59 febbraio

Nel Maggio della prima periferia disegnavano linee dorate sui gradoni scomposti del centro storico. Capannelli con l’autorizzazione per il suolo pubblico si scambiavano segni di sussultorie esistenze ipotetiche. C’era chi osservava. Nel mezzo, fetore di cadaveri e vetri rotti, si concretizzava il mosaico silenzioso di uno scultore pirotecnico. Sensibilizzatori infranti lasciavano nuda la voglia inesauribile degli autocomunicatori, pronta a prendersi a testate con l’incapacità più assoluta di contegno e ricordanza. Avevo fame. Muscolature intiepidite salutavano zaino in spalla le vecchie croste sui lineamenti amici, e non c’era bisogno di controllare il cielo sulla testa per camminare dritti. Fusi orari scorrevano in biciclette arrugginite intorno ai passanti spaventati. Palpare non era ormai diverso dal respirare il cartone gelido delle pareti schiaffate sui palazzi. Ogni freddo era lasciava in bocca sapori diversi; dalle lamiere ai mattoni vandalizzati, persino i cani avevano un freddo più umidiccio e sovreccitato degli altri. Rapinatori invisibili di gradi centigradi scassavano le vetrine spremendo sottopelle il concerto degli antifurti. Premevano, appena all’interno, l’ultima superficie di carne secca verso l’esterno, lasciando tremiti di palpitazioni elettriche. Un foglio di carta, e c’era chi osservava. Il vetro dimenticato sul marciapiede contendeva il sonno del padrone, reclamando attenzioni dai guinzagli più agguerriti. Un rapido cenno di saluto al sapore di colesterolo riportava le planimetrie nell’ordine sparso di un segno verbale, senza cronologie consultabili in tempi ritrovati. Un accenno di colore, canaglie rivelate attanagliano il consueto alternarsi delle comparse. C’era chi osservava, destabilizzato. Tremava, dei vapori acidi di una gelida felicità al gusto d’ammoniaca. Le prospettive scoperchiavano i resti stropicciati delle pagine di Scuola, residui di antichi modelli, e cominciare significava smettere di chiedersi da dove cominciare. Faune scalpitanti di plastiche violacee tenute per mano da frasi di circostanza, prosciugavano i reni leccandone la punta affranta dalle circonvoluzioni del ventre. Dormire non era mai stato più nauseante e fascinoso. Finalmente liberi, scariche continue di occasioni future rimbalzavano contro il muro delle traiettorie costituite. Senza affanno, un cortocircuito silenzioso pendeva dal contagocce della flebo e risaliva fino a tamburellare con le nocche da dietro il timpano, bussando nervosamente sulla pelle di tamburo. Contingenti militari possedevano le carni e costruivano i girarrosti in rapida successione, come catene di montaggio a violentare le Sorelle. C’era chi osservava, e reclutava parenti da sottoporre a trapianto osseo. Famiglie di donne incinte partorivano dietro alla corteccia cerebrale, schiamazzando nel dolore di cocktail di liquore e placenta che filtravano via dai pori del cuoio capelluto, immobilizzando gli arti sul lettino del chirurgo. Camici amici tradivano, e se la ridevano tra loro nell’incoraggiarmi. Non avevo mai partorito prima di allora, e pensai fosse un modo per cavarmela, ingannare il tempo nel ritorno sulla via del caldo. Trapanai la punta metallica di uno schienale e mi ci infilai per i piedi, facendo attenzione a non rigare la scatola cranica. Subito dopo arrivò la notizia che il silenzio era tornato ad assillarmi coi suoi tondi occhi verdi. La follia di un pallino verde. Conficcato nei polmoni ricoperto di glassa a frammentazione. Ero rimasto invischiato, forse una trappola, una fodera di gesso stretta intorno agli occhi rimbuzzati dalle anfetamine di un solo, preciso, indirizzo stradale. Dal Profondo Stop del sistema immunitario, mi incatenava i polsi alla punta tiepida di una lingua meravigliosa.

58 febbraio

Vivevo conficcato nello stantuffo di un cancro alla moquette. Colate di specchi colorati rimbombavano immagini sbiadite nell’aria densa di fumo, a intervalli regolari di vulcani inattivi di legno e mostri di carta a fare la guardia, pronti a risvegliarsi da un momento all’altro. I millimetri dell’usufruibile si frazionavano con la violenza del parto subacqueo di uno storione in nuove indecifrate unità di misura, accaparrandosi solide provocazioni di plastiche ferrose, lamine multiforma multimateriale, lega di finto PET, accartocciate sotto forme diverse e diverse funzionalità, si proiettavano nelle pareti tappezzate a compensazione del midollo spinale mutilato. La loro esatta posizione, all’interno del polmone d’acciaio quattro per tre, era quasi sempre molto più importante della loro funzione o dell’uso specifico per cui erano state razionalizzate in qualche capannone a chilometri di zone industriali più distanti. L’armonia delle forme si reggeva ubriaca su un gioco d’equilibri e di scenografie, con la funzione d’un cartonato a grandezza naturale della propria partitura bidimensionale. Un modo come altri di schiaffarsi da soli olio su tela nell’Ottocento di civiltà sconosciute, coincidenze senza tempo capaci di dimostrare equazioni esatte di ciascun mattoncino di cartone, senza mai la voglia effettiva di tirar fuori tutta la cattiveria potenziale. Il campo di battaglia a mezz’altezza piegava la testa all’unica sostanza dell’abitacolo, il suo vincolo di mistica osservanza luminosa. Ogni riflesso aveva più concretezza delle pupille strangolate che se ne lasciavano impossessare, e ogni condomino, più o meno ammanicato col Consiglio d’Amministrazione, doveva rimettersi al comandamento. Ogni devianza, ogni perdizione che si lasciasse lascivamente trascinare dalle manie di solidità veniva annientata dalla moquette, impregnata di polvere nera e cenere dal profumo sabbioso, come forze di polizia pronte all’azione, come fosse il turno d’un Natale senza scrupoli nell’uso della violenza gratuita, feticisticamente intrecciate col rumore metallico del sangue rappreso, scivolava dalla testa del padrone lungo le fessure lasciate dal fumo. I liquami pendevano dal soffitto fino a stuzzicarmi le radici del collo in nugoli contraffatti di eritropoietina ricca di fibre e flore di fermenti in subbuglio, e ciò che vedevo bastava a nascondermi tutto il resto, con aria compiaciuta. Non si sentivano le differenze. La stanza era un silos di cattive intenzioni sciolte nell’alcol.

57 febbraio

Grosse attrici si infilano marmitte alla vaselina nella stilografica, nascoste dietro una grondaia. Resto a vedere sdraiato a prendere il sole sul tetto catramato della ciminiera in disuso. Passano le Sorelle col solito carrello della spesa pieno di taniche di plastica da riempire alla fontana municipale, e incendiano d’invidia le punte dello scappamento. Le attrici si sporcano di bruciature e si sfilano le parrucche di scena per solleticare le membrane ustionate con un altro pezzo di ghiaccio. Dall’altro lato della strada orde di sedicenni escono di scuola. Una ragazzina si avvicina a un pustoloso e gli fa pesare di essersi dimenticato di grattarle la schiena per quindici minuti tra la terza e la quarta ora. Lui tira fuori una vanga dall’abbecedario, si scava una fossa e ci spara dentro le carcasse dei genitori. La ragazzina lo distrae, prende per mano il testicolo sinistro e comincia a fissare la ciminiera. Vecchi guardiani protomorfi abbozzano movimenti circolari con le mani increspate dalle rughe e sputano chiazze di densa bava arancione dalle gengive. L’ora di geometria esce dalla finestra e conficca un goniometro nell’addome di un automobilista frettoloso per condirsi l’insalata. Il semaforo riprende vita e la ciminiera riempita dalla ragazzina mi comincia a gemere saliva sulla schiena fino a slegarmi la cintura. Nel frattempo sotto sfilano, nell’ordine, una carovana di negrieri nordamericani, i tre figli froci del capomafia cinese, uno sniffatore di naftalina col naso afflosciato sulla guancia destra, un prete col complesso di castrazione e il cappio d’un guinzaglio tatuato sotto l’ombelico, un tabaccaio che accompagna il registratore di cassa nella sala aborti, una coppia di giovani geometri che si misurano a vicenda con un compasso di plastica, una ventina di gnu fuori programma, tre bersagli mobili inseguiti da una banda di cacciatori olandesi, un cane che porta il padrone morto in bocca per regalarlo al tappeto nuovo di una famiglia di sorci, otto nani impilati uno su l’altro per un totale di un metro e cinquanta di pensionata col bastone, l’ombra di una guardia che se ne va da sola spiaccicata sui muri dopo aver preso a manganellate il legittimo proprietario. Sulla ciminiera, la ragazzina arrampicata apre la bocca e dentro si intravedono, nell’ordine, una voliera lasciata all’abbandono con sette condor boliviani e rispettive consorti, l’addetto alle pulizie dello spogliatoio della polisportiva, la salma di un direttore di gara pedofilo appesa a un cordino di nylon rivestito di peluche rosastro, un anziano ferroviere ritornato nel periodo del righello, reparti interi di feti abortiti dalla cocacola. Inizia il pomeriggio.

56 febbraio

Sassofonisti slavi sputavano nei clavicorni con la ferocia di cravattari sifilitici. Mi tenevano il fiato appiccicato al cavallo e se la ridevano sconquassando la segnaletica con larghi rondò andanti da spumeggiare addosso, sguardi di passanti, scavavano e furie di mentolo e piano bar a ricoprire. Quando mi distraevo, il passo mi si regolarizzava e loro smettevano di biascicarmi cattiverie nell’orecchio. Cammini come un albero che insegue i flussi migratori delle resine in mezzo a un deserto roccioso, amico, lo dico per te, e ridevano. Ehi amico, lo sapevi che quelle palle strane che c’hai sotto la coscia si possono anche articolare, mi sembri un centauro paraplegico che si cerca le goccine per dormire in fondo alle tasche della pelliccia e si scopre le caviglie, e ridevano, intermezzando a turno con stacchetti musicali. Gente, piano con sti cazzo di cornivendoli che non sento bene la vergogna dietro ai timpani, e ridevano. Guarda, ti insegno un trucco, fai finta di sentire sulla testa il peso del mondo, come se il cielo ti schiacciasse per terra, e vedrai che ti verrà fuori una camminata più spontanea lungo sti marciapiedi ostili, e gli altri lo chiamavano frocio, così ricominciava, sempre con quel suo accento slavo da gatto randagio. Ehi amico, ma ci sei diventato da solo così o c’hai la madre di bricolage?, e ridevano. Uno di loro si sfilò la grossa custodia rigida che teneva a tracolla e tirò fuori un sussidiario medico, da cui estrapolò la ricetta del pollo alla naftalina, e si convinse intimamente dell’argomento. Ehi carogna, lo sai come si fa il pollo alla naftalina? Si prende uno stronzo figlio di un cane che cammina come una stramaledetta quercia secolare irrancidita, con un piccolo falcetto da conciatori gli si staccano le palle di netto, per non incattivire il sapore della carne. Si scuoia e si butta rosmarino quanto basta dentro le pupille dissanguate e con una cannuccia infilata nel buco del culo si soffia dentro la naftalina fino a riempire tutto l’intestino. Volendo si può aggiungere del bianco frizzante o dello spumante secco sulla pelle scoperta per insaporire, poi con la stessa cannuccia, una volta passato al girarrosto, si soffia dentro burro d’arachidi o passato di pomodoro, cosicché la naftalina possa risalire nelle viscere fino a riempire il cervello. Un paio di patate di contorno e sei fatto. Lo stacchetto venne interrotto prima del previsto da una casalinga di passaggio che malmenò il sassofonista con un coltello, si fotté il sussidiario e scappò via ammonendo gli altri, ragazzi però mi raccomando, non vi fate ingannare dai lampioni, viene freddo stanotte, fateci caso. E ridevano. Davanti alla sala prove dell’orchestra sinfonica mi presero per un braccio, mi infilarono un sughero in bocca e una sigaretta nelle mutande. Lo sai, caro, vieni sempre a girovagare da queste parti ma questa è zona nostra. Una volta un tipo più simpatico di te venne a importunarci all’angolo della drogheria. -Non potete sputare così in quei clavicorni, maledetti viscidi- diceva, e bestemmiava come il portiere di notte del bordello delle asiatiche. Gli feci cenno di avvicinarsi e gli sputai in gola. Lui si bagnò di sperma senza nemmeno togliersi i vestiti, continuando a bestemmiare ma con un tono di voce più coinvolto. Lo incatenammo a un palo della luce con un santino gigante appeso al collo, e ce lo lasciammo tre settimane, fino alla sera dello spettacolo. L’andammo a recuperare trascinandolo per i piedi fino sul palco, davanti al pubblico delle grandi occasioni gli risputai in gola, e altro sperma si mescolò alle croste maleodoranti di quello vecchio, liberando applausi e gran chiasso dalle ultime file del pubblico. Da quel giorno mi lava il cesso strusciando il culo per terra come i cani. Stai attento a dove passeggi, rischi d’innamorarti, amico. E ridevano, masturbandosi a vicenda seduti in terra con le gambe incrociate, come raccolti intorno al caldo focolare delle Vecchie Storie. Tolsi il sughero, lo infilai nel corno più vicino e mi sputai in gola da solo. Andai fino alla drogheria per cambiarmi le mutande, mentre loro mi inseguivano a passo di bassotuba col santino di sartoria già perfezionato per adattarsi al collo dello straniero. Cambiai semaforo, col peso del cielo che mi schiacciava per terra, e ripresi a camminare dritto.

55 febbraio

Vetrine umide, condensa di mani umidicce di bambino sui muri traslucidi, Pazienza termina e scuote roccaforti sommerse e fabbriche di bollicine. Tonni di cartongesso annusano l’alito ai passanti, parentesi quadre galleggiano sul pelo dell’acqua come kayak ammosciati nel gin. Stormi di vecchie carampane brancolano vedove tra gli addetti della vigilanza, incattivite da pere d’ammorbidente ruminano, bestemmiano, in faccia al Futuro e alla sagoma ingiallita di un colonnello della marina, amante dei piedi e della nafta sotto la lingua. Autocisterne d’alluminio svuotano mangime e carcasse di selvaggina, che si sciolgono in ustioni di terzo grado dentro le vasche acide. Un tossicomane della seconda media fischietta il motivetto da piano bar della filodiffusione in bocca all’accendino, e si chiede quanto tempo gli sia sfuggito da qui alla navigazione. Martelli e seghetti penzolano dalle narici incrostate d’alghe sott’olio dei manichini più stravaganti, davanti alla vetrina, due suore inorridite dai possibili riferimenti espliciti delle loro giravolte fantasiose. Come d’incanto appare la fatina dei denti, e uno squalo toglie il chiavistello dall’oblò per andarsene con la ventiquattrore e il sorrisetto all’ingiù di un grosso fuoristrada. In una delle casette galleggianti, una delle famiglie tropicali piange la dipartita dello sciamano-pesce, che s’era spiegato finalmente la ragione del vino bianco, al posto della solita acqua sporca della vasca, e del lontano fetore di fritto; non aveva retto il colpo e s’era portato il segreto con sé, dentro lo scarico, nello sgomento generale degli apostoli. Una donna sulla cinquantina si è arrampicata sul tetto e ha cominciato a pisciare sul lucernario; i riflessi di luce acquistano nuove e irriverenti tonalità giallognole, ammorbidendo la distanza dell’orizzonte, tra la sabbiolina del fondale e il rombo torbido della pompa dell’acqua. Una coppia d’orate lesbiche staccano una lisca da un merluzzo di transito e si cercano le vene sotto le squame cianotiche. Il pesce rosso spennella un cartello di protesta per farsi cambiare sistemazione, dato che la boccia ormai non attira più nessuno, e dove un tempo giravano vita e locali notturni adesso si spegnevano in coro alle sette di sera i negozi di vestiti e le profumerie da sogliole figlie di papà con la frangia conficcata nella borsetta. I tonni di cartongesso hanno cominciato a tirare il mangime addosso alla comitiva dei bambini sotto contratto con la maestra, e mangiano popcorn inzuppati nella chiazza di sangue di un delfino passato al turno di notte. Per fortuna mi sporgo sul parapetto del lavandino e faccio amicizia con un paio di vongole di quelle giuste, che mi portano una coppetta e un tubetto vuoto di dentifricio per l’ossigeno, e mi spiegano la situazione.

54 febbraio

Sputi di cloroformio nel polso dolente. Macchie di sole in fila alle tabaccherie per reclamare l’ora d’aria e cambiarsi i pantaloni. La lama dell’apribottiglie penzola distratta sulle gengive con movenze da uccello della brughiera. Rantoli di bile a scuotere intestini sovreccitati da missioni disperate. La carta intestata col rosa delle multe alle auto in sosta ostruisce le obliteratrici della stazione, e sfavillano puntini rossi e lampeggi di allarmi confusi tra i binari. Fregole nervose sperse nella goduria di rifiuti dispersi nell’ambiente. Sassi pesanti rimbalzano sotto le caviglie. Tisane allucinogene da venti centesimi al grammo spintonano d’arroganza il mercato dei contraccettivi in braccio a checche quindicenni con la tessera fedeltà dell’accademia allievi. Ponti levatoi senza porte né infissi abbracciano il castello di mattoni di bigiotteria della Psiconautica Militare. Le grosse lettere cattive dello stemma veleggiano spensierate nelle mutande delle palpebre, e non resta che scuoiargli addosso mozziconi vivi. Gomitoli interi di filo logico sprecato nella bava incandescente dei ratti randagi, invocano semidivinità sconosciute chiamandole con soprannomi di vecchie ganghe da bar. L’alito delle preghiere appanna i finestrini, e le manovelle incastrate nei lacci delle cinture volteggiano al contrario come sperma di pedofilo nello scarico di un cesso sudafricano. Voglie insoddisfatte si rinchiudono nel privilegiato godimento di una scarica irraggiungibile, con la ghigna del naufrago in un’isola deserta, mille scatoloni di travestiti gonfiabili che salutano le rondini. L’alternativa insegue le traiettorie della marcia da parati, come una donna fascinosa rimasta zitella che si lancia disperata alla ricerca di tutti i giovani arrapati un tempo rifiutati, prendendosi in testa lapidi di marmo incise di tempus fugit e bicchierini di plastica incrostati di caffè e liquori secchi alla papaya fermentata. Dai lampioni argentati pendono grappoli di raspi dalle coscienze disinibite degli allievi-maresciallo, mentre grossi piedi senza testa risucchiano tutto nell’imbuto conficcato in gola dalla tracheotomia della prima mattina di insonnia. Merda di Jack Russell, il Nano della TV, zampetta su sé stessa sbranando il guinzaglio del marciapiede, e ogni quindici chilometri passa una cameriera a versare per terra scatolette di stuzzicadenti usati per strozzare il cane col suo stesso rumorino fastidioso di ossa stritolate nel fegato. Una bambina in pensione riempie palloncini colorati col gas dell’accendino e si scioglie in grosse bestemmie nel vederli incapaci di volare via, suscitando l’ilarità delle numerose bande di mariti armati che passeggiano distribuendo mazze nodose e cornucopie di biscotti avvolti in farina di castagne. Manuali d’istruzioni avviano i passanti allo studio delle lingue antiche, sotto gli sguardi severi dei cassonetti. Carte di credito buttate in gola ai metropolitani si strusciano gli occhi a mezz’asta sul velluto delle tasche, riempiendo l’aria di odore di chiuso e gridolini scomposti dalla frenesia erogena. Ventitreenni antropomorfe migrano stampe digitali di nostalgia al profumo di rugiada dagli atelier di grossi pittori eunuchi della Bassa Continentale, richiedendo indietro i bei cazzi andati laddove la moda opaca lasciava perdite di incontinenza lungo i pavimenti moquettati, come bava vomitata da ghiandole urlanti d’una lumaca impazzita, mentre agli indiani restavano sottoscala pieni di cartelloni pubblicitari, con le mandibole spaccate delle giovani esploratrici esclamative. Messi comunali si arrampicano sugli enormi scalei, con pennelli incollati e secchi di targhe immatricolate da inchiodare sulle cornici delle loro avventure all’estero, piangendo striscioline di vomito violaceo dai contorni umidi dell’opale graffiato dietro agli occhi. Cappotti verdognoli riempiti di affaristi metrosessuali scuotono le tasche piene di tasti numerati, frantumi di calcolatrici come maracas cangianti venute dalla campagne a riempire le città-noia di funzionari e dipendenti. Prenditela calma, dicevano parlando con le vetrine dei concessionari, le esche vive, prenditela calma e fammi un resocontino veloce per i fornitori, che poi domani ti spiego. Un attimo che qui si muovono tutte, ‘ste cazzo di esche, ne compro dieci per lubrificare l’asilo di quel parassita di Metronal Jr. Comunque capito, una robina veloce, che sai come son fatti loro, il feticismo è il modo usa e getta di scontare il peso d’essersi fatti nascere, c’han sempre la paraffina nelle narici e talvolta perdono sangue dai frigoriferi da quanto mi cercano. La Madonna sulla due, correre.

53 febbraio

Mi asciugai le chiazze di bava bianca ai bordi della bocca strusciandomi sulla grattugia del marciapiede. L’elegante chauffeur privato m’aveva scatarrato fuori dalla bara di famiglia, un lungo sarcofago nero a rumore, non appena uscito dalla zona di sua giurisdizione, e stavolta di nuovo mi toccava farmela a piedi fino alla stanza. Ritirai la mano nella tasca del cappotto e presi a massaggiare il sasso. Lo stringevo tra le punte arrotondate del pollice e dell’indice, mentre col terzo dito compievo ritmici movimenti ondulatori sulla superficie liscia e biancastra. Infilai dentro al primo bar sulla destra con la stessa naturalezza spontanea con cui si ritirano su i pantaloni dopo aver intasato la tazza del cesso. Lo portai al tavolo all’angolo dello spazioso locale in stile moderno del quartiere bene della cittadina, cosparso di bianchissimi rosari al neon che rimpallavano impazziti sulla carta da parati rosa argentata, aggrappata al muro nel mezzo a ingombranti specchi inchiodati a casaccio lungo l’intero labirinto delle pareti. Sprofondai nell’imbottitura della panca e reclamai da bere. Mi divertivo a farlo arrabbiare roteandolo confusamente sul piano del tavolo, grondante vecchi strati di birra appiccicosa che gli si incrostavano addosso otturandone la dura pelle porosa. Lo guardavo mentre senza riuscirci cercava dentro di sé uno strillo da potermi conficcare in fronte; sorridevo e mi ripagavo d’ogni sforzo, nascosto dietro all’odio tenero che tentava in tutti i modi di sputarmi sulle mani, in improbabili tiri al bersaglio che mi facevano uccidere dal ridere. Intorno, frangette allineate scomode di disinvolte quindicenni a ultrasuoni spiccavano dagli alti sgabelli d’alluminio, riflessi dorati di ciuffi biondi sprecati nelle macchie di fango del pavimento, gelide maniglie penzolanti facevano da ornamento agli sbalzi di volume delle conversazioni. Sottili manici di penne stilo tentavano la sorte gettandosi nel vuoto dalla tasca del grembiule che ricopriva la mise da discomusic del giovane barista. Orchestre sinfoniche evacuavano sfregamenti di suole a ritmo sostenuto sul tappetino dell’ingresso, mentre appassiti inservienti di leva infilavano e sfilavano senza tregua lo stipendio dai portaombrelli, spiaccicandosi sorrisetti compiaciuti sul volto lapidario. Sbornie vergognose si nascondevano in tragiche sottolineature rosse sotto gli occhi schizofrenici del pubblico più contenuto, liberando nell’aria vorticosi avanzi di frasi sconnesse che si mescolavano ai cappotti e alle pelliccette spruzzate di fucsia in disorientanti, equilibrate, armonie. Una lunga tavolata di una decina di piante carnivore lanciava occhiatacce in cagnesco ai giovanotti ben integrati nella seconda stanza. Il maschio alfa era un trentenne sbarbato con un occhio gonfio di birra appoggiato sulla lunga mascella affilata, svaccato sulla schiena d’un ragazzotto stondato coi ricci castani, mentre il più magrolino di loro, esile figurina ebraica con file prominenti di denti da squalo tenuti in bella mostra e due baffetti neri pieni di schiuma e briciole, fischiettava sermoni che non facevano ridere nessuno. Abbracciato al sasso, mi godevo silenziosamente uno di quei posti in cui non si può star da soli nemmeno rinchiudendosi dentro le vertebre della propria fronte, uno di quei posti di cui si sentiva parlare da certi tizi spericolati che frequentavano le altre stanze. Mi avevano parlato di grosse teche di vetro opaco sulle cui pareti venivano riflesse le ombre cinesi di spogliarelliste sedute su raffinati cessi di cristallo, testimoniando il brivido di quella sottile linea di piscio che si riusciva a intravedere. Giravano voci che i tavoli fossero gabbie traslucide di grossi cobra in combattimento tra di loro, che li si potesse osservare mentre si inghiottivano per intero a vicenda e che ci fossero anche apposite griglie perforate per raccogliere sangue, veleno e squame dei serpenti, da aggiungere all’alcol per correggere gli aperitivi. Un tale mi parlò di una cameriera che scorrazzava nuda per il locale con un grosso cartello appeso al collo, con su annotato un registro dettagliato di tutto ciò che aveva tenuto in bocca nei suoi intensi sedici anni, anche se le aspettative più comuni erano rivolte a quelle sedute collettive di vivisezione dal vivo di seni umani sorteggiati tra il pubblico. Forse in particolare per quella delusione fummo subito inquadrati da altri due con tutti i crismi del novizio, in divisa da giovane coppia di adolescenti vagabondi, ripiegarono le labbra sul vetro caldo dei grossi calici e giusto per osservanza religiosa verso il locandiere vennero a sedersi con noi. La ragazza aveva l’aria silenziosa e pareva volercisi appostare in attesa di sedurre il prossimo con la malignità della sua risata cavernosa. Il ragazzo emetteva grugniti da paramilitare da una bocca slabbrata da overdose di grasso e coltelli. Il suo commento mi sbalordì: Una cameriera un giorno mi rivelò che nel linguaggio dei sordi l’attività del ‘lavorare’ si traduce con un gesto molto simile a quello universalmente noto come simbolo del buttanculo. Occhio a scopare con le sorde, che poi ti risvegli sotto contratto. Rimasi a interrogarmi dentro gli occhi della ragazza, mentre quello si trangugiava una birretta squallida quasi quanto le sue squallide pupille, spente come i fanali d’un vecchio motorino spazzato via da un treno deragliato. Mi accorsi solo dopo che quella ragazza era molto più di quanto mi entrasse nella testa e che riuscivo a contenerla soltanto sotto le attenzioni della lingua. Teneva una mano infilata nella tasca del paramilitare e una nella mia, e doveva aver ritenuto non fosse ancora il momento di mettermi finalmente a parte delle sue capacità. Aprii la bocca del sasso a forza e chiesi di rispondere: “Tempo fa conobbi una ragazzina sorda. Dalla faccia non le davo più di tredici anni e aveva trasformato la camera da letto della nonna morta da poco nella sua sala giochi personale. Passava il tempo costruendo e disfacendo casette di plastica di mattoncini componibili. Nella più grande delle casette aveva ricomposto la struttura esatta di casa sua, e nella stanza della nonna di lego morta aveva piazzato una mia controfigura legata alla rete del letto e imbavagliata. Tutt’intorno, dalle pareti pendevano lunghe picche di ferro battuto, fionde avvelenate, freccette con la punta arrotondata svitata, cinture sfibrate con fibbie a entrambi i lati del cuoio, statuette indiane in ceramica, gomitoli interi di corde logore da pianoforte, un paio di attizzatoi per carboni ardenti, arpioni slegati dalla collezione di fiocine del vecchio padre, borracce in alluminio piene del sangue che si era prelevata e thermos ancora caldi, scatole intere di lime per le unghie, tagliasigari, pomate e forbicine, lame svitate dai temperini rubati, resistenze da forno a incandescenza rapida, piccole betoniere piene di lacrime e peluches in continuo movimento, set di fialette piene di sudore e rispettive siringhe, tavolette del cesso colorate a pastello, aeroplanini di carta arrotolati sulle pagine del corano, collane di perle incrostate d’escrementi, termometri incrinati da cui spuntavano goccioline di mercurio come rugiada sulla punta di un cazzo orientale, pezzi di ringhiera con carcasse di cani ancora legati al guinzaglio, martelli pneumatici a forma di vibratore, candele nere a forma di piede di porco, formine da torta a forma di formine da torta rotte, chiavi inglesi infilate in toppe spagnole, spirali da cavatappi infilate alla meglio in una piccola piazza di materasso disteso sul pavimento sotto grossi paioli di saliva bollente lasciati penzolare a mezz’aria dalle funi inchiodate al soffitto. Ogni volta che la bambina entrava nella sala giochi, mi slegava una mano, cominciava a gattonare nuda intorno al letto chiedendomi a ripetizione senza mai zittirsi come mi trovassi a lavorare con lei e aspettandosi in cambio punizioni sempre più rigide e fantasiose”. Niente male, la nonna mi ricorda lo spacciatore di borocillina dello stadio, mi fece lui, solo non vorrei che poi la bambina di lego cominciasse a sua volta a giocare coi mattoncini mentre la sodomizzi. Alla fine le stanze sarebbero troppo piccole per infilarci il cazzo. Gli riconobbi col capo un segno d’intesa col resto di mancia, andai a pisciare gli altri spiccioli e in breve tempo l’effetto della confusione lasciò il posto a qualche fitta militare, un cesso di cristallo e qualche applauso.

52 febbraio

Una grassa balia messicana spalancò la zanzariera nuova del baldacchino rosso bordeaux, incorniciato di listelli di plastica dorata e vistose crepature ficcate intorno alle inchiodature nel legno. Portava la colazione al piccolo rampollo prima della cavalcata mattutina. Schioccai la nuca e fecero il loro ingresso tre tenori in tenuta da dame di cortesia, che presero la balia di peso e la cosparsero di cenere e sanguisughe al riparo del nascondiglio ricavato da un logoro separé macchiato di flaccido. Svogliato pesticciai le ciabatte di velluto, scaraventai dietro al separé pure la vestaglia sudaticcia e cercai di riprendermi dalla nottata febbricitante scorrazzando nudo tra le argenterie luccicanti dei corridoi. Incrociai il caponegro, che svelto corse a tirar fuori dalla cassaforte il guanto di velluto bianco delle grandi occasioni e iniziò il suo lavoro, mentre ancora in piedi appoggiato al muro mi interrogavo sul significato della filosofia. Una bella scarica di prima mattina ci vuole sempre. Lasciai che ripulisse il guanto e le macchie che annebbiavano le sfumature cangianti degli intricati intrecci del tappeto persiano. Non sopportavo le volte in cui succedeva, e avevo lasciato precise disposizioni che ogni singolo episodio della grande battaglia ricamata sul tessuto fosse sempre chiara e ben visibile, nonostante le incrostature giallognole che sciaguratamente non riuscivo a risparmiargli. Si sentiva sotto le unghie, poter riconoscere ogni qual volta lo desiderassi la mia indiscutibile epifania, stesa a medaglia nella tasca di tutte le luccicanti armature di ferro lucido, sbattute sul petto irrigidito dei vigorosi eroi del passato. Mi portai nella sala della lettura, e in mezzo agli scaffali della biblioteca rinvenni la soffocante figura di mia madre. Lo scorrere degli anni e dei liquidi organici del padrone di casa l’aveva ridimensionata alla squallida controfigura della sua stessa nausea, incarnata in vesti sformate e perdite di piscio. L’odore della sua incontinenza mi graffiava in profondità dietro gli occhi con vampate acide da roditore. Le era pure spuntata una grossa coda rosastra da ratto, che le si notava chiaramente nonostante si sforzasse continuamente di mascherarla con grossi fiocchi ornamentali alla vestaglia, o più spesso annodandosela in vita o tenendosela attorcigliata intorno a una delle sue gambe sformate dalle giornate sedentarie. Mi prese per mano e mi trascinò verso le stanze superiori, il suo terreno di caccia personale, per la cavalcata mattutina. Era quello da molto tempo ormai l’obbligo raccapricciante servito a contratto sotto la firma estorta di quella vita nel lusso. Lo stordimento dovuto alle dosi massicce di sonniferi e tranquillanti le aveva inchiodato nella testa che per strane ragioni costituzionali, in fin dei conti, le mie lacrime nascondevano eiaculazioni interiori inconfessate e inconfessabili, ma supreme. Io più semplicemente non ci facevo più caso, e mi prestavo annoiato alla sindrome del missionario che sembrava coinvolgerla così appassionatamente, come fossi io stesso l’unico individuo al mondo da salvare dalle proprie repressioni psicofisiche. Caritatevole, così tenera e apprensiva a preoccuparsi di me. Mi ripugnava. Mi legò uno spago di cuoio nero intorno ai testicoli, si sfilò una spilla da balia che teneva conficcata tra la carne della punta coda e l’ombelico e mi arpionò un lembo di pelle della palpebra destra per costringerla sullo zigomo. Estrasse una seconda spilla da balia, che non avevo idea di dove avesse conservato ma che sembrava maleodorare ancora più intensamente dell’altra, e ripeté la stessa pratica dall’altra parte. Con le mani rugose e sudaticce mi sfilò le ciabatte dai piedi, dato che erano l’unico indumento che avessi ancora addosso, e cominciò a sbattermi la coda su una coscia mentre con le dita cominciava a massaggiare le caviglie, conficcandomi le dure unghie rinsecchite in profondità fino alle cartilagini ormai prive di sensibilità a ritmo di severe strattonate di spago. Si rialzò scrocchiandosi le ossa consunte, e guinzaglio alla mano mi trascinò nella sala degli ospiti, una grossa sala polverosa che si avviluppava intorno a spirali di odori paranoici, rossori alcolici, rumori di persiane chiuse e colori spenti nelle miserabili tonalità di grigio che riuscivano a filtrare dalle incrinature delle finestre perennemente sprangate. A guidarla nella penombra, solo la luce di una torcia ricavata incendiando uno stoppino, imbevuto di benzina e attorcigliato a un grosso vibratore a manovella di legno e ferro arrugginito rubato tra gli scarti d’una collezione privata. La torcia, e il suo sporco sesto senso da bestia notturna. Al centro del locale, arredato in stile famigliola classe media della Polonia primonovecentesca, una grande vasca da bagno colma fino all’orlo trasudava stoffe insanguinate e clisteri galleggianti lasciati all’ammollo, nel disprezzo della mobilia circostante. Mi strappò via dai candelabri d’ottone a sette braccia e dalla patetica carta da parati scrostata dell’ingresso, con una tale violenza che per poco non mi sradicò di netto la fertilità; una volta raggiuntala dentro la vasca ebbe addirittura l’ardire di scusarsi, sussurrando parole senza senso, come se ne sputavano altre in faccia agli sfortunati neonati che in chissà quale infimo ospedale di periferia, s’erano ritrovati in quel momento a stringere la mano alla luce del neon per la prima volta. Il liquido stantio, esondato a litri al nostro ingresso, aveva riconquistato sul pavimento tutto l’antico fetore di piscio, sudore e vomito sanguinolento. Si abbassò verso i peli del pelo dell’acqua, con una mano nascosta negli abissi che mi accarezzava il sedere, e coi suoi osceni incisivi da topo in bella mostra risucchiò le macchie di sperma ingiallito che galleggiavano senza vita nella vasca. Con un rumoroso gargarismo inghiottì, e prese a leccarmi la faccia, fin sopra i capelli. Allargò le gambe e defecò dentro la vasca, invitandomi a fare altrettanto e cercando di stimolarmi con due dita infilate nell’ano. Massaggiava con l’altra mano lo stomaco e il basso ventre, con movimenti rotatori che si facevano più pressanti quando andavano dall’alto verso il basso. Impotente, mi sforzai e la feci contenta. Afferrò orgogliosamente i due nuovi ospiti galleggianti, uscì per avvicinarsi al grosso tavolo da lavoro e con un cucchiaio ne versò un po’ di ognuna in ciascuno dei sette piccoli calici di uno dei candelabri. Raccolse altrettante piccole candele e le accese conficcandole negli escrementi. Radunò poi gli avanzi, e li mise a scaldare in un pentolino insieme a dei rimasugli di brodo avanzati dalla colazione di chissà quanti giorni prima. Riempì di caffè e di assorbenti tagliuzzati le due piccole tazzine di vetro, e controllò che trangugiassi la mia razione senza fare domande poco opportune. I testicoli strangolati mi si erano gonfiati come due rossi copertoni pulsanti sotto lo sguardo diligente d’una vigilessa obesa, chiamata a dirigerne il traffico delle semenze affaticate. Nascosi sotto la lingua quanti più coriandoli insanguinati mi riuscisse di trattenere per non soffocare, e non appena se ne rese conto, appesantì la tensione dello spago, stringendo ancora di più il cappio sui testicoli, mi afferrò la testa e se la scaraventò sui peli pubici crespi e rossicci. Il puzzo fetido di fogna mi si avvinghiò fino al midollo spinale, e caddi svenuto, stordito fin nell’identità. Mi risvegliai di soprassalto pochi istanti dopo, soffocato. La testa immersa nel piscio e nei fragorosi gorgoglii che sbattevano di qua e di là sui bordi, la bestia fossile sopra di me, tenendomi schiacciato sul fondo della vasca, mi imprecava contro violentemente di vomitargli in corpo. Sapeva perfettamente che per come mi stringeva con lo spago non sarei stato capace di accontentarla, e in quell’agonia si ritagliava buona parte di tutto il suo godimento. Di colpo spostò il peso di lato urtando la vasca con una pesante spallata, e ci ribaltammo entrambi mentre tutto il liquido acido si dimenava a impregnare il tappeto lungo tutta la stanza. Mi sfilò una delle spille da balia dalle palpebre, avvicinò il mento ai coglioni e li trafisse con la punta del chiodo, riempiendosi la bocca col sottile getto persistente di sperma e sangue che fuoriusciva dalla spaventata sacca pulsante d’acido, lancinandomi i fianchi di dolore assoluto. Finalmente soddisfatta, accorse al pentolino ormai in ebollizione, dette una mescolata all’intruglio e mi lanciò una scodella, che mi riempì insieme alla sua, per la seconda colazione, di metà mattinata. Mi dette un bacio sulla fronte, grattandosi le orecchie pustolose, slegò lo spago e mi indirizzò a sculacciate verso le pantofole. Lungo le scalinate di marmo ripensai per un attimo che stare da mia madre mi veniva comodo, mi piaceva l’idea di non dovermi occupare personalmente di tutte le faccende di casa, a costo di rimetterci in intimità. Mi accesi un mozzicone avanzato e andai in giardino a perdere il tempo prima del combattimento, ripulendomi la bocca a champagne.

51 febbraio

Ossigeno rotto di collo, sabbia incrostata fin sulle radici dell’ugola. Argilla fusa gocciola sulle labbra screpolate, le palpebre inaridite si infrangono in mille pezzi nel tentativo di aprirsi. Una grossa zebra impaurita dal rumore di cocci si allontana in gran fretta con la lingua ancora srotolata sulla mascella. L’impugnatura di una carcassa nuda di carne essiccata mi si avviluppa lungo il polso, e si contorce in dolori intramuscolari. D’intorno, il piatto vuoto dell’orizzonte s’impicca con le ultime energie al manto ipocalorico del cielo violaceo. Per pietà gli tiro addosso una merendina, diventata un tutt’uno con la sua confezione di plastica liquefatta. Lo scossone mi scaccia di dosso il manto di sabbia e terra carbonizzata, liberando lo strato abbronzato di frastagliate insenature e spigolature pungenti di affilata roccia carsica. Raggrumo tutti i sassi del corpo, rimontandoli assieme distrattamente, mi rannicchio sulle gambe durissime e comincio a scavare una buca davanti a me, violentando l’equilibrio della desolazione completa. Un profondo cono rovesciato nascosto in mezzo al sole del deserto. Con le dita rocciose non faccio molta fatica a cavarmi l’occhio destro dalla grotta oculare in cui se ne stava riposto, così ancora insopportabilmente acquoso e umidiccio. Lo faccio rotolare con cura nella polvere, per poi rovinarlo in centinaia di sottilissime fettine azzurrognole macchiate di sangue. Una accanto all’altra, le dispongo a mosaico sopra un intricato telaio composto da un reticolo di pietruzze simili a dita dei piedi, e dispongo il fragile coperchio sopra la buca appena ultimata. Un pizzico leggero di granelli di sabbia a ricoprire il tutto, facendo attenzione a lasciare qualche piccolo stralcio di retina come indizio. Finalmente soddisfatto da qualcosa, mi allontano per vedere l’effetto che avrebbe avuto sul primo ignaro avventore, che avvicinandosi incuriosito dai bizzarri luccichii si sarebbe sfracellato la caviglia nel vertice irregolare del grosso cono. Dopo quelle che dovevano essere tre o quattro ore d’attesa, non si fa vivo nessuno. Comincio a girovagare nella strisciolina di terreno che componeva il diametro di un cerchio immaginario tracciato a qualche centinaio di metri dalla buca, nella disperata ricerca di un cespuglio, un albero, un sasso più grande di me, un nascondiglio qualsiasi dietro cui appostarmi. Ma non c’era assolutamente un cazzo di niente. Mi accovaccio tenace lungo le disposizioni orografiche del culo violato dalla schiena, vicino all’unico amico che mi riesco a trovare, un piccolo sasso rotondo dalla superficie biancastra e porosa. Con tutta la complicità che ha in corpo, quello mi avverte di stare attento alla buca cilindrica che ha innescato qualche metro alla mia sinistra. Mi dice che da quelle parti non c’è molto da fare e che ognuno dei sassi s’è messo da parte almeno una decina di buche da tenere d’occhio; entriamo in simpatia e aggiunge che prima lui era il figlioccio illegittimo di un trafficante di coltelli e di una giovane ragazzina svedese che un gruppetto di cinque petrolieri omosessuali si erano trascinati dietro fin dalla vecchia residenza estiva nel loro viaggio in sidecar, alla ricerca di nuovi mercati neri dove scambiare gioielli e fare affari con qualche teppista locale. In una catapecchia avevano incontrato un vecchio sordo che si unì a loro con la promessa di guidarli fino al capozona del posto. Lungo la strada avevano trovato uno dei sicari che lavorava per il capozona, il quale si innamorò di uno dei petrolieri e convinse tutti gli altri a fermarsi da lui. Una di quelle sere di tempeste di sabbie ormonali, la ragazzina sgattaiolò fuori da una porticina che dalla lurida cucina del sicario portava ad una tremolante scalinata metallica. Inforcò i gradini presa dalla curiosità e in mezzo alle colonie di ratti idrofobi trovò una cantina sommersa per metà dalla ghiaia, da cui spuntavano la testa e le mani, incatenate al grosso tubo dello scarico, della giovane moglie del sicario. Lui aveva cominciato a ripudiare le donne da quando aveva scoperto che per una qualche malformazione congenita la moglie soffriva di una crisi particolare che la obbligava a spruzzare una volta al mese centinaia e centinaia di ovetti infertili, quasi come si impossessasse ciclicamente delle gonadi d’uno storione gigantesco e partorisse puntualmente ogni mese tonnellate di durissimo caviale inutile. Con le piccole manine la ragazzina cominciò a scavare in mezzo alla ghiaia, e riuscì a liberare le braccia consunte e mezze putrefatte della donna, che ormai s’erano rinsecchite e rammollite sufficientemente da permetterle di divincolarsi dalle catene. Le promise di riaccompagnarla a casa, così ne conobbe il padre, il trafficante di coltelli, e se ne innamorò. Sciaguratamente il trafficante aveva fatto voto di misoginia con rituale sacro durante l’iniziazione all’harem dei trafficanti, e non potendola riconoscere la imbarcò su una carovana di negrieri, che una volta accortisi della gravidanza avevano gettato dalla carrozza in corsa il piccolo feto deforme in pasto ai licaoni. Così, nel tempo, era cresciuto il mio amico, adattandosi al territorio e costruendo buche, sempre più articolate e originali, divertendosi ad aspettare le vittime. Deve essere proprio quella tenacia a incuriosirmi così tanto. Abbagliato da grossi spasmi di fascino, rotolo accanto al racconta-storie e cerco di leccarlo con una delle estremità di pietra. Da molto tempo non lo faccio, così nelle mutande ritrovo una moneta lituana rimasta lì dall’incontro con il primo frammento della storia nascosta dell’incantatore. Appena la vede gli si accende qualcosa sotto la fronte levigata, come stuzzicato da strani ricordi congeniti, ma l’unica cosa che sono in grado di comprendere è che adesso si fida pienamente di me, per qualche ragione incomprensibile. Si avvicina e dalle rugosità porose lascia fuoriuscire una tiepida schiuma lattiginosa. Nel deserto ho scoperto perché si decide di diventare sassi.

50 febbraio

Più che una zuppa venne a svegliarmi una poltiglia di riso infettata d’orzo e schizzi d’avena e segale. Leguminose impolverate pendevano dalla lingua strangolata in templi sadici di saliva catramata e bava d’Oriente. Scodelle gassose m’avevano incastrato con la complicità di un fornello unto di grasso. Il cucchiaio sembrava fondersi al peso della vergogna, ogni volta surriscaldato dalla compassione sprigionata dalla faccia ancora ubriacata dalla sveglia. Macchie di cera e caffè grondavano affusolate lungo le ciglia spente, in attesa del ritorno del terzo giorno. La cenere spalleggiava il pavimento dissolvendosi in nugoli di polvere da sparo lasciata all’abbandono nella stiva di una nave cargo ormeggiata al porto dell’aldilà. L’insignificanza che sprigionava in ogni dove cedeva il passo soltanto alla mia distanza, sbigottita di rabbia e d’attenzione. Le tende di seta bianca colavano sulle palpebre in simbiosi osmotiche di secco confondimento. Abbandonai l’idea e le fiammelle blu riacquistarono vigore in girotondi epilettici di calore e superiorità. Mi rassegnai alla loro sicurezza e bevvi ciò che potevano offrirmi. Una volta seduto mi veniva molto più facile contare il denaro, ricordare di non aver mai avuto un portafogli, inforcare i jeans e uscire a leccare il marciapiede del giorno. Mi fermai a un semaforo sotto le frecciatine morbide di un gruppo di sordide cinquantenni in calore. Il tiro a bersaglio che facevano su di me mi gonfiava di sangue tiepido le venature ripiegate negli angoli del cranio. Una di loro dimenticò nella mia tasca i robusti occhiali da vista pieghevoli, e si segnò sul cellulare di ricordarsi di tornare a volerli indietro. Continuai a fissarle allontanarsi, coi loro occhi dietro la schiena fissi sulle macchie di farina dei miei pantaloni. L’ape regina del branco tirò fuori il coltello a serramanico e segno il territorio facendomi pisciare sangue dal ginocchio. Fu così che ci leccammo passatempi di confidenze, per poi lasciarsi andare distrattamente, nel sollievo generale. Distrazioni di poco conto assillavano il mazzo delle chiavi appeso al moschettone d’acciaio. Rientrai a casa, me lo sfilai e annotai qualche appunto di routine sul taccuino accanto al telefono. Mattina di sole, temperatura accogliente, tintinnio di chiavi e di piccioni, il forno e la donna sono terra bruciata. Entrando nel bagno notai che qualcuno aveva sistemato tra i lavandini uno studio per tatuaggi. Ritrovai l’impermeabile del veterinario appeso al gancio degli asciugamani. Indossava guanti traslucidi sopra una calzamaglia aderente di pelle nera. Anche stavolta riusciva a non perdere d’eleganza, di maestosità, fosse per la mie paure o per la sigaretta che spuntava dalla punta inumidita del bisturi. La sagoma armoniosa del corpo sedeva sul bidet, aspettandomi con un grosso tagliere da salumeria appoggiato sulle ginocchia. Mi accavallai sul pavimento e ripiegando la manica gli lasciai adottare il braccio destro sul tagliere. Sapeva convincermi coi giochi di luce; ammaestrava i faretti alogeni con la padronanza d’un domatore di cavalli, cuccioli disinibiti di iene silenziose affrontavano composizioni di colori da zoo, si disperdevano in angosciose maestranze di riflessi di fumo e se la spassavano sui centimetri quadrati del mio collo in gabbia col sorrisetto acido da mangiatori di carogne. C’era un che di animalesco in ogni sua persuasione. Mi sfilò due etti di crudeltà dal gomito, e prese a massaggiarmi le squame giallognole della pelle con occhio incallito da professionista. A testa bassa, osservavo il sangue claustrofobico trattenere sospiri di sollievo lungo la ceramica della camicia in segno di rispetto per i compagni ancora ostacolati dalla circolazione rallentata della posizione scomoda del braccio. Sentivo la lama, disinfettata sulla punta di un grosso accendino d’argento, dipingermi sfumature d’ustioni sulla carne cruda. L’acciaio del bisturi descriveva ad alta voce la mia situazione, come leggesse da una cartelletta i risultati d’un esame ospedaliero, compensando l’assoluta impassibilità del suo affascinante proprietario con una vocina stridula da neolaureato. Mi rassicurò una N sul gomito, forse una E sull’avambraccio, fino al sussulto di dolore che mi si spiaccicò cruciale tra le curve della S sul polso. Il veterinario si tolse la sigaretta di bocca, segnò una rapida firma strusciando il mozzicone ardente dentro le valvole in crisi d’identità, perse senza occupazione nelle loro vene prosciugate. Con quel che restava della sigaretta e dei brandelli di carne ustionata che si distaccava dai contorni arrossati del mosaico, diede da mangiare alla grossa lingua, che arrotolandosi come uno straccio strizzato tornò nuovamente a far visita alle mie preoccupazioni. In tutta risposta, quel grosso animale peloso che teneva in bocca masticò rumorosamente il pasto, tirò fuori un rutto polifonico e venne a strisciarsi sul braccio, temprando la carne ustionata coi vapori del raffreddamento e movenze fedeli sparpagliate qua e là per la stanza in segno di ringraziamento. L’uomo mi assicurò il bisturi dietro l’orecchio, ripose la cartelletta nel lavandino, si accasciò sul suo bidet a dondolo e prese a lisciare il dorso della lingua, sazia e assopita. Senza alzare il capo, ritirai umilmente il braccio ancora elettrizzato dai formicolii, facendomelo colare fino alle gambe rannicchiate; caratteri mastodontici brillavano luccichii mielosi, abbracciati alla calde vampe alogene dei faretti addomesticati. Ci addormentammo tutti, per una volta in famiglia a tavola tutti insieme, pantografati.

49 febbraio

Punteruoli d’acciaio, grosse scimitarre di cartone, battiti incerti sugli anelli in combustione, sfilate di moda squittivano sazie sullo stomaco dei pisciatori, sul palcoscenico si alternavano cabarettisti sordociechi prendendosi a colpi di bastone bianco e lacrimando rantoli di scuse e costernazione dal vetro lattiginoso degli occhi. Ragazzine festanti applaudivano risate scomposte e mi lanciavano dalla platea popcorn caramellati incendiari sulla camicia di cotone. Cercavo di raccoglierli sollevando i lembi della camicia e chinavo la testa sotto i sedili per piangere i dispersi, mentre altro caramello mi si proiettava addosso al sudore del collo in confuse ombre viscose. Scricchiolii sconcertanti lamentavano i tiranti del sipario fin sugli snodi dei tubi innocenti, tra gli sguardi affilati dei macchinisti. Dietro le quinte due impresari masturbavano ritmicamente il regista, rigando la pelle irrigidita con i grossi anelli d’ottone conficcati nei pollici. Potenti scariche di scintille evacuavano il vetro infranto di un faro di scena, mentre con un braccio sui popcorn mi arrampicavo tra i rumorosi seggiolini di legno cercando di accendere una sigaretta con un cavo elettrico scoperto. In lontananza, il cane guida di uno dei cabarettisti si specchiava in una boccia da pescerosso piena di minuscoli bambini di polistirolo, che scorrazzavano urlando in preda al panico per sfuggire a una lunga cannuccia di alluminio che li risucchiava dentro scatoloni di frigoriferi e televisori al plasma. Una grassa massaia scivolava lungo gli stretti corridoi sfoggiando una parannanza macchiata di brodo e un cestino di frutta secca da rifilare a qualche storpio annoiato, ma procedeva senza criterio e continuava a importunare la solita decina di ragazzine delle ultime file. Una guardia giurata fece il suo ingresso pistola alla mano spalancando la porta a vetri della sala con un calcio, poi esplose un colpo in aria suscitando l’ilarità generale. Alcuni precursori svitarono i seggiolini dal pavimento voltandoli all’indirizzo dell’uomo armato, seguiti a ruota in pochi secondi dal resto degli spettatori. I cabarettisti percepirono la comparsa e si misero a immaginarsene la figura seduti sul palco a gambe incrociate, mentre il fascio di luce del faro principale correva a vuoto lungo il pavimento e le pareti della grossa sala nella disperata ricerca di un protagonista. La guardia giurata se ne accorse e esplose un secondo colpo verso il faro, prendendolo di striscio per andare poi a frantumare la cannuccia di alluminio. Fiotti di bambini di polistirolo colati giù dal palco scorrevano per terra controcorrente, risalendo la discesa delle mattonelle per confondersi con i popcorn sotto il sedile e lasciarsi avvolgere dal tocco materno della mia camicia umidiccia e untuosa. Il più piccolo di loro si staccò di bocca il ciuccio di gomma e lo rimpiazzò con un fischietto a ultrasuoni che rimbombò nell’aria gelida comprimendo le tempie dei più attenti. Caddi svenuto sul pavimento, e riaprii gli occhi solo quando il livello del fango dei mocassini cominciò a saziarmi le mucose delle guance. Rialzai la testa sull’orizzonte della scena; la guardia giurata si era appena sparata un terzo colpo sul ginocchio e un quarto dritto sul pomo d’Adamo, e si dissanguava dal ridere. Gli impresari riuscirono finalmente a far venire il regista, che si accese una sigaretta e crollò addormentato tra le loro braccia umidicce. Un lungo applauso e ce ne andammo tutti a casa.

48 febbraio

Fuori da quella casa mi ritrovai strattonato dalla sera e dalla pioggia battente della strada. Tornai di nuovo a reclinare l’ombrello in avanti sul capo; perduto nell’immagine di un cappello da cowboy, la mano sulla fondina e l’inquadratura a mezzo busto sullo sfondo dei cactus, la fissavo dall’altra parte della strada, osservarmi rinchiusa nel cappuccio impermeabile. Non sapevo come comportarmi, ma per fortuna sul momento non ci feci caso e aspettai immobile per un attimo che le macchine continuassero confuse a dividere i nostri marciapiedi. Ci incamminammo verso il cofano lasciato volutamente deserto e complice della sua automobile, con l’incertezza tipica delle situazioni consapevolmente pianificate, e continuai a tenermi il cappello tutto per me, in avanti sul capo in attesa della venuta del Dio Sceriffo che mi lasciasse il ritmo di una battuta sagace e la testa del cane schiacciata sul pollice del copione. Mi portò via di peso, ancora combattuto, tenuto sotto chiave dalla fronte in codice e dal passamontagna. Avevo provato come fosse vivere senza quel passamontagna, giusto qualche ora prima, e ne ero uscito con la nausea infilata a forza nello sfintere delle pupille e il vomito che mi premeva in gola. Il resto della notte fuggì via come briciole nell’esofago di un grosso cane bagnato di vino bianco e acqua tonica; strappai trecento metri alla mia macchina, mi ingozzai di verdure combinate a casaccio nella scodella e svenni sul letto in bombole di reflussi e chiave del gas aperta. Mi svegliai dall’odore di carne abbrustolita, con la lampadina accesa che mi era caduta addosso. Mi tolsi i pantaloni barcamenando sul perno del gomito, e sfilai il passamontagna. Mi tenni ferme le due grosse palle rosse degli occhi con la punta delle prime due dita disponibili, lasciando frizzare il dolore dei brandelli rosso accesi di carne incrostati negli zigomi e sul collo. Senza protezioni, una mattinata senza tempo mi consegnò alla sudorazione di qualche nuova avventura. Restai incinta e mi abortii sul momento, pisciandomi nel lavandino con la testa colata lungo lo specchio. Sul comodino, la faccia deformata in sussulti di gomma e plastica spiegazzata mi controllava senza vita, dall’alto del suo sguardo da pesce. Compatendomi.

47 febbraio

Uscii solo dal bar e me ne andai verso il klan. Tardo pomeriggio, giornata piovosa, ombrello reclinato in avanti sul capo per discrezionalità e passo senza volto, mi fermai davanti alla porta di casa di uno degli affiliati, lanciai un occhiata al marciapiede e ci scaraventai sopra una pozza di mozzicone galleggiante. Dentro, si stava già consumando. Mi tolsi il cappotto, raggiunsi il bagno e vomitai facendo attenzione a non ripulirmi subito dopo. Nel suo specchio arrugginito il nerolucido slabbrato degli occhi logorava i piccoli contorni azzurri in profonde guerre di predominio. Nella sala, il grosso neon penzolante annusava i confratelli; seduti in cerchio a occhi chiusi tastavano i rispettivi foglietti degli appunti sognandone appendici bibliche e postfazioni geometricamente allineate. Le dita si spostavano a proprio piacimento sulle righe, avanti e poi indietro, inseguendone gli orgasmi perduti nell’odore penetrante di chiuso e nel fetore delle fuoriuscite involontarie di liquidi organici e sudore lubrificante. Uno di loro tirò indietro la sedia di colpo, si slacciò i pantaloni e cominciò a misurarsi il cazzo con il volume di paleoantropologia, contando il numero di pagine sui centimetri arrossati. Presi posto nel cerchio, senza farmi notare, e con una grossa enciclopedia a portata di mano presi a fare lo stesso tralasciando di annotarne i risultati. Con l’altra mano cominciai a tastare numerose frasi di senso incompiuto. Senza pensarci due volte compresi il valore della sensibilità femminile nella fila all’ufficio del catasto, mi convinsi dell’inadeguatezza dei mammiferi di fronte alla ginnastica artistica del lunedì pomeriggio e dell’importanza dell’autostima nel perlage dello champagne. Uno schizzo di spumante mi bagnò gli zigomi nudi, e cominciai a rimpiangere i bei tempi andati di palpebre funzionanti. L’arabesco intricato di muscoli facciali scoperti frizzava come piombo fuso sulla nuda mandibola di un esiliato. Mi alzai di scatto lanciando nel vuoto l’occhio sinistro, e corsi nuovamente al bagno per vomitare. Stavolta senza fare attenzione ad accendere la luce, seppellii il vecchio pasto sotto una seconda crosta di gengive scoperte. Vidi una camicia tagliuzzarsi il cazzo di baguette con un coltello da cucina, mentre sul lavabo si spezzettava l’aglio per recuperare le energie di una lettura impegnativa. Intuii l’andazzo e abdicai.

46 febbraio

La mattina seguente mi risvegliai nella cella silenziosa, immerso nelle chiazze di bava prive di conoscenza. Disteso sui polmoni, il cranio a battiscopa segnava il confine tra la sabbia e il cielo scrostato. Sulla soglia della porta, intravedevo le timide luci biancastre dei neon nel corridoio, sorvegliate a vista dalle braccia conserte della maestra. Si diceva fosse la madre del veterinario, sebbene l’aspetto giovanile di lei sembrasse tradire qualche sotterfugio privato, nascosto tra i loro corpi infranti. Puntai i pugni sulla geometria perfetta di un cerchio rosso fuoco di vomito venato di sangue, e mi rialzai sniffando le prime fatiche della mattinata. Un ferro da stiro mi colava lungo la schiena, coprendo col vapore i segni delle grattugie della buonanotte, e finalmente ottenni udienza presso la vigilante di guardia. La maestra si accese una sigaretta con la bocca ancora piena di tonno e pomodoro, tirò su col naso e mi mostrò le scale antincendio della piramide. Senza fare questioni, la presi per il collo e la trascinai alla mangiatoia, un piccolo bar vecchio stile coronato di piastrelle opache e spine verde pastello. Ordinai due scatole di caffè all’ingrosso, ne versai la prima nella tasca dei pantaloni e la seconda in una tazzina rigata, allungandola fino alla mascella per annusarne l’inconsistenza. La maestra mi fermò la mano dolcemente. Puzzava ancora di tonno unto, si tolse un gessetto colorato di rosso dalla calza e mi segnò una croce sulla fronte. Si sfilò il tacco e ne estrasse con cura un bisturi dalla suola, richiamando d’esperienza tutte le mie attenzioni. Lasciò che mi specchiassi per un istante nell’acciaio della lama, poi aprì la bocca e partendo dall’estremità nascosta nella profondità della gola cominciò a segnarsi lentamente la lingua, con ipnotici movimenti ondulatori. Con l’altra mano mi strinse i capelli e mi schiantò il profilo sinistro sul tavolo, tenendosi a portata l’altro orecchio. La lama perforò la prima superficie della carne e ne lasciò fuoriuscire una tiepida marmellata maliziosa, che prese a scorrermi sotto il timpano, tagliandomi fuori da ogni rumore di fondo. Il silenzio improvviso durò poco, lasciando il posto a un fischio sempre più insistente che rapidamente si sfogò a tutta velocità sulle rotaie delle mie meningi. Mi premeva la testa sul tavolo e strabuzzando gli occhi non potevo far altro che aspettare il passaggio dell’ultimo vagone del treno. Nella carne solo il desiderio di quella brezza gelida di vento che subito dopo un treno altavelocità sbatte in faccia ai pendolari ammucchiati dietro le linee gialle mozziconi di cicche e cartacce varie lasciate cadere sulle rotaie dalle tasche rigonfie dei turisti. Cercai di riaddormentarmi, scivolando addosso al dolore e all’insistenza, ma le dita mature della maestra cominciarono a carezzarmi le palpebre cianotiche. Come cercai di guardarla, con l’altra mano impugnava ancora il bisturi, mi sollevò un lembo di carne dagli occhi e lo inchiodò con forza al tavolo perforandolo con la lama. A quel punto mi misi a ridere, e combattendo la singolarità di quella posizione forzata alzai un braccio e lo mandai a raccogliere l’abbraccio della maestra. Mi baciò la lingua delle unghie e aspettò al mio fianco il passaggio del treno.

45 febbraio

L’ultima cella della piramide era la stanza dell’incantatore. Un vecchio animale di cattività, ricamato intorno a eleganti abiti lunghi violacei, varcò la soglia per chiedergli informazioni e si trovò straniato da un particolare senso di familiarità, conficcato di forza nel bulbo oculare al posto dell’occhio sinistro, insieme a una moneta arrugginita. Lira lituana, di quelle più grandi, leggera come fibra di carbonio. L’incantatore si guadagnava da vivere praticando ripetizioni di latino e greco, sodomia e travestimento, anche se tutto il mobilio pregiato e la collezione di quadri se li era pagati facendo l’informatore. Chiunque avesse bisogno di qualche dritta, sapeva di poter contare sulla discrezione e sulla curiosità di quella vecchia cariatide deforme. Lo chiamavano incantatore per la sua rinomata abilità nel comunicare con i testicoli. Nel tempo trascorso in sua compagnia, si diceva che i testicoli emanassero vapori di putrefazione, nel tentativo disperato di ribellarsi a un padrone cui non riconoscevano tanta autorità come all’incantatore. E non mancava mai gente disposta a sborsare onorari drammatici pur di provare l’eccitazione di quell’estraniamento corporale. Non avevo mai fatto prima di allora la donna delle pulizie, e fu col detersivo nelle vene che per quel secondo lavoro smisi di mangiare carne animale. L’aria di un profondo senso di rispetto nutriva le frizioni dei gomiti, colandomi addosso con rapidi colpi di spugna. Il fetore profondo della sua voce penetrava nelle vertebre e ogni volta mi faceva perdere l’equilibrio per qualche minuto, come se mi fossero arrivate in faccia una trentina di palate consecutive di escrementi, smanacciati di fretta dal fondo della gabbia di uno zoo da una squadra di muratori senegalesi con le labbra ingiallite dal fumo e dai reflussi intestinali. Nella sua cella si respirava sabbia umida e calcinacci; mi si era fulminato il rene sinistro da un calcolo grosso come un pompelmo, così mi visitò. Mi appoggiai al bancone da macellaio adibito a scrivania, carezzando le incrostazioni di sangue con il grembiule di servizio. Mi tolsi i vestiti fino a sentire il brivido di freddo trasferirmisi addosso telepatico dalla grossa moneta lituana. Sentivo il riflesso distaccarsi dall’alluminio e corrermi sulla pelle come un vitello rimesso in libertà dopo l’avvelenamento della carne, per una dose combinata di fretta di vaccino e steroidi. Uno spettro di frizzante impiccagione mi gelava i pori della pelle, segnando vampate di pneumatici sui tessuti a disposizione, fino a sprofondare dentro di me, tra i nervi e le vene con sussulti euforici di freno a mano. L’incantatore mi avvolse il pompelmo, lo riempì di saliva e lo trascinò con sé fertilizzato. Cominciò a grattarmi la superficie inferiore del pene con le otturazioni dei denti di sotto, e senza rendermene conto eiaculai di nascosto il fumo della sigaretta, la cenere caduta sul letto a segnare le macchie di incontinenza, e poi pisciai il mio terzo testicolo. Con affetto materno, raccolse dalle mattonelle polverose del pavimento l’ovetto schiacciato alle estremità, strofinò le fresche venature pulsanti portandosi con l’unghia del pollice i granuli espulsi dai miei reni sulle gengive, per poi schiacciarli sotto i denti e farne fuoriuscire il succo. Ne bevve due, e piazzò i restanti in un raffinato calice conico di vetro da aperitivo. Recuperò quanto possibile dal pavimento e dal bancone da macellaio, conficcò il testicolo in uno spiedo, leccò il bordo del bicchiere e ultimò il tutto con un velo di sabbia e polvere dei calcinacci. Dopo raccolse lo sguardo e me lo conficcò nelle pupille insieme a una piega sulle labbra appena percettibile, tamburellando col mignolo sul basso ventre a tempo di denti in bella vista. Presi i miei resti dal grembiule, mi lasciai cadere lungo il muro e crepai in un sorso. Servito freddo.