato. In un attimo ci trovammo tutti d’accordo, prendemmo l’interruttore e ce lo lanciammo addosso con grasse risate d’accompagnamento. Ripescammo la fondina dal letto del fiume e restammo al buio, insieme ai gemiti, a passare il resto del tempo aspettando che la realtà se ne tornasse da dove era venuta.

69 febbraio

La sera capitava spesso di imbattersi in un nastri di luce sospesi che dal marciapiede rintoccavano i minuti con gemiti acuti da bambino, brevi e discontinui. Nell’insieme, si formava un mosaico di suoni che riempiva le strade, da moschea a moschea. A prima vista pareva già inopportuno chiedersi spiegazioni. Poco lontano si montavano gli interruttori ai due lampioni di nuova generazione sotto casa del sindaco. Uno dei suoi sottosegretari da qualche tempo si era rinchiuso dentro con lui, nel soffice nido da primo piano di un minimarket 24h. La palazzina era identica in tutto e per tutto agli altri agglomerati del quartiere, inchiodati nella divisa giallo senape dell’intonaco da guerra. Interminabili milizie di mattoni e periferia, a passo d’oca lungo tutto l’accampamento dell’autostrada. Di tutto quel che se ne potrebbe raccontare, l’unico motivo di sincero interesse era quella spianata di tetti perfettamente regolare, schiacciata sui soffitti, inciampata nella speranza fallita di una prospettiva più debole, una linea che potesse precipitare di sotto fino ai marciapiedi bagnati. In definitiva nessun appiglio per chi dalla strada cercasse la via breve per il successo. I consultori domestici dell’ora di cena brillavano motu proprio di strette di mano e preghiere al silicone che s’infrangevano tra le punte arrotondate dei cappotti e i vapori dell’arrosto col contorno. Solo qualche latta di passaggio ostacolava la marcia dei probiviri verso la Gerusalemme incordonata, dal Primo Mondo fino alla tavola. Restai gambe incrociate a guardarli, appollaiato sulla punta dei lampioni insieme agli operai e agli scatti meravigliati dei loro interruttori nuovi di zecca, attraverso le piccole vetrate che ancora resistevano nella senape, affogate come sardine in una padella trasparente, soffocate dal culo pesante delle alghe incrostate e dell’odore di salamoia che le penetrava come spilli in una spugna morsicata. I due si guardavano, si sfioravano le dita con le punte dei palmi e seguivano le rispettive temperature nel vortice di squilibrio e destabilizzazione. Ogni singolo grado di maturazione corporea si rinchiudeva sotto la tovaglia in frenetica masturbazione, verso l’ora dell’aperitivo.