Attività cerebrale col sapore di stufa al quarzo sui calzettoni color perlage ripiegati nella polvere, indice sinistro sospeso sulla F, a ruota l’invidia dell’altro sospesa sulla J, Cellini forte e libertango. Sai, il problema è che parlare con te a volte è come interagire con una scatola di viagra purissimo, anche se per le definizioni migliori ancora devi aspettare il prossimo cartello di divieto. Ragiona, aspetta che ti sbatta addosso l’orecchio di quando non possiamo, e come a vederti cadere nuda svenuta mi sembra d’esser solo a suonare le ghignate maledette nascoste in mezzo al tabacco. Dritte a succhiarmi via le pupille, come sempre solo un attimo prima di farsi scoprire. Ho la paura del fumo, parlami, se qualcuno parla c’è luce, te la ricordi questa? Io credo che faresti meglio a disinfettarti la prossima volta, ma non te ne faccio adesso una colpa, con tutte queste immagini da scolpire sulla lapide che mi rincorrono per la strada. Mi pare comunque d’aver ricominciato a esser capace di accoltellare la gente. Me ne sono accorto stanotte, pensa te che per la paura di dimenticarlo m’era quasi presa voglia di scrivertelo per messaggio; non è facile, c’ho messo tanto a ricordarmi come si fa ad essere sempre stati quindicenni aggrappati alla moquette. Ogni tanto qualcosa mi sfugge via: vorrei riuscire a non simulare, non capisco perché non sono mai riuscito fino in fondo a registrarmi quando parlo da solo. Al momento giusto mi sono sempre interrotto, mi sembrava di forzare la mano, di perdere naturalezza. Eppure una volta ci riuscivo, anche senza rassicurazioni, ma tutto insieme non si può pretendere e lascio correre per stavolta. Non ti preoccupare per me, so badare a me stesso anche se il problema è che non mi riguardo, non c’entro niente poi alla fine, e so che anche questo domani me lo ricorderò, magari insieme a due baffi ingellettati da piantarti sulla faccia tanto per farsi una risata insieme alla tazza di caffè. Non te l’ho detto ma ne ho comprata una ancora più grande, da potercisi lavare i capelli dentro, con quel caffè. Sta arrivando il controllo, ti devo lasciare. Come sempre ti prego di fare attenzione al filo quando richiudi il barattolo nell’armadietto del bagno, non vorrei dover esser costretto a stare altri tre quarti senza sentirti. Per domani mi sono preparato un bagno caldo di prospettive erogene da sostituire a quelle vecchie, credo di non poterti più dire niente se ti viene voglia di offendermi. Ma tranquilla, me lo ricordo bene che quel matto che pensa al futuro, e magari crede pure di organizzarselo, merita d’essere legato al primo palo sulla sinistra e preso a secchiate di catene in faccia. Mi manca soltanto il passaggio in cui puoi riuscire a convincere uno qualsiasi dei centimetri quadrati del collo a ubriacarsi della saliva altrui a tal punto da togliere il senso alle definizioni di realtà, e cominciare a far la parte del ricordo nelle scacchiere degli altri, invisibile una volta di meno. Il pugno, proprio quello chiuso nella tasca, che cerca l’interruttore nell’idea che s’è fatto di quel lampione colorato all’inglese; tutto tranquillo mentre cavalca spavaldo un capo ufficio marketing da soma, che per ricambiare l’indifferenza insiste sognando, e già si vede con la polaroid al polso andare a reclamare un sorso di biada dalle unghie conficcate nella carne dentro la tasca dei miei pantaloni, così perdutamente assorti nel segreto della X sulla mappa degli interruttori timidi che non funzionano. Eppure quel filo trattalo bene, facci un altro nodo sul fondo del barattolo, quando senti il bavaglione a quadretti col bambino legato al collo che comincia a battere i cucchiai sulle macchie incrostate della tovaglia. Non ci sono più i vizi che mi ricordavo, sai? Solo qualche giorno fa ci facevo caso, a una tipa amante degli animali nel corridoio che dava da mangiare ai pesci qualche forchettata del vomito accumulato nella lettiera del gatto, senza prima nemmeno passarlo qualche minuto dal microonde. Credo che al posto suo avrei saputo come divertirmi, almeno un po’ di più, ma nessuna delle espressioni disegnate dalle mani davano d’intendere che ne avesse neppure la voglia, di provarcisi a immaginare in una discussione al limite della buona educazione col capo pesce seduto sul tostapane, trattenendo a sforzo la corpulenza tipica mediterranea dei quarantasette prosperosi denti coppa C in fila per due col resto di mancia, a prendere il sole alle spalle di due guance compassate grondanti sudore e sfiancamento. Alla faccia di chi ci vuole male e degli intricatissimi muscoli facciali, che magari nel frattempo ti guardano e tutti seriosi si domandano sotto a cosa si può riparare un carcerato quando arriva il terremoto. Il futuro era ieri, e mi faceva tanto ridere. Resta il fatto che qui il perlage effervescente sotto la lingua non è affatto male, anche se a volte con te mi sembra di parlare con una scatola di viagra.
Tagliato male.